DIRITTI

Non una di meno: la violenza sulle donne non è una questione di decoro urbano

La violenza come fatto quotidiano che per la stampa ha assunto una dimensione di normalizzazione e neutralità, mentre i luoghi urbani della città vengono imputati come responsabili.
Violenza alla Stazione Tuscolana

Nella città di Roma sono emersi in questi giorni gli ennesimi casi di stupri. All’ordine del giorno ormai si consumano episodi di violenza sulle donne che per la stampa mainstream vanno a rinfoltire le pagine di cronaca ordinaria da una paginetta. Negli ultimi tempi però la narrazione si sta concentrando sempre di più nei luoghi dove la violenza viene perpetrata, da Colle Oppio a Stazione Tuscolana, ai Parioli, a Prati, etc… in cui ogni parco, ogni strada, ogni piazza diventa lo scenario in cui si materializza lo spettro del “degrado urbano” per cui ogni violenza ha il suo habitat e che diventano il pretesto per fornire la possibilità di inchiestare quei luoghi in cui ogni cespuglio incolto, ogni panchina si rende protagonista della scenografia. La conclusione si concretizza così: ruspe e non andate in quei posti.

Altri modi per raccontare la gentrification: la donna che percorre le strade del centro dipinta come la vittima di turno che subisce la violenza a causa dei focolai inaspettati del degrado. Come se dall’oltretomba spuntassero questi uomini derelitti pronti ad azzannare, come se non si trattasse di esseri umani in carne e ossa violenti e figli di quel patriarcato che innerva il mondo da ogni latitudine ma una delle forme di quel degrado urbano, appunto, che si materializza nella violenza sessuale.

L’ordine del discorso cambia se la donna osa avventurarsi nelle strade della “periferia”, se indossa una minigonna, se beve o fa uso di sostanze, perché in quel caso se l’è andata a cercare lei. E la sentenza della corte dei media diventa: “guilty”. Spesso il voyeurismo dei media si concentra su particolari che poco hanno a fare con la violenza in sé e che ricordano il cosidetto yellow journalism; oppure si concentrano su particolari della vita della donna costruendo ad arte la fiction da propinare ai telespettatori, ops lettori. Anche la comunicazione della stampa sul web e diffusa attraverso i social assume questi toni con immagini che “rimandano spesso a un immaginario sessualizzato: minigonne cortissime, calze autoreggenti, magliette scollate. E poi pose rannicchiate nel buio, mani sulla faccia.

Come se la vergogna fosse la loro e non quella di chi le ha aggredite”. Un immaginario anche estetico che rappresenta solo le donne (meglio se di bell’aspetto) in funzione di vittima e lo stupro come un atto di machismo e libidine e non ci coercizione. Oppure con lividi e ferite in una visione di una debolezza che le dipinge passive, mai in grado di reagire da sole, delegando la propria salvezza a uomini che dovranno proteggerle. E infatti questa simbologia che vede la casa familiare come il luogo in cui la donna dovrebbe essere relegata perché più sicuro che si estende anche alla visione degli uomini in divisa, le forze dell’ordine che sono lì per proteggerci. Sappiamo, invece, quanto le caserme siano spesso teatro di stupri, ma non solo, perché ogni donna che è andata a denunciare una violenza, stalking ed altro sa che esperienza negativa possa essere.

Se poi la violenza è particolarmente efferata la narrazione assume toni horrorifici, come se non bastasse già l’episodio in se. Sarebbe auspicabile un giornalismo che racconti la violenza sulle donne al di là di questo tipo di rappresentazioni e che non alimenti stereotipi e retaggi maschilisti.

Sui corpi delle donne vengono giocate anche partite politiche, e purtroppo il caso di Giovanna Reggiani è stato uno degli esempi più eclatanti. La retorica della difesa delle “nostre donne” in una visione patriarcale e xenofoba per cui il nemico e usurpatore e ingrato proviene dall’esterno e in cui la componente razziale diventa aggravante dello stupro, quando sappiamo che la violenza perpetrata sui corpi delle donne avviene in primis in ambito domestico e da persone “di famiglia”. La questione della violenza maschile sulle donne che non ha paese, razza, classe, religione specifica viene trasfigurata sovente nel tema della sicurezza contro il degrado prodotto dagli “immigrati”.

Non è solo una retorica italiana, pensiamo anche agli eventi di Colonia dello scorso Capodanno. Il paternalismo è ancora la chiave di lettura del patriarcato oggi, quando anche leggi contro il femminicidio vengono arraffazzonate dal becero politicante di turno e inserite in pacchetti sicurezza. Leggi costruite da uomini spesso ignoranti per le donne, elargite a loro in quanto soggetto passivo.

La rete cittadina Io Decido nel percorso verso l’assemblea nazionale di questo sabato 8 ottobre a La Sapienza e verso la manifestazione nazionale del 26 novembre, il giorno dopo la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ha provato a interrogarsi anche su come la violenza sui corpi delle donne viene rappresentata, raccontata e narrata, per tentare anche alla decostruzione di un linguaggio che diventa una delle tante armi del patriarcato. Un’altra delle tappe è stata quella di sabato 1 ottobre a Lucha y Siesta in cui la violenza maschile su donne e minori è stata affrontata dal punto di vista della legislazione e della normativa a livello nazionale e locale, in cui ci si è interrogate, in tempi in cui le leggi nate dalle battaglie delle donne (194 ma non solo), vengono svuotate di senso, come si pratica la giustizia al di là della legge e come si pratica il diritto in altro modo.

La violenza sessuale non è frutto di degrado urbano e non si annida nella simbologia dell’oscurità del lampione spento e della via poco frequentata ma innerva tutta la società ed ha a che fare con la cultura patriarcale di prevaricazione nei confronti di coloro che sono considerate soggetto debole e remissivo, ovvero le donne. La violenza è sempre una questione di rapporti di forza, sta a noi ribaltarli a partire dalla nostra unione e condivisione. Vittime sarete voi!

In copertina: Maid in London by Banksy