ROMA

Taxiwriter 15. In nomine patris 29 settembre

Tra una corsa e l’altra alla guida del suo mezzo, Andrea Panzironi riflette, discute e osserva gli angoli di città in cui la storia ha lasciato delle tracce. Il quattordicesimo racconto per dinamopress

Erano le quattro del pomeriggio di quattro anni fa, in questo giorno reso famoso da un cantautore seduto in chissà quale caffè, quando, mentre stavo per ritirare l’auto dal meccanico, mi arrivò una telefonata. Risposi già sapendo. Dopo alcuni minuti cadevo esausto ai piedi del letto di Mario, mio padre. Morto già da qualche ora.

Prima del tramonto, ritornando da casa dei miei, guidavo sulla via Ostiense lasciandomi la mole bianca della basilica di Paolo alle spalle, diretto verso quella triangolare della Piramide per poi aggirarla e raggiungere casa, dove mia moglie, col pancione in attesa del nostro secondogenito, e mia figlia, ancora ignare dell’accaduto, mi aspettavano per cena. Durante tutto il tragitto l’anestesia provocata dal dolore della perdita non mi permise di sentire nulla, eppure gran parte della mia vita trascorsa con lui si dipanava sulla strada che mi scorreva sotto. E rividi mio padre al mio fianco. Era lui che stava guidando, tra le vie di una Roma incantata degli anni sessanta, nelle piazze violente e protestatarie degli anni settanta, passando davanti alle vetrine lussuose del centro degli anni ottanta, ed infine tra gli stradoni grigi e polverosi delle periferie abbandonate degli anni novanta. Alla fine dei quali anche lui se ne andò in pensione, dopo aver condotto per una quarantina d’anni un taxi prima nero-verde nostalgia, poi giallo taxi driver ed infine bianco unione europea. E riascoltai alcune delle sue storie vissute nel suo taxi, dove Mastroianni ubriaco se ne tornava nella sua villa in Via di San Sebastiano, stonato alla fine di una notte brava passata in compagnia di mezzo cinema italiano; dove Fellini e Giulietta rientravano durante un temporale estivo nella loro casa in Via Giulia discutendo con le loro voci sottili di in nuovo film sul magico mondo del circo; dove un paio di dirigenti del PCI, nottetempo, si dirigevano al Bottegone, stravolti dalla trattativa sul Prigioniero catturato dai compagni che sbagliavano, a loro volta “traditi” dal centralismo democratico di un partito che si stava allontanando sempre più dalle masse; dove il Gobbo aveva l’umiltà apparente della Prima Repubblica per voler prendere un taxi nella pubblica piazza e farsi portare nel suo studio in Piazza in Lucina, lamentandosi delle troppe “correnti” che soffiavano nel suo partito; dove i luogotenenti dei “golpisti” socialisti andavano in aeroporto dal Midas tramando per entrare nel Governo nazionale; dove le gambe lunghissime di due gemelle tedesche si facevano portare negli studi Rai e da lì affascinare tutta l’Italia ballando il “dadaumpa”; dove Luciano Re Cecconi e Agostino Di Bartolomei, uomini più fortunati tra altri uomini, ignari del loro tragico destino, si facevano portare a Tor di Quinto oppure Trigoria per allenarsi e vincere a distanza di dieci anni uno dall’altro i due scudetti più belli di questa città; dove autentici giornalisti d’inchiesta su carta stampata, stanchi e assonnati da notti di lavoro dimenticavano sul sedile posteriore dossier scottanti di inchieste su armi e petrolio;  dove semplici domestiche dei Parioli raccontavano di corna e altarini di altolocate mogli annoiate del troppo avere e di tradimenti di mariti potenti distratti dal troppo potere; dove giovanissime modelle illuse dal facile successo della “moda” si lasciavano andare, tenere prede di agenti senza scrupoli;  dove i monsignori delle gerarchie vaticane predicavano sempre troppo bene la stessa storia per essere credibili; dove Sandra e Raimondo, e Corrado e Mike e molti altri volti cresciuti e pasciuti nella televisione in bianco e nero di “mamma” RAI in Viale Mazzini si trasferivano in quella ormai a colori del nuovo padrone brianzolo, tra un pranzo servito e una ruota della fortuna, facendosi portare negli studi del Palatino; dove poveri cristi senza una lira raccontavano delle loro pene e dei loro dolori per poi chiedere soldi a fine corsa invece di pagarla, la loro corsa, e dargli quindi qualcosa, scaramanticamente, avendo l’illusione di credere che in giorno il mondo sarà migliore di come appare, sperando di non finire anche tu come loro.

Un cane distratto attraversò ponte Testaccio, lo evitai sterzando con la forza dell’istinto e per poco non finì contro lo spigolo del marciapiede dove tanti anni prima si ammazzò Accattone cadendo dalla moto rubata. Mi voltai spaventato e mio padre non c’era più. Il sogno svanì, come era giusto che fosse. Fortunatamente trovai un posto libero sotto casa, nel grande slargo di Via Ettore Rolli. Dimenticando che era sabato sera e l’indomani non avrei trovato l’auto, portata via dai vigili urbani per permettere alle bancarelle del mercato di Portaportese di installarsi come sempre fanno, inesorabilmente ed invariabilmente, ogni domenica dell’anno. E alzando gli occhi al cielo gravido delle prime nuvole d’autunno, in mezzo a tutta la confusione dei venditori e dei primi compratori, tra l’odore aromatico del caffè e quello sgradevole del sudore dei venditori di ferrivecchi, dove tutto scorreva come sempre, dando vita alla vita comunque sia, vidi ancora una volta il volto di Mario ed il suo sorriso amorevole che canzonandomi diceva : «Coraggio, la vita è questa. Nient’altro che questa».

 

Illustrazione dell’artista Marisa Dipasquale