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Suburra

Suburra non mantiene le promesse e stavolta l’origine giudiziaria tarpa le ali.

Ostia come Atlantic City. Mare invernale, prospettive ariose, manca solo il lungomare in legno di Boardwalk Empire. Non proprio il bar di Non essere cattivo e il mare che «fa venire i pensieri». Tutto pronto per il promesso Waterfront della speculazione mafiosa – quell’Ostia malavitosa ma “viva” che sul Foglio sogna Lanfranco Pace, oggi troppo immedesimato nelle serie televisive come un tempo a Primavalle nel western. Pioggia a dirotto sul resto della città, un espediente piuttosto facile, che aveva inventato Blade Runner (per non parlare di Dante). E poi, mi domando, per un film che vuole riflettere o addirittura anticipare la realtà e spiegarne i retroscena, perché i morti sono vivi? Non che ci siano gli zombies, ma finiscono tutti morti ammazzati i protagonisti…che invece sono vivi e vegeti, anzi ”lottano” ancora insieme a noi (contro di noi). L’on Mele, cioè Pierfrancesco Favino, sbranato dal cagnaccio, si è da poco dimesso da sindaco di Carovigno, dove era stato eletto da una coalizione di centro-sinistra. Il Samurai, un Claudio Amendola davvero bravo, è il camerata Carminati, presente! Il boss di Ostia, Spada, è venuto addirittura a farsi il selfie con l’attore che lo impersonava alla prima, nella migliore tradizione di Al Capone e Bugsy Siegel. Non parliamo delle altre incongruenze narrative – la totale invisibilità della polizia, personaggi che scompaiono senza che se ne sappia più nulla (la escort, il bambino rapito), l’inverosimile vendetta della tossica contro un Samurai indifeso e boccone – che fanno del film più “una specie di luna park del crimine romano” (C. Raimo) che una decente serie HBO. La cronaca è strangolata dal procedere degli eventi: il film è irrimediabilmente in ritardo senza, per eccesso di fretta e inzeppamento di particolari ammiccanti, spiegare bene le radici. Stefano Sollima cita se stesso più che la realtà.

Il vero problema del film è però il moralismo, celato nell’intreccio fra scene d’azione fine a se stesse (l’interminabile sparatoria al centro commerciale o i cani ringhianti) e pensose riflessioni gattopardesche sul trasformismo politico. La politica è sporca, appena redenta da quattro manifestanti antiberlusconiani dopo la caduta. Tutto è marcio e tutti sono puniti – sotto una pioggia implacabile. Una realtà da commissariare, come si è fatto appunto a Roma, dopo Mafia capitale e la farsesca e inquietante vicenda Marino.

Peccato, che un paio di intuizioni giuste il film ce le aveva, anche se non proprio di prima mano: il parallelismo fra dimissioni di Ratzinger e caduta di Berlusconi (ricalcato dal Padrino III), la rappresentazione plastica del fatto che sono i criminali a tirare i fili dei politici e non viceversa. E ottima è la descrizione dell’incasinata vita domestica del clan Casamonica, che restano sempre “zingheri de mmerda”, come li apostrofa il Samurai pur inserendoli marginalmente nell’affare Waterfront.

Immaginiamo che ne sarà tratto uno sceneggiato Tv, dove Sollima riesce in genere meglio (vedi Romanzo criminale e Gomorra). Roma non è una “capitale morale”, per fortuna. Ma Suburra è una parodia del concetto.