DIRITTI

Storie da hotspot

 

Dalle Isole Comore a Taranto: le conseguenze del dispositivo repressivo
“Non entra”: le nuove rotte coatte sulla pelle dei migranti

La persona in oggetto indicata è invitata a presentarsi presso la questura di Bologna – Ufficio Immigrazione, in data 10/04/2017, per regolarizzare la propria posizione sul Territorio nazionale in relazione alla richiesta di protezione internazionale formalizzata nella suddetta questura”. Questo è quanto si legge in un documento dell’ufficio immigrazione della questura di Taranto: un foglietto scritto in italiano, non tradotto nelle lingue veicolari, è stato consegnato a due donne delle Isole Comore arrivate, o meglio, prelevate coattivamente da Ventimiglia nella notte tra il 7 e l’8 aprile, per essere identificate all’hotspot di Taranto ed essere rilasciate il giorno successivo.

Attorno alle 14 dell’8 aprile le abbiamo incontrate in stazione, dove da giorni era attiva la postazione fissa di STAMP che forniva ai migranti in transito assistenza legale, mediazione linguistica e culturale, possibilità di connettersi a internet e fare chiamate internazionali. Un presidio che in pochi giorni era già diventato un punto di riferimento necessario. Così, le due donne hanno scelto di rivolgersi a noi per capire cosa fare. Considerando che non parlavano altra lingua al di fuori del comoriano e qualche parola di francese, il foglio era per loro letteralmente incomprensibile, in realtà lo era in qualche modo anche per noi.

Una cosa soltanto era chiara: le due donne dovevano presentarsi a Bologna il 10 aprile per regolarizzare la loro posizione giuridica di richiedenti asilo, quindi 2 giorni dopo, ma non avendo né i soldi per comprare il biglietto, né un posto dove dormire, l’unica soluzione possibile era quella di tornare all’hotspot e ripartire il giorno dopo.

Sul foglio numero 2, però, c’era un’annotazione scritta a penna: “Non entra“. Una formula utilizzata, secondo una ricostruzione che siamo riusciti ad elaborare, in diversi casi: per coloro che non vogliono o non possono fare domanda di protezione, per chi riceve un decreto di espulsione ed è quindi costretto a lasciare il territorio entro 7 giorni; per chi deve essere trasferito in un CIE o è in attesa di rimpatrio; per chi ha fatto richiesta d’asilo in altre questure ed in seguito si è allontanato dal centro, perdendo di conseguenza il diritto all’accoglienza; per chi ha ricorsi pendenti in seguito ad un’espulsione o al diniego in commissione. Dunque, quella macchia d’inchiostro altro non era che il segno dell’interdizione all’ingresso nell’hotspot. Il quadro così era chiaro: le due donne sarebbero state costrette a restare per strada. Non solo.

Chiunque non osservi il provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragioni di giustizia, di ordine pubblico o di igiene, è punito, salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, con l’arresto fino a 3 mesi e con l’ammenda fino ad euro 206,58”, l’ammonimento della Questura di Taranto nei confronti delle due donne proseguiva in questo modo. È uno degli effetti della gestione burocratica e poliziesca messa in atto dall’«approccio hotspot». È la grammatica politica con cui sono rubricati i respingimenti interni al confine italiano, da Nord verso Sud, da Ventimiglia e Como a Taranto, spostamenti coatti attuati con l’unico scopo di alleggerire la pressione alla frontiera francese. Ventimiglia diviene così luogo simbolo di cattura per tutti coloro che aspirano ai movimenti secondari. Taranto, invece, posto simbolo di diritti negati, fabbrica di esclusione e clandestinità.

