ITALIA

Oltre l’adunata. Alpini, maschilità egemonica e altre maschilità

Il “corpo” alpino ci sembra particolarmente interessante per comprendere la costruzione dell’egemonia maschile tutta e per evitare dicotomie tra “maschi per bene e maschi per male” o la retorica delle mele marce. L’intervento del Laboratorio Smaschieramenti a Rimini

Pubblichiamo l’intervento del Laboratorio Smaschieramenti in occasione dell’evento Oltre l’adunata organizzato lo scorso 9 maggio a Rimini da Non Una di Meno Rimini, PRIDE Off, Casa Madiba.

Un grazie enorme a Non Una di Meno Rimini, a Pride Off, con cui il nostro Laboratorio/collettivo coltiva una relazione privilegiata da tanti anni con lotte e riflessioni condivise, grazie a Casa Madiba. Grazie per aver “bucato” il mainstream portando alla luce quanto accaduto a Rimini, ma non solo. Grazie per aver mostrato il potere trasformativo dell’agire collettivo, per aver squarciato il velo di Maya rispetto alla maschilità e a come si riproduce nello spazio pubblico (così come in quello “privato”) e per aver saputo avere cura di testimonianze che non sono rimaste esperienze individuali, ma hanno piuttosto composto un quadro sociale. Grazie per aver preso il trauma della violenza di genere e del genere e averlo reso una potenza che non può essere ignorata. Un abbraccio collettivo da parte nostra, un gesto di cura perché sappiamo che la sovra-esposizione spesso reitera violenza e ci vuole una grandissima forza per fare quello che avete fatto.

Siamo un collettivo e ci chiamiamo Laboratorio Smaschieramenti, perché fin dall’ondata femminista del 2007 ci interroghiamo esattamente sulle maschilità a partire dall’analisi e dalla critica della maschilità dominante o egemonica, come preferiamo chiamare la costruzione sociale del genere “maschile”, con la consapevolezza che un genere non si fa da solo e che la complessità della critica deriva proprio dalla complessità di questa stessa costruzione di privilegio millenaria.

Non parliamo di maschilità tossica, sfidando la comprensione generalista del fenomeno. Perché? <<Tossica suggerisce una devianza patologica rispetto alla normalità. Ma quei modelli non sono deviati, sono la norma, sono così egemonici che è difficile costruirsi in identificazioni alternative, ed è per questo che è così difficile “uscire dal branco”. Anche se nessuno di noi si identifica con il maschio violento patriarcale stupratore, sappiamo quale sono le complicità esistenti tra quel modello e la costruzione generale del maschile in cui tutti noi cresciamo.>> (René su DinamoPress)

Ci sembra anzi una connotazione pericolosa ai fini dello smantellamento di questo sistema di privilegio, perché crea una condizione di eccezionalità in cui difficilmente ci si riconosce quando interpellati. Non c’è uomo cis che accetti questa definizione ed il rifiuto porta ancora una volta al nascondimento della maschilità dietro una neutralità che non può mai essere messa in discussione a partire dalla sua specificità. Questa specificità emerge in modo dirompente soprattutto ora, con l’emersione di “altre maschilità”, di cui parlerò tra poco, e con la tenacia femminista e transfemminista che da decenni, o centinaia di anni, non si ferma e trova il modo di riorganizzarsi in ogni fase della storia. In questa ultima fase, dal 2016, la dimensione transnazionale dell’appello tragico e chiarissimo “Non Una Di Meno” ha portato nel nostro paese una presenza capillare di lotta fin nelle più piccole città da un lato e, dall’altro, alla consapevolezza che le esistenze queer e trans sono una lente di interpretazione del mondo imprescindibile, così come la decostruzione di quei generi fondati sull’eterosessualità obbligatoria e costruiti su linee di privilegio intersezionali.

