ROMA

Il piano casa della Regione Lazio e l’urbanistica fai da te

Le demolizioni di villini e il crollo di una strada adiacente a un cantiere a Roma rendono visibili gli effetti del Piano Casa regionale. Che cosa prevede, di chi sono le competenze e perché la logica del mattone non farà ripartire una città in emergenza abitativa

La prevista demolizione di villini e l’avvenuto crollo di un tratto di strada alla Balduina cominciano a rendere visibili per tutti gli effetti del Piano Casa regionale a Roma. Con la previsione di interventi in deroga al Piano Regolatore Generale del 2008, il Piano Casa continua la cancellazione dell’urbanistica come strumento di pianificazione per un progetto condiviso di città, sostituita da provvedimenti edilizi a favore della rendita immobiliare.

Alla prima demolizione di un villino in Via Ticino seguiranno molti interventi simili. Ora è la volta di Villa Paolina, al Nomentano, al cui posto sorgerà un edificio di otto piani, alto il doppio di quelli circostanti. Nel II municipio sarebbero 22 i progetti presentati che prevedono demolizioni e ricostruzioni ai sensi del Piano Casa. Una «rigenerazione» di tessuti che da rigenerare hanno ben poco, avendo conservato fino ad oggi la loro qualità urbana. I villini, in particolare, sono nati come case medio-alte, sono in molti casi ottimamente conservati, in quartieri dotati di servizi e mezzi di collegamento. Che cosa si rigenera allora, se non la rendita per chi interviene?

In Via Andronico è stata sfiorata la tragedia quando decine di macchine sono precipitate in un cantiere a seguito del cedimento delle paratie di protezione del profondo scavo eseguito. La frana ha interessato l’area dove sono in corso lavori per la realizzazione di tre piani di parcheggio interrati e tre palazzine, al posto di una chiesa e una scuola, la Santa Maria degli Angeli, demoliti dopo il cambio di proprietà e il permesso a costruire con un premio di cubatura del 35%, rilasciato ai sensi il Piano Casa regionale.

Il Piano Casa della Regione Lazio, nato nel 2009 da un’intesa Stato-Regioni, scaduto il 30 giugno 2017, fu approvato e prorogato all’unanimità nel 2014 dalla maggioranza Zingaretti -PD, Sel, Lista e Listino Civico. L’elenco completo di tutti gli interventi per cui sono state presentate domande non è noto, nonostante il Piano preveda l’istituzione di un registro degli interventi da parte dei Comuni, per monitorare l’incremento del peso insediativo nei territori.

 

Che cosa prevedeva il Piano Casa?

All’articolo 1 si illustrano le finalità della legge. Si parla di misure urgenti nel settore edilizio, finalizzate a contrastare la crisi economica, per incrementare l’offerta di edilizia residenziale sovvenzionata e sociale, per il ripristino ambientale e il risparmio energetico. Il tutto con lo snellimento delle procedure in materia urbanistica.

Tutto questo concedendo la possibilità di ampliare le cubature per le ville e le case unifamiliari, alterando la conformazione dei tessuti in quartieri da tempo consolidati, oltre al cambio di destinazione d’uso a residenziale o non residenziale – commerciale, per tutti quei manufatti che risultano non più utilizzati e per i quali è consentita la demolizione. Come? «In deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi comunali vigenti o adottati» – frase che ricorre per ben sei volte nel testo – ma comunque nel rispetto del Codice dei Beni culturali.

Prima del 2009 il permesso a costruire in deroga agli strumenti urbanistici era rilasciato per «soddisfare esigenze straordinarie» ed eccezionali, applicabile entro i limiti dell’art. 14 del Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 380/01). Al di fuori di questi limiti si configurava come una variante urbanistica, con una disciplina specifica. Con il Piano Casa cambia tutto. Gli interventi di demolizione e ricostruzione con aumenti di cubatura e cambi di destinazione d’uso non devono essere sottoposti al parere dei Comuni ma sono approvati «in automatico».

 

Come cambia la città?

Capannoni in dismissione potranno diventare centri commerciali, cliniche e residence privati per l’emergenza abitativa che perdono le commesse pubbliche potranno diventare appartamenti. Un esempio concreto? La Città del Gusto al Portuense dove c’era il consorzio agrario, poi diventato UCI Cinema Marconi. Qui i proprietari hanno demolito e ricostruito la struttura aumentando la cubatura, trasformando in appartamenti e negozi gli spazi che erano destinati alla collettività e riducendo quelli di pubblica utilità. Il Comune ha bloccato il permesso a costruire ma il TAR non solo ha dato torto al Comune, lo ha condannato a pagare un risarcimento di 4,6 milioni alla proprietà, una società del gruppo Salini.

 

Come saranno le nuove case?

Il Piano Casa ha fissato l’abbassamento dell’altezza media dei sottotetti per fini abitativi al limite record di 1,90 mt. Ovviamente è prevista la monetizzazione degli standard urbanistici, su cui molto ci sarebbe da dire: pagando una somma all’Amministrazione non occorre realizzare i servizi previsti dagli standard urbanistici. Il Piano Casa si applica anche a immobili che ancora non esistono: è sufficiente che abbiano ottenuto il titolo abitativo edilizio, cioè sono ancora sulla carta.

 

Chi decide?

