ROMA

Taxiwriter 2. Pasolini un po’ più in là

Tra una corsa e l’altra alla guida del suo mezzo, Andrea Panzironi riflette, discute e osserva gli angoli di città in cui la storia ha lasciato delle tracce. Il secondo racconto per dinamopress

Negli occhi grigio verdi di Luca si specchia un raggio del sole obliquo del lungo tramonto di questa ambigua primavera e nelle sue vene, ingrossate dallo sforzo del canto, scorre il sangue delle isole di capoverde, mentre intona il suo rap che è un miscuglio appiccicoso italo/portoghese/romanaccio che si attacca ai miei timpani. Poi d’improvviso smette. “Io sò itagliano! Nato qui, cresciuto qui! Lavoro qui ! “, mi dice, guardandomi dallo specchietto.  “ Adesso faccio il cuoco e un giorno farò il musicista, questo è sicuro “,continua. Poi prosegue raccontandomi di suo padre, ex pescatore nell’oceano delle sue isole d’origine e di quando venne a Roma, e di suo fratello più grande, ucciso anni fa dalle cure inefficaci di novelli medici inviati a fare esperienza sui numerosi corpi a disposizione negli ospedali delle periferie dell’umanità.

“ Adesso mi hanno chiamato pe fa ‘na puntata “. C’è un nuovo format tra i tanti format televisivi, vengo a sapere. In questo metteranno insieme musica e cucina, ormai cucinano tutto, pure i sentimenti, penso tra me e me. Anzi presto saremo governati dal mega president chef nella nuova Repubblica cuococratica. La cuococrazia che avanza ….

Arriviamo all’entrata dell’ospedale dove hanno ricoverato suo padre dopo il terzo infarto. Lo siamo venuti a prendere per riportarlo a casa. L’attesa è meno lunga del previsto. Luca esce spingendo una carrozzina dove è seduto il padre, che mi guarda come un vecchio leone ancora orgoglioso della sua vecchia e ormai inesistente criniera, simbolo di comando. Assecondo il suo sguardo mentre insieme al figlio lo accomodo nell’auto. I suoi occhi cerulei ruotano lenti quando dialoga con il figlio. Il loro è il dialogo delle periferie d’oggi, dove,  grazie all’alternarsi dei più coloriti toni sonori e all’uso dei neologismi più fantasiosi creati con i diversi dialetti che hanno attraversato come fiumi in piena le vite di certe persone costrette a migrazioni forzate, è stata creata la lingua di una vita ancora possibile.

Una nuova disperata vitalità si sprigiona dalle loro bocche e dai loro gesti, un nuova fusione di significanti si genera inesorabilmente, come una nuovo tipo di erba tenace che vuole crescere nei vecchi anemici prati di periferia. Già , penso, i pratoni della Casilina, dove il Poeta ambientò pagine memorabili della sua opera. Le periferie di allora,Pigneto, Garbatella,Mandrione, adesso rivendute a peso d’oro grazie alla gentrification ( la bruttissima parola descrive perfettamente la bruttissima speculazione che hanno subito certe periferie) si sono spostate un po’ più in là, a ridosso o appena oltre il grande raccordo anulare. Arriviamo infatti a destinazione. In questo palazzo di edilizia popolare, su via Tor Tre Teste a ridosso dell’incrocio con la Casilina, vive il padre  di Luca ed una parte della sua inevitabilmente numerosa famiglia. E’ un palazzo con gli esterni “a specchio”, come se per ironica cattiveria l’architetto progettista abbia voluto far entrare un po’ di cielo in questi appartamenti destinati a chi quel cielo lo ha avuto per molto tempo come tetto.

Ad aspettarci ci sono tre cani randagi e due grasse signore senza più denti sedute all’androne del palazzo che orgogliose sorridendo ci mostrano  ciò che non hanno più da mostrare. I cani fuggono via appena accosto l’auto al portone. Luca, già in silenzio da molto tempo, ha perso la sua iniziale loquacità, zittito dal dialogo doloroso col padre, come spesso sono i confronti tra due generazioni prossime all’addio. Incrocio il suo sguardo col mio. Salutandoci gli chiedo dove posso ascoltarlo e lui a mezza bocca mi dice con una frase senza più tono, una sigla da rapper che ora non ricordo più, come se quel luogo così triste gli avesse di colpo tolto la forza di credere in se stesso. Eppure, andandomene da quella via dall’asfalto color della ruggine colata nelle notti di pioggia dalle carcasse delle auto rubate e lì abbandonate, penso che un giorno lo risentirò; riascolterò, girando tra le onde radio dell’etere, quel miscuglio appiccicoso di parole inventate e di vita vissuta.

Tornando indietro arrivo all’incrocio con la Casilina, guardo il raccordo anulare che vomita una unica fila di auto ininterrotta in direzione del centro della città, e l’ultimo raggio di sole che sta per morire dietro gli scheletri eterni di uno sfasciacarrozze, mi arriva dritto negli occhi scaldandomi l’anima. Percepisco che il Poeta non è morto davvero, si è solo spostato un po’ più in là.