ROMA

Taxiwriter 23. Troppi galli a canta’ , nun se fa mai giorno

Tra una corsa e l’altra alla guida del suo mezzo, Andrea Panzironi riflette, discute e osserva gli angoli di città in cui la storia ha lasciato delle tracce. Ventitreesimo racconto per dinamopress

Sono da poco uscito dal tunnel (non quello di Caparezza) denominato Giovanni XXIII. Il cliente seduto dietro è assorto nella lettura del giornale. Non proferisce parola. Da piazza Mazzini , dove è salito, mi ha chiesto di essere portato in via Pietro Bembo. Questa è una lunga e stretta via che corre parallela a via di Torrevecchia nel popolare e popoloso quartiere di Monte Mario. Guidare in assenza di traffico dona sempre una sensazione di libertà e leggerezza che ti chiedi come fai a non amare questo lavoro. Per essere smentito poco dopo, come succede quasi sempre. Ma almeno in questo il lockdown si fa apprezzare. Arrivati a destinazione accosto in prossimità di una fermata d’autobus. Il cliente, adottando il regime minimo di parole necessarie, paga, saluta e scende. A mia volta ricevo, rispondo al saluto e attendo la chiusura dello sportello per riavviarmi. Ma la portiera non si chiude. Resta aperta. Sto per alzare la voce verso il cliente distratto, quando appare una donna anziana, piuttosto grossa. Cammina claudicando. Evidentemente ha fatto cenno al cliente precedente di non chiudere. La donna sale a fatica sul taxi. Chiude lo sportello, sbuffa soffiando nella mascherina che sopporta a malapena, il suo sguardo è eloquente, alza le sopracciglia come a dire, che me tocca sopporta’! Poi lo dice veramente. Quasi sfogandosi. Mi chiede cortesemente di essere portata all’Aurelia Hospital che nonostante la denominazione è un ospedale di Roma, sito appunto sulla via Aurelia, appena prima del raccordo anulare.

 

La radio è sintonizzata sul terzo canale Rai, uno dei pochi che apprezzo per tutto il suo palinsesto. Sta per concludersi il Gr.

 

Le notizie ovviamente sono tutte sul coronavirus. L’ultima è una dichiarazione del commissario tal dei tali che ha appena annunciato che le mascherine saranno date a tutti a un prezzo calmierato. Smentendo così l’esperto nominato dal governatore della più grande regione del Nord, il quale poco prima aveva annunciato che il commissario nominato ad hoc dall’assessore alla sanità regionale, contraddicendo il ministro alla sanità, aveva già acquistato un milione di mascherine da distribuire gratuitamente alla popolazione, ma che queste, importate da una azienda di proprietà di una ex presidente della Camera dei deputati, erano illegali e non certificate. Ma certamente già pagate, sia chiaro. Finalmente il Gr, con le sue tragicomiche ed avvolgenti notizie termina. Inizia il concerto di mezzogiorno dedicato a Bach. La suite inglese numero due, magistralmente eseguita da Friedrich Goulda, è un elogio alla armonia e alla matematica. Sia io che la signora seduta dietro ne rimaniamo estasiati. Silenti ascoltiamo. Lo scenario intorno è irreale nella sua eccezionalità. Questa via così deserta, così quieta, così silenziosa non lo sarà mai più. Penso. La signora sembra aver ascoltato il mio pensiero. Esclama con una certa fermezza eppure con una vena di dolcezza, guardando fuori e in alto verso il cielo, che come era prima non tornerà mai più. Non riesco a capire se ne sia contenta oppure no. Forse entrambe le cose. Ed è un pensiero che faccio anch’io ogni volta soffermandomi sulla città che scorre intorno a me. Contento della apparente calma, del poco rumore, ma preoccupato da tutta questa quiete che come l’acqua cheta è capace di buttare giù i ponti. Continuando a parlare la signora mi dice che suo figlio ha avuto un incidente. Auto distrutta e lui per fortuna salvo, eccetto che per una gamba rotta. Povero ragazzo, mi dice. L’aveva comprata da poco e ora che è rimasto senza lavoro, perché fa il rappresentante di commercio, come farà a pagarla? E fosse solo questo il problema! È pure separato e con una figlia da mantenere. Se non ci fosse lei con la sua pensione ad aiutarlo, come farebbe? E che ne sarà del suo lavoro? Riprenderà? E come?

