DIRITTI

“Non entra”: le nuove rotte coatte sulla pelle dei migranti

Il primo report del monitoraggio che la staffetta di Stamp sta realizzando all’hotspot di Taranto. Migliaia di migranti vengono trasportati nella cittadina pugliese dai luoghi di frontiera per essere identificate e fotosegnalate per l’ennesima volta.

Sono circa 10 giorni che attivisti e volontari di Stamp (Sostegno ai Transitanti e Accoglienza ai Migranti e ai Profughi) – progetto portato avanti da Un Ponte Per e dalla rete Resistenze Meticce – appoggiati dalla Campagna Welcome Taranto si stanno succedendo in una staffetta nella città pugliese. Due gli obiettivi centrali: condividere strumenti di solidarietà concreta nei luoghi del transito adiacenti all’hotspot; avviare un lavoro di monitoraggio e di inchiesta sull’”approccio hotspot” in generale. Il centro di Taranto, sulla scia delle recenti analisi di Amnesty International, si configura come luogo di identificazione, selezione e smistamento attuando pratiche potenzialmente lesive di diritti fondamentali. Si intende qui riportare i primi risultati del lavoro svolto, accompagnati da estrema preoccupazione.

Nella prime due settimane di aprile sono arrivate all’Hotspot di Taranto circa 200 persone provenienti da Ventimiglia: si tratta, nella maggior parte dei casi, di migranti già identificati prima dello sbarco o presso altre questure. Queste persone vengono caricate con la forza sui pullman a Ventimiglia e Como (in alcuni casi a Milano e Chiasso) e portate all’hotspot di Taranto. Questi trasferimenti coatti avvengono in maniera totalmente arbitraria e ne possono essere vittima tutti i migranti, a prescindere dal loro status giuridico.

Una volta arrivati a destinazione e completate le procedure di identificazione, i migranti subiscono un trattamento differenziale, in ragione dei rispettivi status. Chi ha già presentato la domanda di asilo viene condotto fuori dall’hotspot con due fogli: il primo – esclusivamente in italiano e quindi incomprensibile dalla quasi totalità delle persone che lo ricevono – con i dati del trasferimento a Taranto; il secondo, con l’invito a recarsi in questura, entro le successive 48 ore, per avviare le procedure di regolarizzazione della presenza sul territorio nazionale. Già questo dato dimostra l’illogicità delle deportazioni. Perché migliaia di persone vengono trasportate con la forza a Taranto per essere identificate e fotosegnalate ancora e ancora? La ragione non è né di carattere logistico, né di ordine pubblico, ma esclusivamente politica: alleggerire le frontiere con l’Europa per ostacolarne l’attraversamento e “ripulire” i luoghi considerati sensibili.

Stamp ha costruito in questi giorni un presidio fisso in stazione, per fornire ai migranti in transito possibilità di connessione e comunicazione con i paesi d’origine e di destinazione, assistenza linguistica e legale. Un presidio che in poche ore è divenuto un punto di riferimento affollato, necessario. La maggior parte delle persone che ci hanno raggiunto erano proprio quelle provenienti da Ventimiglia e formalmente richiedenti asilo, che portavano con sé la lettera d’invito a recarsi in altre questure: Milano, Roma, Cremona, Bologna, Crotone o addirittura la stessa città da cui erano stati prelevati. Queste comunicazioni sono quasi tutte corredate da un’annotazione scritta a penna: “NON ENTRA”, che sta ad indicare l’impossibilità ad accedere e soggiornare nell’hotspot e l’indicazione di allontanamento immediato. Questa espressione, minacciosa e irresponsabile, è utilizzata, secondo una ricostruzione che siamo riusciti a carpire in diversi casi: per coloro che non vogliono o non possono fare domanda di protezione, per chi riceve un decreto di espulsione ed è quindi costretto a lasciare il territorio entro 7 giorni; per chi deve essere trasferito in un CIE o è in attesa di rimpatrio; per chi ha fatto richiesta d’asilo in altre questure ed in seguito si è allontanato dal centro, perdendo di conseguenza il diritto all’accoglienza; per chi ha ricorsi pendenti in seguito ad un’espulsione o al diniego in commissione.

