ITALIA

Perché Salvini se la caverà nelle pieghe della procedura speciale per i reati ministeriali

“Sequestro di persona”, “arresto illegale” e “abuso di ufficio”: queste le fattispecie di reato contestate a Matteo Salvini. Ma come funziona lo specifico iter giudiziario a cui verrà sottoposto il vicepremier in base al dettato costituzionale?

Gli illeciti commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri o da un Ministro nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali costituiscono la categoria dei “reati ministeriali” e sono direttamente disciplinati dall’art. 96 della Costituzione. Nella sua versione originale, l’art. 96 stabiliva che il Presidente del Consiglio e i Ministri fossero giudicati, per i reati in questione, col medesimo procedimento previsto per i reati presidenziali, ossia con la messa in stato d’accusa da parte del Parlamento riunito in seduta comune e con il giudizio della Corte Costituzionale nella sua composizione integrata.

A seguito del referendum del 1987 e della successiva riforma costituzionale in vigore dal 16 gennaio 1989, l’art. 96 è stato riformulato e ora sancisce che “Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”, decretando con ciò la fine della giurisdizione penale costituzionale nel dichiarato intento di ricondurre tali reati all’ambito dell’ordinario diritto processuale penale.

Obiettivo della legge di revisione costituzionale n. 1/1989 era, infatti, quello di contemperare due diverse istanze: riavvicinare il regime processuale per i reati ministeriali a quello ordinario, mantenendo delle specifiche garanzie al fine di evitare strumentalizzazioni politiche.

Non c’è quindi da meravigliarsi se l’attuale iter procedurale conserva importanti elementi di “specialità” (si pensi soprattutto alla permanenza dell’autorizzazione parlamentare). Sembra pertanto utile ricostruire sinteticamente tale iter, per poi evidenziarne al termine alcuni aspetti critici.

La procedura in esame si apre con la notitia criminis relativa ai reati indicati all’articolo 96 Cost. Questa viene trasmessa al Procuratore della Repubblica del tribunale del capoluogo del distretto della Corte d’appello competente per territorio, il quale, omessa ogni indagine, entro quindici giorni dal suo ricevimento mette immediatamente al corrente i soggetti interessati e trasmette gli atti al Tribunale dei Ministri.

Quest’ultimo è un collegio istituito ad hoc presso il tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’appello dove è stato commesso il presunto reato (in questo caso Palermo per Agrigento). A tale organo, composto da tre membri effettivi e tre supplenti estratti a sorte tra tutti i magistrati giudicanti con anzianità almeno quinquennale in servizio nei tribunali del distretto, sono affidate le indagini preliminari. Nella sostanza, il Tribunale dei Ministri è il protagonista della fase preliminare, in quanto svolge una funzione di “primo filtraggio” rispetto alla notizia di reato. Nell’adempiere a tale compito dispone dei poteri tipici del Pubblico Ministero delle indagini preliminari e può, inoltre, compiere d’ufficio tutti gli altri atti di indagine di competenza del Giudice per le Indagini Preliminari. Risiede qui il tratto unico (e contraddittorio) di tale collegio, vale a dire il cumulo in unico organo dei poteri inquirenti propri del pm e delle funzioni di garanzia e di controllo tipiche del gip.

Compiute le indagini preliminari nel termine massimo di novanta giorni, qualora ritenga infondata la notizia di reato, il Tribunale dei Ministri dispone l’archiviazione con decreto non impugnabile. Invece, nel caso opposto, dà avvio alla fase parlamentare, inviando gli atti al Procuratore della Repubblica, che a sua volta li rimette al Presidente della Camera competente alla delibera autorizzatoria.

La Camera competente a esprimersi sull’autorizzazione è quella di appartenenza del Ministro. Nel caso in cui il soggetto inquisito non sia un parlamentare, la competenza è del Senato. È importante sottolineare che la deliberazione è a maggioranza assoluta ed è insindacabile. Emerge in tale fase, così, il profilo politico della procedura, dato che il Parlamento può negare l’autorizzazione solo nel caso in cui ritenga che il Ministro indagato abbia agito per la tutela di “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”.

