EUROPA

Svezia: la manovra a tenaglia contro rifugiatɜ e migranti

Come in altri paesi, anche in Svezia il governo di destra, costretto dalla recessione a rimangiarsi la promessa di una riduzione generalizzata delle tasse, punta tutto sulla politica identitaria: ridurre ai minimi termini l’immigrazione e far passare l’idea che il problema numero uno del paese siano le sparatorie tra gang di immigrati

Il governo del leader conservatore Ulf Kristersson, entrato in carica il 17 ottobre 2022, ha presentato a fine settembre una proposta di legge di bilancio giudicata inadeguata un po’ da tuttɜ: non risolve, ovviamente, i problemi dei ceti medio-bassi (la riduzione delle tasse prevista per dipendenti e pensionatɜ non compensa l’inflazione e i tagli ai servizi sociali) e delude chi percepisce uno stipendio alto (la soglia di reddito oltre la quale bisogna versare un’imposta aggiuntiva non è stata alzata). Diventa allora urgente (anche per pagare dazio agli ultranazionalisti Democratici di Svezia, dal cui appoggio dipende la sopravvivenza del governo) rilanciare la crociata contro l’immigrazione e la criminalità, stabilendo una spirale perversa tra i due fenomeni. Gli/le immigratɜ irregolari costituiscono una “società ombra”, spiega il governo; occorre allora riportare la luce, ossia rimandare a casa tutte le persone sprovviste di permesso di soggiorno e allungare i tempi per chi intende ripresentare richiesta di asilo, dopo un primo rifiuto.

Quanto all’immigrazione economica (riaperta nel 2008, dopo una lunga chiusura, proprio dal partito di Kristersson, all’epoca guidato da Fredrik Reinfeldt), lo strumento più meschino per rimarcare il confine fra titolari di diritti (perché svedesi, o comunque europei) ed “esuberi” è l’innalzamento del reddito minimo che lavoratrici e lavoratori provenienti da paesi terzi devono dimostrare per ottenere il permesso di lavoro: dal 1° novembre la soglia passa da 13.000 corone svedesi (circa 1.100 euro) a 26.560 (2.250 euro); il doppio, pari all’80% dello stipendio medio in Svezia. Non occorre dire che per la forza-lavoro più modesta si tratta di una cifra semplicemente irraggiungibile. L’aspetto più aberrante della riforma tuttavia è che ne farà le spese anche chi già lavora in Svezia, magari da anni (e pagando le tasse), e vorrebbe fare domanda per prolungare il permesso di soggiorno. Per colf, badanti, addettɜ ai servizi – per lo più donne, spesso con contratti part-time – si prefigura un’espulsione di massa – o la clandestinità. Si noti che il requisito del reddito minimo non si applica alle ragazze au-pair né al lavoro stagionale: un “dettaglio” che chiarisce bene quale sia l’idea di lavoro della borghesia svedese e del suo braccio politico. Del resto, il governo non fa mistero di voler ridurre la forza-lavoro scarsamente qualificata per due motivi: bisogna favorire l’ingresso di soggetti che abbiano le competenze richieste dal mercato (ma chi farà le pulizie? forse le donne ucraine?); diminuendo la presenza di immigratɜ con bassa qualificazione, si priverebbe la criminalità del suo bacino di reclutamento.   

E qui veniamo all’altro fronte della manovra a tenaglia. È allarme criminalità, in Svezia; l’escalation, a partire dal 2015, di sparatorie (e attentati con bombe) fra giovani immigrati è innegabile e comprensibilmente preoccupa la popolazione, che teme di rimanere coinvolta, come in effetti è successo più volte, con esiti mortali. Tuttavia il panico suscitato dalla guerra tra gang distoglie l’attenzione dalle statistiche della criminalità nel suo complesso (che mostrano un aumento del numero di omicidi a partire dal 2013, ma su livelli già raggiunti in passato), da altri reati violenti (come quelli sulle donne) nonché da forme di criminalità che, se pur non letali, arrecano gravi danni alla società (lo sfruttamento del lavoro dipendente o le truffe fiscali). Senza dimenticare che dietro ai giovani immigrati che si sparano in mezzo a vie e piazze affollate, o vicino ad aree giochi o centri sportivi, opera una rete internazionale di trafficanti di droga e armi che non potrebbe far girare valanghe di soldi senza avere appigli nell’economia apparentemente legale.

