EUROPA

Opporsi attivamente alla guerra. Voci dalle carovane italiane in Ucraina

Il mondo del pacifismo e dell’attivismo dal basso si sta mobilitando per pratiche di solidarietà attiva a favore delle vittime della guerra in Ucraina con esperienze ampie e significative come la carovana “Stop the War Now” e il “pullman sospeso”

Mentre in Ucraina infuria il clamore delle armi e dei combattimenti, c’è chi prova – andando direttamente “sul campo” – a far sentire anche le ragioni della pace, del disarmo e dell’accoglienza. È il caso di alcune iniziative, come la carovana “Stop the War Now” o della carovana milanese contro la guerra, che hanno coinvolto nei giorni scorsi numerose realtà del terzo settore e dell’attivismo dal basso del nostro paese. In particolare, la prima ha visto la partecipazione di 153 associazioni laiche e non tra cui Un Ponte Per e Mediterranea (per un totale di 220 volontari e volontarie e 66 mezzi di trasporto impiegati) per un viaggio verso Leopoli. La seconda, su iniziativa della rete di mutualismo conflittuale contro la guerra in Ucraina, ha preso vita grazie alla volontà di spazi e realtà autogestite del capoluogo lombardo, come le Camere del Non Lavoro e Ri-Make, che si sono recate inizialmente al confine polacco e poi anch’esse verso la regione galiziana.  

Due eventi importanti e, per certi versi, “eccezionali” vista la quantità di enti e persone coinvolti e vista anche la capacità di organizzarsi dopo poco tempo dallo scoppio del conflitto.

Altrettanto importanti ed eccezionali rimangono le sfide che il movimento pacifista e le realtà solidali hanno ora di fronte a sé, vista l’intensità della guerra che non sembra purtroppo destinata a scemare nel breve periodo e visto anche il dibattito acceso e polarizzato che si sta creando da noi. Abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni fra i partecipanti.

Alfio Nicotra (Un Ponte Per)

«La carovana è stata davvero un miracolo dal punto di vista organizzativo e pratico, perché è stata messa in piedi in pochi giorni sulla spinta di diverse realtà: c’è stata la capacità di mettere insieme un arco di forze del pacifismo italiano, del volontariato, della solidarietà internazionale molto articolato. Si è trattato dunque di uno schieramento laico e religioso molto ampio e non era assolutamente detto che si sarebbe formato.

Perché si è concretizzata questa carovana dal mio punto di vista? Innanzitutto penso sulla scorta della spinta umanitaria, per via della necessità urgente di portare assistenza alle popolazioni colpite dal conflitto. Ma anche perché, secondo me, era diventata insopportabile la propaganda bellicista che ha preso piede nel nostro paese e che addita i pacifisti come “amici di Putin” oppure di essere “quelli che stanno in salotto”.

Al contrario noi siamo i soggetti che, a differenza di chi pontifica dai talk show con questo linguaggio militarista, siamo sempre stati sotto le bombe e dalla parte delle vittime. Come Un Ponte Per siamo stati in Iraq, in Siria, in Libano, in Kosovo… Insomma, io credo che ci fosse anche la necessità di rompere questa campagna d’attacco nei nostri confronti e verso chiunque ponesse dei dubbi sulle scelte governative come l’invio di armi (Anpi e Cgil sono state fortemente attaccate, il Papa è stato censurato, ecc.).

In questo clima per noi era fondamentale metterci in cammino verso l’Ucraina e cercare anche interlocutori sul terreno della non-violenza. Volevamo anche testimoniare – come abbiamo sempre fatto nei nostri trent’anni di attività –- che la guerra è innanzitutto massacro di civili, anche se qualcuno sembra scoprirlo solo adesso.

Quindi sono molto contento che si sia verificato questo compattamento delle realtà pacifiste e antimilitariste italiane. Dall’altra parte contiamo che il lavoro di interlocuzione con le “controparti” ucraine (abbiamo avuto molti contatti con figure e realtà religiose, mentre più difficile è stato dialogare con sindacati e associazioni politiche) possa proseguire e porre le basi per future azioni. Non è semplice: io ho fatto della marcia dei 500 a Sarajevo, iniziativa che arrivava dopo comunque un anno di interlocuzioni e presa di contatto.

Ci accusano di volere la resa dell’Ucraina, ma non è così. Questo è un argomento che vuole solo delegittimare le nostre posizioni: noi invece sosteniamo che non esiste una soluzione militare al conflitto, e che anzi la resistenza all’aggressione vada organizzata in altro modo da quello puramente bellico, e cioè sostenendo le “forze sane” presenti nella società ucraina, nella società russa e altrove che si stanno opponendo alla guerra».

(Carovana milanese contro la guerra – Rete mutualismo conflittuale contro la guerra)

Ester Castano (Rete mutualismo conflittuale contro la guerra)

«Il nostro viaggio è iniziato il 31 marzo ed è ancora in corso. Siamo partiti con un pullman carico di beni di prima necessità e tre automobili. Una parte della carovana è già tornata, portando con sé 54 persone, in maggioranza donne e bambini, che fuggono dai bombardamenti, dall’incertezza fra la vita e la morte. Abbiamo svolto la nostra attività al confine polacco, prevalentemente a Przemysl e a Medyka.

