ROMA

Taxiwriter 18. Ostiense, la via dei pirati

Tra una corsa e l’altra alla guida del suo mezzo, Andrea Panzironi riflette, discute e osserva gli angoli di città in cui la storia ha lasciato delle tracce. Un nuovo racconto

La pioggia viene giù senza pause. Il ticchettio  lieve delle prime sottili gocce si trasforma in un suono di tamburi in poco tempo. Ora le gocce sono grasse e sembrano voler sfondare il tetto dell’auto. Attendo da una decina di minuti il prossimo cliente che immagino sarà zuppo, pieno d’acqua, col solito ombrellino improvvisato, inadeguato al temporale che ora sembra voler travolgere tutto ciò che mi sta intorno. Il grigio mi circonda, eppure luminoso e piacevole è l’aspetto del cielo, come se Storaro in persona ne avesse curato l’illuminazione. È un set perfetto per un film, penso. Testaccio è sparita in pochi attimi, inghiottita dalla pioggia. Vedo solo lampi lontani, poi sempre più vicini, finché uno esplode sopra di me. Sobbalzo insieme all’intero taxi e come per magia lo sportello posteriore si apre. Un nuovo lampo illumina il volto del cliente. E la magia si compie. Rapido l’uomo sale.

Gocciola acqua dall’ampio cappello che gli copre la testa. Scorgo solo due lunghi baffi bianchi che spuntano da sotto le falde del cappello. Noto che indossa una strana giacca, come una giubba gialla da pirata dei Caraibi. L’uomo si toglie il cappello. I suoi occhi sono due tagli sottili nella carne curiosamente abbronzata del suo volto. La bocca nascosta dai baffi. I capelli lunghi e striati di bianco sono legati da una treccia che finisce sulla sua spalla sinistra. “Andiamo al port !”, esclama. Resto interdetto,mentre la pioggia aumenta ancora di intensità. “Al porto? – ribatto – quale porto?”, concludo. “Il porto di Ostia, è lì che sta la mia imbarcazione!”, esclama di nuovo. “Ma è sicuro?”, cerco di dissuaderlo. “Certo che sono sicuro, al porto di Ostia, su andiamo, il mio veliero mi aspetta!”, dice.

Cerco di trovare un motivo valido per non andare, la pioggia incessante mi impaurisce e visualizzo la strada invasa dall’acqua. Maledico il mio lavoro che mi lascia in balia degli eventi più inaspettati. E dei personaggi più strambi, che attiro come calamita i metalli, penso. “Dai su, stai tranquillo, facciamo la via Ostiense. Lì non è mai morto nessuno!”, cerca di tranquillizzarmi il pirata invasato che mi siede dietro. “Sì, fino ad oggi”, dico facendomi convincere. Con la certezza nell’animo che non vedrò il domani avvio il taxi affrontando la tempesta. Vedo già i titoli dei giornali del giorno dopo: “Taxi inghiottito dalle acque sulla via Ostiense, muoiono il tassista ed il cliente mascherato da pirata”. Affronto la strada con i tergicristalli che furiosi si agitano invano. L’acqua è un fronte unico, compatto, sembra colore colato giù a secchiate. Adesso la guida è un’esperienza esclusivamente tattile.

Sento la strada sotto di me, sento vibrare ponte Sublicio sotto le ruote, ne percepisco i tremolii dovuti alla sua vetustà età.  Ecco, ora il Tevere porterà via tutto, ponte e noi sopra. Stringo le natiche e passo il ponte. In piazza dell’Emporio decido che è impossibile proseguire. Accosto e fermo l’auto. L’uomo alle mie spalle impreca:  “Corpo di mille balene! Avanti su, senza paura! Avanti!”. Mi volto, deciso a oppormi, urlo anch’io stavolta: “Avanti dove?! Lei è un pazzo , non si vede nulla! Scenda e se ne vada!”, concludo sentendo il sangue che mi ribolle nelle vene. Ora temo una sua reazione, guardo le sue mani, convinto che abbia un uncino al posto di una mano. “Ah, lei è un pivello. Ha mai navigato nel Mar dei Sargassi in tempesta?”. Con una irrefrenabile risata, degna del peggior Joker, la mia reazione nervosa coglie il pirata in pieno.