Attenzione! Non si tratta di “teorie”, si tratta di lotte organizzate per l’urgenza di sopravvivere e per il desiderio di vivere bene e meglio. È anche per questo che l’intersezionalità delle lotte è fondamentale per cambiare il mondo, sappiamo ormai troppo bene come la maschilità egemone abbia anche una sessualità, una classe sociale, un colore della pelle, ecc… ben determinati e come su questo si reiteri in ogni ambito della vita sociale come presenza ingombrante, ormai insostenibile.

Crediamo che questo raduno degli alpini, ahinoi, rappresenti esattamente la ricaduta dei tanti piani della maschilità egemonica per come descritta fino ad ora.

Un primo commento “di pancia” e a partire dal contesto geopolitico che stiamo vivendo ora, a partire dalla guerra in relazione alla maschilità.  Non c’è da stupirsi, purtroppo, di fronte alla tragedia degli stupri di guerra, è un fenomeno che conosciamo da sempre grazie al femminismo, grazie alle donne femministe nei luoghi di conflitto. Ci chiediamo davvero come sia possibile che molte persone non siano in grado di leggere il potenziale di violenza misogina e omolesbobitransfobica nell’invasione di un esercito – seppur in licenza o congedo – che occupa una città insieme ai suoi sostenitori ed emulatori: è chiaramente pericoloso. Il cameratismo della cultura militare, che è parte della costruzione della maschilità tutta, è esattamente questo. Certo, ci rispondono che ormai ci sono anche donne militari, e vediamo costantemente amplificata la loro voce solo quando esprimono solidarietà ai propri commilitoni, mentre viene silenziata quando denunciano violenze interne al “corpo” militare.

Dicevamo, questo “corpo” alpino ci sembra particolarmente interessante per comprendere la costruzione dell’egemonia maschile tutta e per evitare dicotomie tra “maschi per bene e maschi per male” o la retorica delle mele marce (attenzione perché è marcio tutto l’albero!).

Il punto infatti non è questo, ma piuttosto quella tradizionale concezione degli “italiani brava gente”. Questa formula è ancora purtroppo vincente sul livello culturale, è la formula che ha impedito di fare i conti con il fascismo e la fascistizzazione della società, che ha impedito di fare i conti con il colonialismo di allora e di oggi.

Il corpo alpino rappresenta perfettamente infatti il militare amico del popolo, e rappresenta un modello vero e proprio di maschilità soprattutto nel Nord Italia perché tradizionalmente legato alla memoria della I e della II guerra mondiale -Se l’esercito è chiaramente violento, l’alpino viene rappresentato come più buono – Un Nord dove la socialità è mediata esattamente dagli alpini, che organizzano le sagre, che occupano le pro-loco. Da questo si produce un modello da emulare e un potere “bonario, goliardico e bonaccione” difficile da sfidare senza mettersi contro il popolo tutto. Questa maschilità si tramanda così per generazioni.

Se fossero stati altri gruppi di persone ad agire tanta violenza in una città, i media non avrebbero richiamato alla goliardia, ma al branco: tanta gente insieme, che riproduce cameratismo da spogliatoio e produce un aumento esponenziale della violenza.

Per questo è importante sottolineare il nesso tra militarismo e corporativismo, sfidando la scandalosa risposta dell’associazione nazionale alpini, dove si parla di “fisiologica maleducazione” in un evento partecipato, scaricando la responsabilità di quanto accade nei raduni su un senso comune che fortunatamente sembra non essere più così tanto comune. In qualsiasi risposta politica questo tema è centrale, perché la stampa è stata sì disponibile a riportare la denuncia ma restìa a mettersi contro gli alpini. Non si può parlare di maleducazione con 150 denunce di molestie. Grazie all* compagn* si è creata una contro-narrazione, che possiamo portare a un livello strutturale anche dicendo cosa rappresenta questo corpo armato nella cultura e nella tradizione popolare ed è la prima volta che si riesce a scalfire questa immagine che ci ricorda tanto, troppo, l’immagine del “maschile” egemonico in generale.

Rimini inoltre ci sembra esemplare per sottolineare l’intersezione tra classe, colonialità e maschilità. Questo raduno si è tenuto in una città che è turistica, dove c’è il lavoro stagionale, dove ogni anno ci tocca sopportare la retorica “la gente non ha voglia di lavorare, non troviamo dipendenti, è colpa del reddito di cittadinanza”.