Nelle ultime settimane l’isteria si è spostata sulla “volpe curda”, Rawa Majid, il gran capo di Foxtrot, una gang responsabile di diversi omicidi; condannato a una lunga pena detentiva in Svezia, Majid è stato autorizzato nel 2018 a lasciare il paese per sfuggire alle minacce di gang rivali e della stessa Foxtrot. Approdato in Turchia, ne è diventato cittadino grazie a un programma di scambio: investimenti in cambio di cittadinanza (succede anche questo). La Svezia ne ha richiesto l’estradizione, la Turchia l’ha negata e tutto sembrava finito nel nulla (se non per i curdi, adesso accostati anche alla criminalità comune), non fosse che Majid sembra essere stato arrestato il 6 ottobre al confine iraniano. Difficilmente la Turchia lo estraderà in Svezia. A parte questi episodi di personalizzazione mediatica che portano alla ribalta i boss delle gang, il dibattito pubblico si concentra soprattutto sulla manovalanza, non su chi ne tira le fila.  

In un’atmosfera resa torbida da questi intrighi diplomatici, derivanti dalle tensioni tra Svezia e Turchia per la questione NATO, si muovono giovanissimɜ cui sembrano aprirsi solo due strade, nei sobborghi in cui vivono, segregati dalla popolazione autoctona: entrare in una gang per fare soldi facili o rischiare di morire, colpitɜ dal proiettile di qualche coetaneo. Se le presenze irregolari sono la società ombra, le/gli abitanti delle cosiddette “zone svantaggiate” – così sono chiamate, facendo un torto alla loro ricchezza di relazioni, attivismo e biografie – rappresentano delle “società parallele”, dice il primo ministro, ossia isole dove non vale la legge svedese. E infatti qui le scuole hi-tech, gli ambulatori all’avanguardia e le opportunità di lavoro presenti nei sobborghi bene non ci sono.  Ma la risposta del governo non va nella direzione di superare questo divario; anzi, lo si vuole accentuare, trattando le/i residenti delle zone considerate problematiche come potenziali sospetti.   

La politica del governo per le persone migranti, siano esse richiedenti asilo, forza-lavoro o minori, punta esclusivamente sulla dissuasione e sulla repressione: oltre a intensificare la sorveglianza per scovare le/gli irregolari, il governo in parte ha già introdotto, in parte sta valutando misure mutuate dalla Danimarca (i cui socialdemocratici sono stati in Europa i cattivi maestri delle politiche di respingimento e criminalizzazione delle persone provenienti da paesi terzi) e dagli Stati Uniti. Tra le più gravi,  oltre all’inasprimento delle pene anche per i minori, l’attribuzione alle guardie private (in maggioranza di estrema destra) e all’esercito di compiti di supporto alla polizia; l’introduzione delle testimonianze anonime; l’istituzione di “zone di ispezione”, ossia aree (possiamo immaginare quali) che la polizia può delimitare per poi effettuarvi – senza mandato – perquisizioni di persone e veicoli; la detenzione a tempo indeterminato per soggetti a fine pena che, se ritenuti ancora pericolosi, potranno essere tenuti in custodia oltre il tempo massimo previsto per il reato commesso.

Senza dimenticare la proposta di legge (ennesima concessione ai Democratici di Svezia) che imporrebbe a tutto il pubblico impiego di verificare lo status giuridico delle persone straniere e, se queste risultassero non in regola, segnalarle alle autorità. A questa controriforma (di difficile attuazione, peraltro), che renderebbe il pubblico impiego un’appendice della polizia, la società civile ha reagito mobilitandosi con la campagna “Noi non informiamo” (le autorità): hanno aderito decine di associazioni e sindacati della scuola, dell’Università, della sanità, della cultura (tantissime biblioteche, ad esempio), dichiarandosi indisponibili ad attenersi alla legge, se approvata. È tuttavia improbabile che le misure contro le gang suscitino lo stesso sdegno, anche se restringeranno la libertà non solo dei “bambini-soldato” ma di tuttɜ.

Immagine di copertina di Monica Quirico