editoriale

Reality Criminale

“Il Nero e il Rosso”. Il rischio che l’inchiesta “Mafia Capitale” diventi la terza serie, dozzinale, di una nota fiction è dietro l’angolo. Ma il rischio più forte è la sua traduzione politica, amministrativa, economica, da parte degli stessi poteri che sono finiti al centro dello scandalo più annunciato della storia. Se è vero, come ha detto un dirigente del Pd romano, “che siamo davanti al nostro ’92”, meglio attrezzarsi subito per non finire in una nuova brace giustizialista e iperliberista.

Qualche giorno fa, su queste pagine, nel recensire il film La Trattativa, disegnavamo una sorta di cartografia sociale del “capitale che si fa mafia”, utile alla descrizione dei processi di saccheggio, legali o illegali poco importa, che investono le nostre città. La tempesta di questi giorni conferma e travalica clamorosamente quelle ipotesi di governo spurio delle metropoli.

Facciamo un passo indietro. Tra la fine del “compromesso fordista” e l’avvento della crisi economica globale si è formata una città segnata da un sistema trasversale e flessibile di governance, in cui si mischiano e si integrano rendita finanziaria, speculazione fondiaria, economia dello spettacolo, pezzi di rappresentanza politica, burocrazia dei servizi e centri di spesa lottizzati equamente. L’alleanza veltroniana della prima ora tra mattone, cultura e servizi sembrava aprire nuove occasioni di “sviluppo” e di accumulazione, ma anche spazi di contesa sociale, spazi permeabili, in alto e in basso. Le occasioni di lavoro venivano scambiate con maggiore precarietà e flessibilità; i servizi e i processi di urbanizzazione con la nuova rendita immobiliare; gli eventi e la socialità con la mercificazione del consumo culturale.

La crisi economica che si apre nel 2007, la sovranità nazionale assoggettata ed esautorata dalle agenzie europee, spazzano via le illusioni “riformistiche”, svuotando la politica e le istituzioni locali di ogni spazio di manovra che metta in discussione i compiti dettati da Bruxelles e Francoforte. Gli enti locali, si diceva, diventano esattori delle tasse e braccio armato dell’austerità.

Ma dove vanno a depositarsi queste misure? In una città che non ha mai risolto, in senso formalmente “liberale”, la commistione strutturale e indifferenziale tra economia legale e illegale, che ha anticipato i processi di saccheggio della finanza, appaltando pezzi di territorio (il litorale, la periferia sud est, gli uffici pariolini e le ville blindate della Cassia) e di produzione (edilizia, servizi, welfare) al controllo di una governance “mafiosa”, tra new economy e discariche abusive, boiardi riciclati e camerati delle municipalizzate, nuovi arricchiti e vecchi sottoproletari.

Chiusi gli spazi di un “governo pubblico” della crisi, dismessi gli arnesi spuntati della rappresentanza, assunto il pensiero unico della competizione, del “libero mercato”, della messa a valore dei beni comuni, del merito e del talento individuale da armare contro i propri simili, perché non affidarsi direttamente, senza filtri morali o ideologici, alla nuova “accumulazione proprietaria”, quando essa coincide con l’unica politica possibile?

In questo senso, sfumano i confini tra legale e legittimo, tra produttivo e improduttivo, tra privato e pubblico. Davvero pensiamo che la causa di questa valanga sia riferibile alla perdita del “senso morale” individuale? C’è così tanta differenza tra un accordo di programma in deroga al Piano regolatore e l’accordo di programma “privato” (di qualche milione di euro) tra i costruttori Pulcini e l’ex assessore regionale Di Stefano? Oppure, davanti ai tagli delle politiche sociali, che male c’è se l’ex testa d’uovo del gabinetto di Veltroni “indirizza” un flusso cospicuo di richiedenti asilo e di risorse verso un lido sicuro di una cooperativa amica? Tre piccioni con una fava: si garantisce un servizio “di sinistra”, si dà lavoro a tanta gente, si consolida un rapporto al di là dei colori dei governi.