 

L’epilogo

Erano le 16:30, ancora in stazione. Le due donne comoriane sedevano in terra ormai da due ore. Non sapevano cosa avrebbero fatto. Avrebbero voluto raggiungere la Francia perché è li che viveva una loro parente. Per questo si trovavano a Ventimiglia. Ognuno di noi, nel ritaglio di tempo disponibile si adoperava per cercare un paio di posti letto, del cibo e qualcuno che dalla stazione di Bologna potesse accompagnarle in questura per formalizzare la procedura. “I posti sono finiti”; “Mi dispiace, siamo pieni”. Finalmente un centro si dice disponibile a ospitarle. Senza coperte, ma almeno avrebbero potuto riposarsi e ripartire la notte dopo per Bologna. Le abbiamo invitate ad attendere con noi qualche ora per poi portarle al centro dove avrebbero passato la notte. Un getto d’entusiasmo e di soddisfazione si diffonde nel gruppo, consegnandoci allo stesso tempo un’amara riflessione: il «dispositivo hotspot» ci aveva mostrato il suo picco massimo. Si è creato un paradosso sistematico sulla pelle dei migranti che, dopo essere stati trasportati coattivamente a Taranto, vengono obbligati a recarsi in un’altra città distante centinaia di chilometri. Abbandonati, privi di un alloggio alternativo, con il portafoglio vuoto e senza il biglietto del treno. In questo senso, l’hotspot non conosce tregue e valutazioni, ma solo meccanismi grossolani e prestabiliti di marginalizzazione e disumanizzazione.

Ore 19:30. Il caldo del primo pomeriggio si era ormai spento. Cominciavamo a smontare i computer e i tavoli del presidio. Ad un certo punto ci siamo accorti che le due signore comoriane non erano più vicino a noi. Le abbiamo cercate in tutti gli angoli della stazione dei treni, sino alla rotonda dove comincia la rampa che conduce al Porto Varco Nord. Ed è proprio lì che le abbiamo ritrovate; per poi vederle fuggire, ancora, verso un uomo che chiamavano “fratello”. Allora, abbiamo pensato che stessero cercando di tornare all’hotspot, ma in realtà si erano fermate prima. Davanti ad un cancello fatiscente che porta ad uno stabile abbandonato, dove un’insegna barcollante dice: “Chiesa di Santa Croce”. Lì davanti si trovavano altri uomini. Le due donne, dopo essersi unite al gruppo, hanno varcato il cancello. A quel punto abbiamo capito che potevamo soltanto andare via.

 

Chiudere l’hotspot ora!

Nei giorni successivi abbiamo avuto modo d’incontrare la responsabile dell’Ufficio immigrazione della Questura, la dottoressa Rossella Fiore. Non abbiamo chiesto direttamente all’autorità spiegazioni sulle due donne comoriane, consci di ciò che ci avrebbe risposto. Il fatto che fossero soggetti vulnerabili, che arrivassero da Ventimiglia, avessero con sé un documento della questura di Taranto, nonché la scritta “non entra” e nessuna concezione di cosa dovessero fare, sono probabilmente coincidenze sulle quali si rispecchia una voluta inadempienza delle norme hotspot. Alla domanda su quali siano le predisposizioni in fatto d’assistenza verso chi viene rilasciato dalla struttura con in mano dei documenti incomprensibili e senza alcuna garanzia di sostenere il viaggio, la risposta è stata ancora più terrificante delle aspettative: “noi forniamo tutta l’assistenza necessaria a chi si trova in stato di difficoltà, segnalando la presenza di soggetti vulnerabili come donne sole che potrebbero essere esposte a rischi. Nessuna rimane sola”.

Guardandoci indietro, potremmo ripensare a queste dichiarazioni della dottoressa Fiore e arrovellarci all’infinito sulla stonatura delle stesse sulla bocca di un ufficiale di polizia. Provare rabbia e sdegno di fronte all’indifferenza sistematica, all’inefficienza e alla criminosità dell’«approccio hotspot» o del meccanismo di selezione ed esclusione dai circuiti dell’accoglienza. Condanniamo questo meccanismo perché crea precarietà esistenziale e vulnerabilità, espone i migranti ai rischi dello sfruttamento lavorativo, della tratta o li fa diventare bersaglio dell’attitudine sempre più razzista di alcune frange della società. Condanniamo il sistema hotspot perché è una gabbia che allor quando lascia le persone fuori da essa, le tiene comunque sospese nello spazio del non-diritto.