Nel caso in cui venga concessa l’autorizzazione a procedere, invece, si apre la terza fase: il giudizio di primo grado davanti al Tribunale ordinario del capoluogo del distretto di Corte d’appello competente per territorio. Non spetta quindi al Tribunale dei Ministri arrivare a sentenza, avendo lo stesso già svolto le indagini preliminari. Per le impugnazioni e gli ulteriori gradi di giudizio si applicano, infine, le norme del codice di procedura penale.

La procedura per i reati ministeriali, comunque, presenta numerose criticità. Come spiegato in apertura, la riforma del 1989 è scaturita dalla volontà popolare espressa dal referendum del 1978 di superare gli aspetti di specialità previsti dall’originaria formulazione dell’art. 96 Cost., di riavvicinare la cosiddetta “giustizia politica” a quella comune equiparando sotto il profilo processuale i Ministri agli altri cittadini. Tuttavia, il legislatore del 1989, per ragioni di protezione delle funzioni di governo, ha mantenuto come condizione di procedibilità l’autorizzazione parlamentare da deliberarsi a maggioranza assoluta, prevedendo inoltre l’insindacabilità della stessa.

Data la rigidità di tale condizione di procedibilità e il suo valore prettamente politico, risulta difficile credere che una compagine politica conceda l’autorizzazione a procedere nei confronti di un suo leader. Inoltre, bisogna tenere in considerazione che dall’insindacabilità della delibera parlamentare potrebbe facilmente discendere un alibi politico, per l’appunto, insindacabile: anche qualora il reato fosse di tutta evidenza, la Camera di competenza ben potrebbe negare l’autorizzazione limitandosi a dedurre che l’inquisito ha agito per la tutela di “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”.

Inoltre, non si capisce la ragione per cui la normativa sancisce che, ricevuta la notitia criminis, la Procura debba “omettere ogni indagine” e che anzi debba addirittura darne “immediata comunicazione” ai sospettati. Nei procedimenti ordinari, infatti, il procedimento è esattamente inverso: le Procure devono tenere segreta l’inchiesta almeno nei primi sei mesi, così da evitare che l’indagato inquini le prove.

Considerato tale quadro normativo, non sorprende che parte della dottrina ritenga tale procedimento tecnicamente sbagliato e non idoneo a sanzionare i reati ministeriali.

Del resto, se guardiamo alla storia passata sono ben pochi i casi di Ministri condannati. Il primo è quello di Mario Tanassi, ex-Ministro della difesa condannato, nel marzo 1979, a due anni e quattro mesi dalla Corte Costituzionale con il vecchio rito per lo scandalo Lockheed. Atro condannato illustre è stato Francesco De Lorenzo, ministro della sanità dal 1989 al 1992, condannato a cinque anni e quattro mesi per le diverse tangenti sborsate dalle industrie farmaceutiche da lui favorite, per un totale accertato di 4,5 milioni di euro.

Dopo Mani Pulite, sotto il ventennio berlusconiano, gli iter giudiziari per i reati ministeriali si sono invece arenati. L’ultimo caso affrontato dal Tribunale dei Ministri è del maggio 2017 e ha come protagonista Angelino Alfano, all’epoca titolare degli Esteri. Ma anche in questa circostanza non vi è stata condanna: il Tribunale ha disposto l’archiviazione per i fatti denunciati da tre deputati del Movimento Cinque Stelle per l’uso dei voli di Stato da parte dell’ex-Ministro.

In attesa di scoprire come si concluderà la procedura giudiziaria aperta nei confronti di Salvini, intanto, da Catania è arrivata la prova migliore contro il Ministro dell’odio e del razzismo: quella di una piazza piena e determinata che ha già stabilito da che parte bisogna stare.

Foto di copertina di Luigi d’Alife