POTERI

Riforma costituzionale: il taglio ai costi della politica è una farsa

La prima di una serie di analisi sulla riforma costituzionale e il referendum di ottobre. Il taglio dei costi della politica, l’attacco alla “casta”: mettiamo a nudo la propaganda di governo

Dopo un colpo d’occhio “estetico” all’impianto della riforma costituzionale, cominciamo ad esaminare partitamente i principali filoni di essa per valutare infine il significato della battaglia che si sta ingaggiando, una volta tramontati gli elusivi progetti di spacchettamento, sul combinato congiunto riforma+Italicum, segnato al presente dalla probabile anticipazione del giudizio della Consulta sulla legge elettorale rispetto a una data posticipata per il referendum. Oggi affrontiamo il capitolo “risparmi”. In seguito tratteremo la disposizione e l’accentramento dei poteri, insomma la “costituzione reale” sottintesa.

Il principale argomento “popolare” utilizzato nella campagna per il SI è “il taglio dei costi della politica”. Un argomento, diciamolo subito, che è certo di successo ma, sul piano costituzionale, costituisce un pericoloso cedimento alla demagogia populista – populista in senso decisamente cattivo. Non a caso Renzi ha premuto sul pedale dopo l’insuccesso elettorale amministrativo: «secondo me l’elettore M5s voterà per ridurre le poltrone».

Spieghiamoci: che le spese per la politica, in particolare in una situazione in cui scarseggiano le risorse per gli investimenti e l’occupazione, siano scandalose e che sia insopportabile l’esistenza di un ceto politico di massa parassitario delle finanze pubbliche – su questo non ci piove. È però assurdo pensare che un vero taglio sia possibile con queste norme costituzionali e in genere che siano necessarie norme di livello costituzionale.

Uno su tre via – proclama Renzi. Ma quando mai? La riduzione di due terzi dei membri del Senato non taglia proprio in quella misura l’insieme dei parlamentari (composti da 630 deputati + 322 senatori =952) su cui la riduzione a 100 senatori opera un calo a 730, cioè di poco più del 20%.

Ma le spese per i parlamentari (stipendi, vitalizi e indennità varie), cui sommare quelle per i portaborse, uffici, gruppi parlamentari, sono solo una parte di quelle destinate a mantenere il ceto politico, se si tiene conto che le retribuzioni di molti consiglieri regionali (più le somme a disposizione discrezionale dei gruppi, che hanno registrato di recente gli scandali maggiori) si avvicinano spesso a quelle dei parlamentari e giù a cascata il discorso vale per la miriade di consiglieri provinciali, metropolitani, comunali, e ancor più di enti intermedi, partecipate, ecc.

Il numero dei parlamentari incide solo in minima parte sulle “spese della politica” e sul personale coinvolto, mentre gli unici tagli tangibili sono i 215 senatori (articoli 1 e 2 della riforma), i membri dei consigli provinciali (art. 29, da cui sono eccettuate le province autonome, art. 39/13), lo scioglimento dell’inutile CNEL (art. 40/1) e forse le disposizioni, piuttosto vaghe, dell’art. 40/2 («Non possono essere corrisposti rimborsi o analoghi trasferimenti monetari recanti oneri a carico della finanza pubblica in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali») e 40/3 («Tenuto conto di quanto disposto dalla presente legge costituzionale, entro la legislatura in corso alla data della sua entrata in vigore, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica provvedono, secondo criteri di efficienza e razionalizzazione, all’integrazione funzionale delle amministrazioni parlamentari, mediante servizi comuni, impiego coordinato di risorse umane e strumentali e ogni altra forma di collaborazione. A tal fine è istituito il ruolo unico dei dipendenti del Parlamento, formato dal personale di ruolo delle due Camere, che adottano uno statuto unico del personale dipendente, nel quale sono raccolte e coordinate le disposizioni già vigenti nei rispettivi ordinamenti e stabilite le procedure per le modificazioni successive da approvare in conformità ai princìpi di autonomia, imparzialità e accesso esclusivo e diretto con apposito concorso. Le Camere definiscono altresì di comune accordo le norme che regolano i contratti di lavoro alle dipendenze delle formazioni organizzate dei membri del Parlamento, previste dai regolamenti. Restano validi a ogni effetto i rapporti giuridici, attivi e passivi, instaurati anche con i terzi»).