Comune, municipi, cittadini, comitati e associazioni non hanno voce in capitolo. La legislazione regionale è sovraordinate quella comunale e il Piano Casa agisce in deroga al Piano Regolatore e alla Carta della Qualità. Il Comune e la Sovrintendenza capitolina non possono esprimersi nel merito dei progetti, ma si limitano a verificare l’aspetto normativo ed eventuali controindicazioni –vincoli, norme urbanistiche etc. I progetti approvati dall’amministrazione possono quindi essere modificati nella direzione del maggior profitto per i privati, prevaricando l’interesse pubblico.

Alcuni limiti in verità esistono. Sono quelli stabiliti dal decreto ministeriale 1444/68, sovraordinato alla legge regionale, che fissa i limiti di densità, altezza e distanza tra fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi pubblici e privati. Sono quelli della Carta della Qualità. Se gli edifici inseriti nella Carta della Qualità sono tutelati, l’approvazione dei progetti che li riguarda è della Soprintendenza statale, se non sono tutelati la competenza è della Sovrintendenza comunale. Per capire l’efficacia della Carta della Qualità basta guardare a San Lorenzo, alle ex Fonderie Bastianelli, censite nella Carta della Qualità e demolite per far posto a una palazzina di miniappartamenti, e al cui posto oggi c’è un cratere con infiltrazioni d’acqua, troppo simile a quello di Via Andronico.

 

Dove si applica il Piano Casa?

L’articolo 2 esclude gli edifici abusivi, gli immobili vincolati ai sensi del D.Lgs.o 42/2004, e gli edifici in zone individuate come insediamenti urbani storici dal Piano Territoriale Paesistico Regionale del Lazio (PTPR). Quest’ultimo esclude dalle proprie competenze il centro storico di Roma perché la zona sito Unesco è soggetta a un Piano di Gestione specifico. Ma a sua volta il Piano di gestione per il sito Unesco, approvato dal Commissario Straordinario nel 2016, sul vincolo paesaggistico rimpalla la competenza alla Regione e chiede la modifica del PTPR. Di certo quindi c’è solo che il Piano Casa non si attua negli edifici in aree con vincolo paesaggistico, autorizzato a seguito del parere del Soprintendente. Secondo il PTPR della Regione «non sono beni paesaggistici quelli derivanti da individuazioni di natura urbanistica ovvero originati da destinazioni degli strumenti urbanistici comunali» -se per esempio il Comune istituisce un parco, il vincolo paesaggistico non è automatico.

Secondo Paolo Gelsomini, presidente del Coordinamento residenti città storica, che ha esaminato a fondo il Piano Casa, «sembra quindi che la salvaguardia del vincolo paesaggistico in insediamenti urbani storici sia alquanto debole, senza un intervento deciso della Soprintendenza che riconosca una valenza storico-architettonica a particolari aree della città storica».

Gelsomini fa presente che il Comune avrebbe potuto estendere l’area vincolata. Il Piano Casa infatti accordava ai Comuni la facoltà di individuare, entro il 31 gennaio 2012, ambiti e immobili da escludere dalla possibile applicazione del Piano. Secondo Gelsomini la facoltà concessa allora al Comune fu sfruttata molto parzialmente, e i villini che si abbattono oggi ne sono la dimostrazione. «I vincoli sono pochi e mal distribuiti sul territorio, di fronte all’esigenza di tutela dell’area storica più grande e più pregiata del mondo e alle impellenti urgenze derivanti proprio da strumenti come il Piano Casa».

 

Cosa si può fare?

La Soprintendenza può avviare provvedimenti perché immobili di proprietà privata siano riconosciuti come Beni Culturali con una dichiarazione di interesse culturale che riconosce la sussistenza dell’interesse architettonico, storico, e artistico, su richiesta sia del proprietario che di un ente territoriale interessato. Secondo Gelsomini il Mibact e la Soprintendenza dovrebbero estendere l’elenco dei Beni d’interesse culturale negli ambiti storici della Capitale, mentre il Comune dovrebbe far valere le prerogative ad esso assegnate dalla nuova legge regionale (n.7/2017) sulla Rigenerazione Urbana e sul recupero Edilizio, e aggiornare rapidamente la Carta della Qualità prevista dal PRG, anche se il suo potere di tutela è limitato.

Se gli strumenti tecnici e legislativi appaiono sempre più deboli, la volontà politica di gestirli nell’interesse generale sembra essere del tutto assente, e certamente non da ieri. Mentre i vari organi competenti si rimpallano competenze e responsabilità prende forma la città degli interventi proposti direttamente da soggetti privati in deroga a qualsiasi progettazione pubblica. Del resto interessi finanziari e immobiliari sono perseguiti dal pubblico stesso con la dismissione del suo patrimonio -aree ferroviarie, depositi ATAC, caserme, case.

Se da strumento di pianificazione sociale l’urbanistica è diventata facilitatore dell’iniziativa privata non si capisce, con la rigenerazione che viene, come si pensi di risolvere i gravissimi disagi generati dalla mancanza di politiche pubbliche per la casa e la carenza servizi che colpiscono la città e le tanto citate periferie dove abita ormai un terzo della popolazione, dove sono tornate le baracche, dove ci sono dai 15 ai 20 sfratti al giorno, dove la crisi abitativa riguarda anche il ceto medio ma viene ancora percepita come un problema dei poveri, dove la povertà in aumento si vorrebbe nascondere sotto il tappeto delle logiche securitarie e dove si vorrebbe affidare ai volontari del decoro la ricostruzione di un senso minimo di comunità, distrutto insieme all’urbanistica.