L’hotspot di Taranto è, in sintesi, al centro di un meccanismo complessivo che ha obiettivi tra loro interdipendenti: scoraggiare il viaggio di chi migra, configurandosi dunque in modo complementare agli accordi bilaterali con paesi terzi ritenuti sicuri; alleggerire le frontiere tra l’Italia e il resto d’Europa; mettere a sistema la privazione di diritti fondamentali quali la libertà personale. Diviene un ulteriore non-luogo di frontiera, amministrativa, fisica, simbolica, politica che osteggia il diritto di restare e quello di partire, azzerando, di fatto, la libertà di movimento.

Come riportano alcuni quotidiani nazionali, lo spostamento coatto di persone da Nord a Sud ha attivato un ennesimo business, sulla pelle dei migranti, molto articolato e dispendioso. Il sistematico trasferimento verso Sud dalle città di frontiera di Ventimiglia e Como è iniziato nel maggio scorso, quando vennero utilizzati aerei di Poste Italiane per deportare le persone fermate al confine francese verso Trapani e Bari. È dal mese di luglio e agosto che questa pratica è diventata una prassi generalizzata che implica, tra l’altro, uno spreco di risorse pubbliche che potrebbero essere impiegate per migliorare gli strumenti di accoglienza. Ad esempio, l’organizzazione dei trasferimenti verso l’hotspot di Taranto è stata affidata alla prefettura di Imperia e Como, che a sua volta ha appaltato il servizio tramite bando ad alcune imprese di trasporto. La spesa a carico dello Stato è di circa 5.000 euro a tratta, senza contare i costi sostenuti per la scorta e per il personale delle forze dell’ordine impiegato.

È sufficiente dunque una scritta a penna su carta, “NON ENTRA”, a configurare una condanna discrezionale e illecita sulle condizioni di vita, materiali ed esistenziali di centinaia di persone. Noi, che queste persone le abbiamo incontrate – rispondendo concretamente al loro bisogno di mettersi in comunicazione con le famiglie, cercando di tradurre le carte e rendergli comprensibile la loro situazione legale e amministrativa – crediamo che questa prassi non possa passare sotto silenzio. I soggetti che “non entrano” vengono messi alla porta senza ricevere adeguata assistenza, senza che sia loro assicurato il viaggio di ritorno che dovranno affrontare a proprie spese, senza un posto per dormire o cibo per affrontare i giorni seguenti, nel mezzo del nulla circostante l’hotspot, collocato tra l’Ilva, Cementir, la raffineria dell’Eni e la banchina del porto mercantile, con in mano una busta di cartone con dentro i pochi effetti personali.

L’hotspot è il simbolo di un sistema discriminatorio basato su pratiche di esclusione selettiva. Il centro rappresenta un nuovo “approccio” alla gestione delle migrazioni, colpisce ancora di più questo duplice livello di esclusione che condanna i migranti – che spesso hanno già vissuto in altre occasioni la violenza dell’hotspot sulla propria pelle – ad essere lasciati tra i fumi tossici dell’Ilva e la banchina del varco nord del Porto di Taranto, senza spiegar loro dove si trovano, né perché sono stati trasferiti a migliaia di chilometri, senza nulla in mano, trattati alla stregua di pacchi postali. Si tratta di una prassi perversa che deve essere fermata.

Stiamo assistendo al rodaggio di un meccanismo che apre la strada a tragiche conseguenze, creando soggettività sempre più vulnerabili, che vengono sistematicamente esposte al rischio della tratta e dello sfruttamento lavorativo.

Il meccanismo di selezione degli ingressi nell’hotspot di Taranto, racchiuso in un tratto di inchiostro, è specchio di una doppia esclusione. È, nell’immediato, sinonimo di esclusione dalla possibilità di accedere alla struttura e trovare una prima accoglienza. Più in generale, ci sembra il paradigma di un’esclusione più ampia e generalizzata: dai dispositivi di protezione, dai servizi, dal welfare, dal circuito dell’accoglienza.

Crediamo sia necessario far fronte comune, mettere in campo pratiche concrete di solidarietà, di denuncia, di lotta. Per la libertà di movimento e per la dignità di tutti e tutte.