Si noti peraltro che proprio l’art. 40/3 conferma e costituzionalizza, come parte delle disposizioni finali, la cosiddetta autodichia del Parlamento, cioè che Camera e Senato fanno come cazzo gli pare in materia di retribuzioni e ordinamento giuridico e previdenziale dei propri membri e personale amministrativo – fonte di ogni privilegio e spreco, laddove per gli altri dipendenti pubblici vigono i principi della legge dello Stato e del duro percorso dei contratti, delle compatibilità di bilancio, ecc.

Travaglio ha calcolato che i risparmi del nuovo Senato dimagrito e non più retribuito sono irrisori (una quarantina di milioni l’anno, sempre che non sbuchino fuori altre cifre a titolo di rimborso, spese di missione per i consiglieri regionali distaccati al Senato, ecc.). Un po’ poco per giustificare la riscrittura di 47 articoli su 139 della Carta. Per ottenere lo stesso risparmio, sarebbe bastato decurtare del 10% lo stipendio di deputati e senatori nel vecchio organico oppure diminuire il numero dei deputati, portandolo al livello di paesi poco popolosi e influenti come gli Stati Uniti (435 deputati)…In Italia abbiamo un rapporto fra parlamentari e popolazione di 1 ogni 64.000 abitanti, contro 1/118.000 per la Germania e 1/583.000 in Usa! Della potenza economica non facciamo neppure cenno. I poveracci sono voraci, si sa.

Ecco, infatti: se il numero dei parlamentari, la loro distribuzione fra Camera e Senato e il numero delle Regioni sono fissati dalla Costituzione, non tocca certo a essa fissare l’ammontare della spesa, che dipende dalla moltiplicazione del numero suddetto con l’entità delle retribuzioni e dei benefits, che possono essere tranquillamente esser definiti con legge ordinaria, fuori dai privilegi dell’autodichia e secondo parametri di proporzionalità fra i vari livelli di rappresentanza. Cioè: tanto un deputato, un tetto poniamo dell’80% per il consigliere regionale e via dicendo. Così come con legge ordinaria sono definiti i contributi elettorali, sopravvissuti in deroga a ogni referendum sul finanziamento pubblico dei partiti e che vedono scandalosamente foraggiati partiti e sottopartiti da tempo finiti nella pattumiera della storia. Per non parlare dei contributi erogati alla stampa sponsorizzata magari da un unico parlamentare. Qui, volendo, c’è il vero grasso da tagliare, come sui pletorici consigli di amministrazione di infiniti enti, rifugio dei trombati e del notabilato mafioso locale.

La sparata demagogica sui costi della politica (spesso prudenzialmente degradata a: meglio poco che niente) solletica le inclinazioni populiste (so’ tutti ladri), senza toccare il numero effettivo dei ladri e l’ammontare del bottino. La “casta” marcia risoluta verso l’abisso fingendo di spogliarsi dei propri privilegi, ma in modo così esiguo da attizzare odi ancor più intensi. Simula di spendere meno, invece di razionalizzare le proprie prestazioni, di far fruttare in termini politici ed economici il denaro investito per mantenerla.

Cosa conta un’esigua riduzione dello strato superiore della “casta” (termine che, oltre tutto, troviamo ambiguo), quando il dispositivo delle legge elettorale detta Italicum, cui la riforma è inesorabilmente avvinta, determina in pratica la nomina dall’alto delle segreterie dei partiti (nel frattempo ridotti a comitati elettorali e leadership personali) dei due terzi dei deputati, col meccanismo dei capilista bloccati, e di tutti i senatori, scelti dai consigli regionali (95) e dal capo dello Stato (5)? Vedremo a parte come questo perverso intreccio, in parte soggetto a modifiche prossime eventuali, sia il nucleo dello scontro politico in atto a partire dall’autunno. Allo stato, infatti, l’Italicum prevede un premio di maggioranza abnorme, potendo conseguire, mediante ballottaggio, il 54% dei seggi con il 25% dei voti, mentre ogni capolista bloccato (designato dalla cupola del partito) potrà candidarsi in 10 circoscrizioni, optando alla fine per una e scegliendo i candidati più votati più fedeli per il secondo posto nelle altre 9. In tal modo il gruppo dirigente o il leader máximo vincitore potrà utilizzare a suo piacimento gli ampli poteri che il nuovo dispositivo costituzionale riserva all’esecutivo e che analizzeremo in altra puntata. L’ironia della sorte (in tempi di Prima Repubblica, si sarebbe chiamata “destino cinico e baro”) potrebbe attribuire questo ruolo al M5s invece che al Pdr, cioè al Pd dell’apprendista stregone Renzi. Il giudizio negativo non cambia. Al più verrebbe da ridere.