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“Rivolta o Barbarie” di Francesco Raparelli

Il video racconto di una presentazione e il prologo del libro.

Da un mese è in libreria il libro di Francesco Raparelli, redattore di DinamoPress, ricercatore e attivista di Esc-Atelier, “Rivolta o barbarie. La democrazia del 99% contro i signori della moneta” edito da Ponte alle Grazie. E’ un libro agevole e importante, che, senza rinunciare alla profondita dell’analisi teorica e filosofica, è tutto dentro i percorsi che i movimenti in questi anni hanno portato avanti e nelle sfide e le prospettive che hanno di fronte. Che dire ancora? Leggetelo!

Leggi la recensione di Marco Bascetta su Il Manifesto

Il video racconto della presentazione a Esc- Atelier autogestito del 10/11/2012. Con l’autore Lucia Annunciata, Gianni Rinaldini e Paolo Virno’

Il Prologo del libro:

PROLOGO – In fuga dalla catastrofe

“The world on you depends Our life will never end””

The Doors, Riders On The Storm

Soffocato dalla sua bizzarra vicenda processuale, sospeso nel vuoto, ma consapevole di dover espiare una colpa, nessuna colpa in particolare o tutte le colpe del mondo, Joseph K. decide di dare ascolto al suo cliente, all’industriale, e di raggiungere lo studio del pittore Titorelli. Titorelli dipinge giudici, al pari del padre è un «pittore giudiziario». K. vorrebbe la chiarezza della Legge, la normalità di un processo, vorrebbe un inizio e una fine. Ma Titorelli gli spiega che tutto funziona diversamente: le cose che contano non accadono nel «tribunale pubblico», ma si fanno sempre alle sue spalle, nelle camere di consiglio, nei corridoi o anche nel suo (di Titorelli) studio. Il pittore, soprattutto, indica tre esiti possibili per il processo, quello di K. e in generale: «l’assoluzione vera, l’assoluzione apparente, il rinvio» (Kafka 1917, p. 166). L’assoluzione vera, però, è impossibile o quasi. Per averla, ci vorrebbe l’innocenza dell’imputato e questa innocenza andrebbe dimostrata, ma come? Preferibile l’assoluzione apparente o il rinvio. Nel primo caso, ciòche sembra finito ricomincia; nel secondo, si differisce illimitatamente la fine, affinché non si debba poi ricominciare. Nel secondo caso, in particolare, il lavoro di corridoio deve essere incessante, una sorta di maratona interminabile, fatta di piccoli passi, di lentezza e di velocità nello stesso tempo.

Dispiace per chi ancora crede – e a sinistra sono tanti – nella Legge e nei tribunali, per chi conserva ancora fiducia nella politica, in quel sano riformismo, di matrice keynesiana, che con onestà tiene a bada i mercati, l’avidità degli speculatori, la finanza «cattiva». Già Kafka, il veggente, aveva detto ciò che c’era da dire: la sovranità, al pari della norma, evapora, tutto è tecnica di governo.

Non vi fidate? Guardiamo al presente. La crisi dell’Eurozona è esplosa nel maggio del 2010, sono passati due anni e sembra che non esistano cure per la malattia. Non che la politica non ce la metta tutta: si affollano i vertici, i consigli, la Banca Centrale Europea fa del suo meglio e la sinistra è sempre responsabile, con i mercati e le banche of course. Il palcoscenico viene montato e smontato ogni volta e i quotidiani insistono: «ora, finalmente, l’euro è salvo». È accaduto con il Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 2012 a Bruxelles, montagna che ha partorito un topolino. Dopo una settimana di estasi, soprattutto per le sinistre socialiste di tutta Europa, è emersa la verità: non si è deciso nulla, occorre attendere il prossimo vertice e poi la Corte costituzionale tedesca e così via all’infinito.

Ancora. Da un po’ di tempo si discute di Grexit, l’uscita della Grecia dall’euro. A tutti è chiaro che la Grecia non è il problema, ma il problema è l’euro: una moneta senza Stato, senza una effettiva banca centrale, senza comuni politiche fiscali. L’imbroglio dell’euro è durato un decennio, garantendo alla Germania moneta forte, nel mondo, esportazione solida, in Europa, e tassi di interessi bassi. Poi, con la crisi, l’imbroglio è saltato, i grandi colossi della rendita finanziaria, in particolar modo americani, che non hanno mai amato una moneta più forte del dollaro, hanno deciso di attaccare e di mettere all’angolo il vecchio continente e, giustamente dal loro punto di vista, hanno cominciato l’attacco con le prede facili. La Grecia o il Portogallo, paesi piccoli, economicamente deboli, incapaci di sostenere una moneta forte come l’euro, facilitati, dai tassi di interesse inizialmente molto bassi, nell’indebitamento irresponsabile. La Grecia si è indebitata con la Germania, ma oggi è colpevole per averlo fatto e in Germania, si sa, il moralismo è di casa e non è facile schivare la pena.