Adesso è lui quello spaventato. Attimi di un lungo silenzio avvolgono la scena, mentre, senza apparente motivo, la tempesta esterna è cessata di colpo. È proprio vero che la quiete improvvisa dopo ogni tempesta arriva inattesa. Un colpo di clacson mi ridesta dalla collera. L’autobus dietro di noi cerca di riprendere la marcia. Riavvio anch’io il taxi. Imbocco la via Ostiense. L’asfalto ancora coperto dall’acqua è uno specchio che riflette ogni dettaglio degli enormi platani che alternandosi ai lecci fanno da cornice alla strada e ogni tanto porzioni di cielo fanno capolino tra le foglie. È un cielo ora incredibilmente azzurro, rigenerato e l’aria è fresca; il mio respiro tornato regolare si nutre ghiotto di tutto ciò. Il cliente si guarda intorno e inizia a raccontarmi storie e aneddoti in quantità. Ogni metro dell’Ostiense è nel suo vastissimo repertorio dei ricordi. Mi racconta della Sora Pierina che ogni giorno se ne stava seduta lì, accanto al portone del civico 36f , con la sua stazza da matrona trasteverina quale era di nascita, con la parlata romanesca di una volta intessuta di parole ora in disuso e accenti spostati, retaggi lessicali, echi sonori delle influenze dei vari popoli che qui sono passati e poi andati via.

E tutti si rivolgevano a lei, chi solo per un saluto, chi per un consiglio culinario, chi per un pettegolezzo su chissà chi, chi per sentirsi importante solo dal fatto di averle rivolto parola. Come se lei fosse la regina senza corona, quasi zingaresca, di quella piccola porzione di popolo che lì abitava. E che lei, la Sora Pierina ben sapeva di rappresentare. Proseguendo sulla via Ostiense il fluire delle parole del pirata, sempre più loquace, una pioggia di parole che ha preso il posto di quella d’acqua, continua ininterrotto. Non riesco a focalizzare esattamente la galleria dei personaggi che descrive, ogni tanto ne afferro uno e lo fisso bene in mente, come per non confonderlo nel grande mare di tutti gli altri. Allora appendo nella parete della bacheca mentale che di sta formando nella mia mente la figura di don Franzoni, già abate della basilica di San Paolo.

Il pirata mi dice di averlo conosciuto negli anni Settanta, quando lui e altri ragazzi senza speranza e senza famiglia furono affidati alla comunità cristiana di base che don Franzoni aveva fondato dopo che era stato destituito dalla carica di abate. Un raro esempio di prete delle alte gerarchie rimasto prete, cioè ultimo tra gli ultimi, afferma il pirata con voce vigorosa eppure rotta da una stilla di commozione.Ma il flusso dei suoi ricordi riprende in pochi istanti. Siamo adesso fermi al semaforo rosso di fronte alla storica trattoria del Biondo Tevere. “Qui veniva sempre il Poeta e ci venne pure l’ultima sera, prima di essere ammazzato”, mi dice. Si riferisce a Pasolini che era un cliente del ristorante, dove consumava frugali pasti, come dettava la sua dieta rigorosa, e che lo mantenne asciutto e atletico fino alla fine. Poi continua dicendomi che in quel ristorante è passato un pezzo di storia del partito comunista e del cinema italiano.

Lì mentre la Sora Pina e suo marito Vincenzo servivano piatti succulenti della migliore tradizione romana e laziale, Elsa Morante scriveva il suo capolavoro, La Storia. E sempre lì sotto, sulla riva del fiume che molti anni fa era biondo davvero e ci si poteva fare il bagno, lui e i suoi amici pescavano le anguille. Una volta, continua sorridendo sotto i lunghi baffi, costruirono una zattera e arrivarono fino al mare. E da allora loro divennero i pirati della via Ostiense. Ma molti oggi non ci sono più, come non c’è più quel fiume, quella innocenza, quel sentirsi amico di tutti perché tutti dividevano con gli altri quel poco che avevano e così si era felici, conclude guardando malinconicamente il cielo affrescato di nubi bianche e grigie. Un silenzio rumoroso, fatto di pensieri e ricordi accompagna un lungo tratto del percorso fino a Ostia.