Solo questa città poteva immaginare un sindaco con la celtica al collo che rispondesse direttamente a un consorzio di poteri forti composto da immobiliaristi, dirigenti delle partecipate, imprenditori del sociale, manovalanza fascista di antico lignaggio. Solo questa città, laboratorio del “neofascismo rivoluzionario”, aristocratico e proletario, poteva produrre, a questi livelli, un “governo della paura” in grado di connettere consenso sociale e profitto economico. Così nelle periferie, con gli affari a sei zeri sulla pelle di “negri e zingari”, con la istituzionalizzazione e messa a profitto dell’esclusione sociale; così allo stadio, con l’egemonia identitaria e reazionaria che va a braccetto con il business più smaccato e privatistico; così nella società, nelle forme di aggregazione sociale e culturale – forme di “occupazione” del territorio – recuperate direttamente dal bagaglio dei movimenti sociali.

L’operazione è proprio questa: si possono accaparrare i fondi per l’accoglienza mentre ci si batte “contro l’invasione degli immigrati”; si destina agli amici degli amici il 90 per cento dei fondi della “gestione” dei campi rom, di notte si decide l’ampliamento del campo rom mentre di giorno se ne chiede la chiusura immediata; si costruisce (nelle curve) un immaginario razzista, endogeno e xenofobo, mentre si fanno affari con la camorra di Senese e la mafia dell’est.

Oggi, le politiche di austerità, tagli e privatizzazioni, fissate a livello europeo, si traducono e si traslano in un sistema di potere che ha dovuto reinventare le strade già battute dell’edilizia e degli appalti, mettendo a valore le peculiarità biografiche della manovalanza di strada, dell’estremismo nero, di pezzi di cooperazione sociale “embedded” collusa con il centrosinistra.

In questi ultimi anni, nella “città di sotto” che non aspira a diventare né lobby, né manovalanza, né appendice commensale del sistema di potere, sono emerse tante esperienze sociali e territoriali che si battono esattamente sul crinale squadernato dall’operazione “mafia capitale”, attorno alla domanda da un milione di dollari: quale città pubblica (comune) al tempo della crisi economica e della sovranità politica?

Le lotte per il diritto all’abitare, contro la privatizzazione dei servizi pubblici (l’acqua su tutte), le esperienze degli spazi sociali e culturali, le sperimentazioni di mutualismo e di organizzazione della precarietà lavorativa “insindacabile” e dei diritti dei migranti, hanno disegnato in potenza un’idea di diritto alla città fuori e contro le tagliole dei vincoli di bilancio ma anche oltre la tenaglia pubblico/privato.

Il futuro della capitale si giocherà sul terreno della ridefinizione dello spazio pubblico di decisione, della difesa dei beni comuni, della redistribuzione della ricchezza sociale e, soprattutto, delle politiche di accoglienza e cittadinanza, divenute negli ultimi tempi oggetto e paradigma delle campagne ossessive delle destre. Alla luce degli ultimi accadimenti, i fatti di Tor Sapienza, di Corcolle e di Torpignattara assumono una prospettiva diversa, ne cogliamo a pieno l’anima avvelenata, la lucida brutalità, al servizio di chi stava spolpando la città.

Oggi è possibile prosciugare la narrazione tossica distribuita senza scrupoli da molte agenzie diffuse di opinione, a partire dalla cronaca del Messaggero, pericolosamente a disposizione in ogni bar della città. Oggi è necessario costruire un terreno di ricomposizione, nella lotta, tra vecchi e nuovi poveri, evidenziare il filo rosso che lega la condizione degli ultimi ai penultimi, emancipare il format del “degrado sociale” dalle forme di sopravvivenza degli esclusi e degli sfruttati.

Questa sfida, a poche ore dal terremoto politico che sta cambiando Roma, si ripropone su un terreno avanzato, consapevoli che la precipitazione giudiziaria accorcia i tempi delle risposte, aprendo spazi politici che in tanti si propongono di riempire. Il redivivo giustizialismo del Movimento 5 Stelle e l’appeal proprietario e accattivante dell’antipolitico Marchini, già lanciato in una campagna elettorale permanente, consegnano senza equivoci i rischi di una possibile “rivoluzione” (liberista) contro il malaffare.

Una “rivoluzione” che farà coincidere la corruzione con tutto ciò che risponde a funzioni pubbliche, il consociativismo con la inutilità della democrazia, lo spreco con il diritto all’accoglienza.

La manifestazione del 13 dicembre per il diritto alla città è la prima occasione per una presa di parola pubblica fuori dalle banalizzazioni mediatiche e dall’imbarazzo degli apparati. Un evento che si situa in una coincidenza politica e temporale decisiva. Un’occasione da non sprecare.