Quale punizione? Una pena certa, una somma limitata di denaro da rimborsare? Ai cittadini greci – come a quelli portoghesi, spagnoli, italiani, ecc. – si chiedono sacrifici, ma per quanto tempo? Come ci indica Kafka con il suo Titorelli, non esiste la fine. Ogni volta che la Grecia sta per essere abbandonata o cacciata, si rinvia; ogni volta che sembra assolta, il processo ricomincia di nuovo. E così con tutti gli altri paesi dell’Europa del Sud. Per ora, perché anche la Francia comincia ad avere paura e una parte del padronato tedesco si preoccupa: la deflazione in Grecia, vuol dire meno esportazione per la Germania. Salvo che la Germania – come sta già accadendo – sposti le sue esportazioni altrove, in Russia o in Cina ad esempio. Si assolve apparentemente e si rinvia, intanto, nei corridoi, quelli definiti dall’iniziativa capitalistica e finanziaria, si comprimono i salari, si privatizza, si “colonizza”…e si spostano merci e capitali altrove. Le tecniche di governo, ciò che in gergo si definisce governance, si sostituiscono al Sovrano: Merkel, in verità, non decide niente. E se non decide nulla la Merkel, ma tutto accade nei corridoi densamente popolati della governance e del mercato, potete immaginare cosa contano le sinistre socialiste, quelle che ci chiedono di essere responsabili e di accettare la punizione meritata.

Perché abbiamo meritato, soprattutto noi dell’Europa del Sud, la punizione? Perché, come cidicono i tedeschi, «falchi» e «colombe», dobbiamo fare i «compiti a casa»? La risposta è semplice: abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Ora, la mia generazione non ha mai avuto un lavoro stabile, quando lavora guadagna meno, a volte molto meno, di 1.000 euro al mese, non avrà mai una pensione, forse morirà prima della generazione che l’ha preceduta. Sicuramente non siamo noi ad aver creato danni, si dice siano stati i nostri genitori. Eppure i miei genitori erano poveri, negli anni ’50 e ’60, poi, grazie ai tumulti studenteschi e operai, hanno conquistato un po’ di benessere: un decennio, forse quindici anni, di benessere. Adesso sono meno poveri di me, indubbiamente, ma sicuramente in transito verso nuove ristrettezze. Una vicenda privata? Probabile. Ma per quanti le cose girano allo stesso modo? La maggioranza, anzi, Occupy Wall Street parla chiaro: il 99%. Il 99% della società ovvero i naufraghi della grande utopia neoliberale, quella che ci voleva tutti ricchi, tutti proprietari, tutti imprenditori di noi stessi.

Non è vero che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, è vero, piuttosto, che, nell’epoca del Pc e del web, non siamo più separati dai mezzi di produzione, che siamo da sempre immersi in una scena produttiva fortemente socializzata, che vogliamo muoverci da una parte all’altra del mondo, che vogliamo fuggire le guerre, che non vogliamo retrocedere rispetto al benessere conquistato dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta. Sono queste le nostre colpe, le colpe che hanno spinto il capitale con insistenza verso i mercati finanziari, nel tentativo di ricostruire, con la finanza, misura e comando nei confronti di una cooperazione produttiva ricca e di una forza-lavoro irrequieta, fin troppo indipendente. Produrre denaro attraverso il denaro, come fanno i tassi di interesse sul debito pubblico, evitando di passare per quel rapporto sociale rischioso che è il rapporto capitalistico di produzione. E se questo processo entra in crisi, così come è accaduto a partire dal 2007, i padroni non hanno dubbi, occorre ripartire da zero, da quella «accumulazione originaria» che sembrava sepolta una volta per tutte: ridefinire, con la forza, i perimetri della proprietà privata capitalistica; produrre i poveri, i lavoratori docili, umili a sufficienza per accettare condizioni salariali e di consumo che fino ad adesso sono sembrate inaccettabili.

Fin quando dunque dovremo accettare i sacrifici? Fin dove arriveranno l’assoluzione apparente e il rinvio? Fino a quando non saremo abbastanza poveri. O fino a quando la nostra resistenza non sarà capace di dire basta.

Questo libro è stato pensato e scritto in un momento molto difficile per i movimenti sociali italiani. Un tempo in cui sembra impossibile coltivare speranze, l’epoca dei tecnici, della pacificazione, del commissariamento, ad opera delle grandi istituzioni finanziarie europee e globali, delle politiche di bilancio. La sinistra, in Italia e in Europa, ha deciso di sostenere la catastrofe, anzi, di esserne l’artefice più “responsabile”. Mentre la destra riscopre la sua anima populista e spara a zero contro le politiche di austerity, la sinistra, un po’ ovunque, e salvo pochissime eccezioni (Syriza in Grecia), si sbraccia per tranquillizzare i mercati. Un po’ l’opportunismo, un po’ l’incompetenza, un po’ la corruzione, insomma, la sinistra non esiste più e continuare a ripeterlo non serve a molto. I movimenti, d’altro canto, non sono stati capaci, per lo meno in Italia, di fare da soli, di affermare la propria indipendenza, di costruire le proprie istituzioni. Lo hanno fatto in parte i movimenti studenteschi, in Italia e in tutta Europa; lo hanno cominciato a fare in Spagna gli indignados; qualche piccolo esperimento è avvenuto in Germania. Tanto, ma ancora poco.