Le testimonianze ci raccontano come nel lavoro stagionale non si può rispondere alle molestie perché sei soggett* a sfruttamento in un contesto in cui la maggior parte delle molestie viene dal cliente. Ringraziamo ancora l* compagn* per aver fatto emergere il rischio esponenziale di micro violenze quotidiane mentre si è espost* a un lavoro che è, di fatto, un ricatto. Le riviere sono posti di conquista per la gente che va a fare turismo, dove ancora il concetto di “viaggio”, che nasce dall’uomo bianco, è tutto impermeato di atteggiamento coloniale e di razzia: il luogo di vacanza è sempre “esotico” e quindi posso permettermi di prendere tutto ciò che voglio, come voglio. L’attenzione riservata da questi uomini verso le ragazze minorenni, fino ad arrivare all’inseguimento dentro le aule di una scuola, ci ricorda che l’Italia è il primo paese per turismo sessuale in altri luoghi “fuori confine”, dove la mentalità alla Indro Montanelli continua ad essere agita impunemente e giustificata, ancora, da una fantomatica “benevolenza italiana” che porta ricchezza alle giovani ragazze povere del mondo.

Ed ecco che abbiamo nominato la scuola, una scuola impreparata a scardinare la costruzione egemone di maschilità proprio nel momento in cui rifiuta l’esistenza queer, trans, frocia, butch. Lo abbiamo visto nella discussione parlamentare sul ddl Zan.

La bocciatura ha riguardato in particolare due temi, l’identità di genere e la promozione di una cultura anti-discriminatoria nelle scuole nella giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia del 17 Maggio. In parole povere, chi da fastidio particolarmente sono le persone trans e l* studenti che esistono e resistono ogni giorno in contesti (luoghi di lavoro, della salute e della formazione) che non permettono l’accesso ad una salute intesa come benessere sociale e come libertà dalla violenza. Si tratta di un’ingiustizia, niente più, niente meno, perpetrata dalle istituzioni in primis. Ma dobbiamo riconoscere che il patriarcato ha davvero colto il potenziale contro-egemonico proprio di queste esperienze. << La pratica queer, non identitaria, larga, attraversabile, è stata per molti una possibilità di denaturalizzazione della pratica della mascolinità. Dagli anni ‘80 in poi sono emerse altre mascolinità non egemoniche: butch, lesbiche, femminili, trans, queer ed è stato necessario riuscire a dare loro spazio.>> (René su Dinamo Press)

Jack Halberstam in Maschilità senza uomini, ovvero Female Masculinities (pdf qui) ci aiuta a comprendere meglio la potenzialità che la critica queer, la metodologia queer, come lui la chiama, ha nella trasformazione della società. Halberstam ci ricorda che ci sono molte linee di identificazione, o disidentificazione, che attraversano il terreno della mascolinità, e che dividono il suo potere in differenze di classe, razza, sessualità e genere.

Se quella che noi chiamiamo “mascolinità dominante” sembra rappresentare una relazione naturalizzata tra mascolinità e potere, allora la maschilità diventa leggibile davvero dove e quando lascia il corpo bianco, maschile e abile della classe media.

Le diverse tassonomie di genere emergono quando ci rifiutiamo di impegnare tutte le nostre energie verso l’abbattimento di quel privilegio e diamo spazio a noi stess*. Noi lo abbiamo chiamato “sciopero dai generi”, proprio per indicare il disinvestimento che auspichiamo nella riproduzione di modelli vetusti, per la proliferazione non binaria di generi e sessualità altre, contro-egemoniche.

Siamo consapevoli di quanto questo spaventi il potere costituito, ma siamo anche molto coscienti del fatto che questo cambiamento è insieme soggettivo e collettivo, è già qui ed ora e ci sentiamo parte di questa storia, una storia nuova.

Immagine di copertina di Casa Madiba