 

Tutti punti interrogativi che riempiono il mio taxi e come tali non se ne vogliono andare. Anzi, restano qui, ben presenti anche per me.

 

Non abbiamo la benché minima ipotesi per trovare soluzioni. Pronuncio un paio di frasi fatte, mi avventuro in considerazioni banali, rimando ai politici che troveranno soluzioni adatte. La signora si lascia andare ad una risata liberatoria. «Ma li hai sentiti? Per radio poco fa?», dice. Si che li ho sentiti, mi dico. «Ognuno dice la sua, e nessuno sa veramente cosa fare!», conclude. Via Aurelia è ancora lontana, via Mattia Battistini è un enorme fiume placido e deserto. Giro a sinistra e risalgo, arrivo in via Boccea, che non è più la via caotica infestata dal traffico e dai rumori che conosco. Resto spiazzato per in attimo. Esito se andare a sinistra o a destra; mi accorgo che spesso, nella abitudine del caos quotidiano, seguo il flusso del traffico senza pensare. Vado dove gli altri vanno. Come le formiche che rientrano nel formicaio. Riprendo la concentrazione sulla meta finale. Giro a sinistra, proseguo fluido. Chiedo, incuriosito, quale sarebbe la soluzione, secondo lei, la soluzione per uscire da tutta questa vicenda. Allora la donna si solleva un po’ dallo schienale, si aggrappa alla maniglia. «Vedi, devi sapere che io ho fatto per tanti anni la caposala in un reparto di malattie infettive», mi fa guardandomi dallo specchietto, «e non c’erano tutti questi esperti, tutti questi commissari, non c’erano consulenti né tutti ‘sti canali televisivi, e neanche ‘sto cacchio de internette!», sbotta ricadendo sullo schienale…. «Eh no…», dico per sostenere il suo discorso. «Allora uno parlava e tutti eseguivano. Cioè il primario ci diceva come dovevamo fare e tutti facevamo come diceva lui», continua ,«e i politici erano quelli nazionali e tutto partiva dal ministero della salute, direttive, materiali, indicazioni, personale….tutto era gestito al ministero e tutti eseguivano, chiaro», mi intima, quasi. Io annuisco, convinto dalle sue ferree argomentazioni. «Queste epidemie ci sono sempre state, mi ricordo che ogni tot anni ne scoppiava una. Ma magari non c’erano tutte ste notizie, sto traffico internazionale, insomma er nonno era più grande…e sai quale era il disinfettante più efficace, forse l’unica cura veramente bona ?», mi chiede. Io esito, lei continua «Er sole!», esclama. «I malati li mettevamo al sole come i panni a stendere e quelli con po’ de tempo e pazienza guarivano…», conclude. Anzi, aggiunge perentoria: «E solo uno parlava, mo’ con troppi galli a canta’ nun se fa mai giorno!».

 

L’Aurelia Hospital, che abbiamo finalmente raggiunto, sembra un monumento allo stato delle cose attuale. Grigio, apparentemente decadente, poco organizzato anche solo per accogliere i mezzi di soccorso, sembra un nave lasciata alla deriva.

 

Arrivo di fronte al pronto soccorso. Scendo e vado ad aprire lo sportello alla signora che con fatica e un cenno di dolore riesce a scendere. Vuole lasciarmi una mancia, ma io cerco di oppormi, anzi le vorrei fare lo sconto. Lei però mi blocca con una frase limpida e piena di dignità, mettendomi la banconota da venti euro in mano : «Io ho lavorato quarant’anni e so che significa lavora’, tanti auguri», mi fa salutandovi e avviandosi all’entrata. Risalgo in auto e andandomene penso che potremmo farcela anche stavolta, se conserveremo memoria e dignità.

 

Illustrazione di copertina dell’artista Marisa Dipasquale