Intanto dall’America è arrivata una bella ventata fresca: il movimento Occupy. Una ventata che pare già essere uno spiffero, tanto è pesante la cappa della campagna elettorale e della nuova guerra che Israele e Iran potrebbero imporre al mondo intero. Eppure il vento, quando apre delle finestre chiuse, libera energie, le particelle abbandonano lo stato liquido e procedono verso quello gassoso. Quale sarà la nuova “cristallizzazione”? Quali incontri sovversivi faranno presa? Questi sono gli interrogativi, aleatori, che hanno mosso la mia ricerca. Con una consapevolezza: è giunto il momento di rompere gli indugi, è tempo di tornare ai “fondamentali”. Accorti, però, nessuna nostalgia. Il capitalismo non è sull’orlo del baratro, non morirà di morte naturale, semplicemente ha smesso di avere una funzione progressiva, di essere conciliabile con la democrazia e la libertà: la Cina è il nuovo paradigma. Per questo – e anche perché la Cina è, almeno formalmente, l’ultimo baluardo del socialismo – occorre immaginare e praticare un nuovo anticapitalismo. Oggi, proprio oggi diventa matura la possibilità di una potente insorgenza democratica o, ma è la stessa cosa, di una rottura comunista contro il capitalismo e contro il socialismo.

Il libro si divide in due parti: la prima (Macerie) prova ad indica le caratteristiche salienti della catastrofe del nostro tempo; la seconda (Ancora una volta, la prima volta), invece, nel censire alcuni dei temi e dei problemi che hanno fatto la loro comparsa nell’esperienza dei movimenti degli ultimi anni, prova ad immaginare idee e pratiche per un anticapitalismo non velleitario. Più in particolare, nella parte diagnostica, mi concentro sulla crisi dell’Eurozona e sul futuro incerto dell’euro (I capitolo). Il debito pubblico, almeno apparentemente, è il motivo della crisi, ma poi, come una leva potente, diviene il motore di una nuova e violenta accumulazione originaria. Se per un verso dunque è attraverso il debito pubblico e il circolo vizioso tra politiche del rigore e recessione economica che i mercati finanziari stanno mettendo in crisi l’Eurozona, è altrettanto vero che il debito è lo strumento attraverso il quale il capitalismo, europeo e globale, sta definendo la sua risposta neoliberale alla crisi (II capitolo). Una risposta, infatti, che usa la scure del debito per imporre una nuova ondata di enclosures (III capitolo) e per impoverire la società tutta (IV capitolo).

Nella parte prognostica faccio un’operazione spericolata: non mi limito ad elencare i soggetti del conflitto, ma provo a censire i momenti, dal movimento Occupy alle rivolte giovanili euromediterranee, in cui è emersa sulla scena una potente interruzione passionale dell’utopia neoliberale (V capitolo). Dalla coalizione dei naufraghi, i nuovi poveri, alla costruzione del programma anticapitalista: una costruzione paziente, che ha l’obbligo di crescere nelle lotte, ma che non deve essere indifferente alle forme di vita che dentro le lotte prendono corpo e che qualificano i nuovi dispositivi di militanza (VI capitolo). Se il programma, inoltre, è decisivo per innervare la coalizione, il discorso sulle forme di lotta non può essere superficiale. In questo senso, avvio una riflessione sulla violenza, utile a segnare una differenza radicale non tanto e non solo con i preti della non violenza, ma anche e soprattutto con le scorciatoie estremistiche (VII capitolo). Un breve intermezzo sul “fardello” delle gesta eroiche dei movimenti degli anni ’70, e sulla necessità che le nuove generazioni militanti escano, con coraggio, dallo stato di minorità, mi traghetta verso la fine, un capitolo, l’ottavo, che prova a prendere di petto il problema della democrazia del 99% dunque dell’alternativa di sistema. Rischiando molto, chiamo comunismo questa democrazia di tutti e so che mi esporrò a molte critiche. Mi sembra evidente, però, che è più realistico progettare e praticare un comunismo di nuova natura che pensare ad Hollande o Bersani, Obama o Gabriel come a possibili protagonisti di un rinnovato keynesismo.

Concludo dicendo che la proposta politica parla dell’Europa e all’Europa. Per quanto ilriferimento ai movimenti americani sia continuo e lo sguardo analitico ai paesi emergenti, dall’India all’America Latina, decisivo, l’Europa sull’orlo dell’abisso è il luogo che più di altri si presta ad un’iniziativa rivoluzionaria coraggiosa e innovativa. Non c’è più posto per movimenti che limitano la loro azione al territorio nazionale, occorrerebbe, di converso, ricostruire subito uno spazio globale delle lotte. In transito verso questo obiettivo, è nella catastrofe europea che dobbiamo far emergere nuove e potenti linee di fuga. È possibile, i tempi non saranno brevi, ma il desiderio non è un orgasmo, piuttosto, nella sua costruttività, assomiglia al differimento potente, del piacere e non della punizione, dell’amor cortese.