Mentre i pini marittimi hanno preso il posto dei platani e dei lecci, la via Ostiense corre parallela a quella del mare, come parallele destinate a non incontrarsi mai, che ogni volta mi spiazzano nella scelta rapida di quale percorrere. Ma oggi non ci sono dubbi. Via Ostiense, ribadisce il cliente dietro di me. Guardo nello specchietto il pirata che sembra essersi assopito. Provo tenerezza per la generazione che rappresenta, per la loro fatica di ragazzi del dopoguerra dove il nulla e il niente erano le parole più ricorrenti e la fame la nemica unica da sconfiggere. Non bastava la loro sfrenata fantasia, oppure sì. Proprio grazie a quella sono riusciti a sopravvivere, penso. La fame è stata la molla potentissima che li ha fatti andare avanti, con la dignità e il coraggio che hanno solo coloro che la hanno conosciuta davvero. Siamo quasi arrivati, Ostia antica è dietro di noi.

Devio a destra in prossimità della grande rotonda che distribuisce il traffico tra Ostia lido e l’Idroscalo. Il pirata avverte la curva e si sveglia di soprassalto. “Va dritto” mi dice, verso l’idroscalo, è lì che sta il porto. Eseguo ed accelero. Scorgo l’entrata del porto di Ostia. “Ferma qua, so’ arrivato”, mi dice il cliente. Accosto. “Ma non entriamo, sono curioso di vedere il suo veliero…” , dico guardandolo negli occhi. Lui sorride, le punte dei baffi si sollevano , finalmente gli occhi neri e lucenti appaiono dalle pieghe che li tenevamo nascosti. “Ma che c’hai creduto ?”, dice. No, non c’ho mai creduto, penso dentro di me, ma mi sarebbe piaciuto fosse vera questa favola stramba da poter raccontare ai miei figli al ritorno da questa pazza giornata di lavoro.

“Sì ,certo, perché no!”, gli rispondo. “Io abito qui”, mi dice allungando l’indice della mano destra davanti a noi. Vedo un gruppo di basse casette, quasi baracche , costruzioni arrangiate a poca distanza della Torre di San Michele che svetta su tutta l’area. L’uomo si rassetta la giubba gialla, prende un foglio da venti euro, il tassametro ne segna cinquantadue. “Questi c’ho ….”,  mi dice con l’espressione di chi è abituato a fare le sole e a farla franca. Penso che almeno la benzina me l’ha pagata ed è già qualcosa, anzi. Poteva andare peggio.L’uomo afferra il cappello e scende, mi guarda ancora, come per assicurarsi dalla mia faccia se ci sono rimasto male. So che se così fosse ci rimarrebbe male pure lui e allora, con un certo sforzo, sorrido. Il pirata mi fa omaggio di un altro sorriso, stavolta ampio, senza limiti. Un dente d’oro sbrilluccica colpito da un raggio di sole.

Da una delle casette esce una donna di mezza età, vestita con una ampio vestito e le ciabatte ai piedi, tiene in braccio un neonato. Cammina veloce verso di noi. La sento gridare mentre agita le mani: “A papà, te sei ‘mbriacato pure stanotte? E da ieri che l’aspettamo, c’hai fatto sta ‘n pensiero! Sei un disgraziato!” urla la donna. L’uomo dopo aver chiuso lo sportello mi guarda con disperazione, come volesse risalire e fuggirsene via. Ma accelero faccio inversione e lo vedo nello specchietto mentre cerca di ripararsi dai ceffoni che la figlia gli ammolla. Sento un latrato di un cane al quale se ne aggiungono altri. Uno stormo di uccelli si alza involo dalla riserva della Lipu che costeggia la via. E ogni volta, a ogni volo d’uccelli, è come vedere l’anima del Poeta che proprio lì fu assassinato e che finalmente libera se ne vola via.