Ci sono ovviamente situazioni disparate e disperate, dalla donna di cinquant’anni single con un figlio che combatte al fronte alla madre di sei bambini e arrivata coi quattro minori che è al momento incinta… Una parte della nostra carovana invece ha proseguito per Leopoli, consegnando medicinali che ci sono stati richiesti dai nostri interlocutori e fermandosi per girare un documentario.

La nostra iniziativa si chiama “pullman sospeso” (un nome simbolico nato sulla scorta della nostra precedente attività del tampone sospeso che voleva mettere a disposizione i controlli per Covid nelle zone popolari di Milano gratuitamente e a chiunque) e attraverso di essa abbiamo cercato di rispondere all’emergenza della guerra nell’immediato. Un modo per ribadire anche le nostre posizioni antirazziste, antinazionaliste e antifasciste.

Da qui l’idea di accogliere ogni persona, senza discriminanti soprattutto etniche: sappiamo che, per esempio, famiglie di etnia rom faticano molto a trovare chi li accoglie e li trasporta oltreconfine. Il nostro impegno a favore delle vittime, della “povera gente” (per quanto suoni retorico questo termine, ma si tratta della realtà dei fatti che si tocca con mano andando là) che subisce le conseguenze della guerra prosegue anche qui in Italia: abbiamo infatti lanciato una grossa assemblea a Ri-Make con un pranzo a cui parteciperanno le persone arrivate con noi dall’Ucraina.

Un altro risvolto positivo dell’iniziativa (in attesa di ripartire verso fine aprile e inizio maggio) è stato anche l’essere stati capaci di riunire diverse realtà di autogestione e di attivismo cittadine per un obiettivo comune».

Elena Fusar Poli (Mediterranea)

«Abbiamo realizzato due missioni che abbiamo chiamato “Safe Passage“. Un nome che nasce direttamente dal “dna” di Mediterranea, che è costituito appunto dalla volontà di salvare persone nel mar Mediterraneo, ovvero in generale di andare incontro a chi fugge da guerre e condizioni di morte per arrivare in Europa e offrire un passaggio sicuro.

Il nostro sforzo è stato quello di riadattare un tale concetto nel contesto della guerra in Ucraina. In particolare, almeno in un primo momento, ci è sembrato importante concentrarci sul tema delle discriminazioni che comunque avvengono alle frontiere con l’Ucraina: sappiamo che spesso persone non di cittadinanza ucraina subiscono diverse trattamenti, cosa che dimostra come la “Fortezza Europa” riesca a dar vita a comportamenti “abominevoli” anche nel momento in cui sta cercando di dimostrare di essere accogliente al massimo grado.

Ecco perché la nostra prima missione è stata in grado di tornare in Italia portando in salvo 177 persone di sette diverse nazionalità, risultato certamente positivo. Da qui però ci siamo resi conto che il concetto di “passaggio sicuro” era da intendersi in un senso più generale. Perché le motivazioni per cui la fuga da una guerra può essere “insicura” sono milioni, ovviamente.

In primis, c’è il problema della tratta: è stato chiaro fin da subito andando a Medyka che uno dei maggiori allarmi dati da volontari e volontarie che si occupano dell’accoglienza verte su questo rischio. Capita purtroppo che “spariscano” donne e bambini, che magari subiscono ricatti economici o peggio. Non da ultimo, fra le varie vulnerabilità di chi scappa dalla guerra, c’è anche l’orientamento sessuale e/o di genere (si è parlato molto delle persone trans bloccate alla frontiera).

La nostra seconda missione si è dunque concentrata maggiormente su uno spettro di vulnerabilità più ad ampio raggio, per così dire. Anche, fra una missione e l’altra, abbiamo notato alcune differenze dovute all’evolversi del conflitto: quando siamo stati a Leopoli nell’ambito della carovana “Stop the War Now” abbiamo avuto a che fare soprattutto con persone che arrivavano dai territori orientali e, per questo, più a diretto contatto con gli eventi bellici (tante da Mariupol). È chiaro che gli effetti della guerra si sentivano in gradi diversi: una signora, per esempio, è restata per tutto il viaggio sul nostro pullman con addosso un piumone, nonostante il riscaldamento acceso.«Sono rimasta per venti giorni in un bunker, non mi toglierò più il freddo dalle ossa», era la sua spiegazione.

Una volta tornati in Italia, inizia la seconda parte delle nostre missioni, forse la più difficile, ovvero garantire un’accoglienza degna. Le istituzioni sono allo sbando e scaricano sulle associazioni quasi tutto il peso dell’operazione, spesso anche mettendo in atto trattamenti verso rifugiati e rifugiate che appunto non sono per nulla “degni”. Come Mediterranea non smetteremo di denunciare tutto questo».

Immagine di copertina: Mediterranea

Immagini nell’articolo da Un Ponte Per, Milano in Movimento e Mediterranea