DIRITTI

Morire di patriarcato

Il caso di Catania non è semplice malasanità. Parla delle forme di dominio sul corpo e di un’idea di Stato patriarcale che mette in pericolo la vita delle donne
L’obiezione di coscienza uccide

Succede che sei incinta, succede che ti senti male, succede che vai in ospedale.

Succede che però ti trovi nel posto sbagliato al momento sbagliato, perché in quell’ospedale tutti i dodici ginecologi in servizio sono obiettori di coscienza e immaginiamo bene che la scelta di non obiettare debba essere proprio difficile in una struttura dove il primario, ovviamente obiettore, in quel momento è anche il Presidente della principale Società Scientifica di Ginecologia e Ostetricia in Italia (SIGO). Ma tutto questo non dovrebbe essere un problema: è una gravidanza che hai tanto voluto e cercato, non sei lì per interromperla.

Succede invece, paradossalmente, che proprio perché sono obiettori rischi di ricevere un’assistenza basata su principi religiosi più che scientifici e rischi per quel tipo di assistenza di morire. Come è successo a Valentina.

E non ci interessano le ricostruzioni o le giustificazioni con le quali si cerca di far passare la morte di Valentina Milluzzo come un caso di malasanità, dove si normalizza l’operato del medico o dove addirittura si accusa la famiglia di voler trovare per forza un colpevole, negando il fatto, ribadito da diversi testimoni, che il medico di turno proprio in quanto obiettore non volesse intervenire, perché i feti erano ancora vitali e l’intervento ne avrebbe causato la morte. Ha agito in maniera scellerata quel medico, guidato dai propri convincimenti personali, che lo hanno portato a travalicare i limiti stessi della legge 194 che impone agli obiettori di intervenire in caso di rischio per la vita della madre.

Non ci interessano le giustificazioni perché un professionista che lavori nel Servizio Sanitario Pubblico (o convenzionato), ha il dovere e la responsabilità professionale e morale di agire basandosi sulle evidenze scientifiche, sulla propria esperienza clinica, sulle scelte delle persone che assiste e sulle leggi dello Stato. Non su altro. Non su principi etici di stampo religioso o credenze personali.

Perché solo a queste condizioni è in grado di offrire assistenza e cure appropriate.

Succede però che in Italia il 70% dei medici sono obiettori con punte del 90%, perché la grande maggioranza delle strutture sanitarie è controllata direttamente o indirettamente dal Vaticano.

Questa politica sanitaria cattolica aguzzina antepone alla vita ed alla salute della donna quelle del feto e porta i medici obiettori a rifiutare un pubblico servizio, quello di prestare assistenza medica, di salvaguardare la salute della donna e di salvarle la vita. L’obiezione di coscienza non esiste. Se esistesse, dovrebbe portare il medico a fare un altro mestiere, perché il medico che obietta nega la vita alla donna che le sta davanti.

 

Succede allora che ancora nel 2016 il controllo del corpo delle donne sia lo strumento principe attraverso il quale il patriarcato esercita il proprio potere.

 

Succede anche che la Asl di Bari consegni questo documento a una donna dopo un’Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG): “Gentile signora su sua richiesta è stata sottoposta a IVG. Le auguriamo che l’intervento cui è stata sottoposta in data odierna rimanga unico. L’IVG ha delle implicazioni di ordine morale, sociale e psicologico e non solo una mera procedura chirurgica o farmacologica ma un rischio per la stabilità emotiva della donna con possibili ripercussioni sul piano relazionale“.

Non abbiamo bisogno di uno Stato paternalista che ci educhi interferendo con le nostre scelte e stili di vita, imponendoci una morale sessuale e impedendoci di scegliere liberamente se, quando e come diventare madre. Il paternalismo medico e la politica sanitaria cattolica negano ogni soggettività e diritto di decisione e di scelta sul nostro corpo e sulla nostra vita.

Nemmeno un mese fa è morta Annalisa Casali, in Toscana, perché durante il parto le hanno fatto la Kristeller (spinte violente sulla pancia per far uscire il bambino: una manovra molto pericolosa e messa al bando in alcuni Paesi come l’Inghilterra) che le ha causato la rottura della milza e una grave emorragia interna che l’ha uccisa.

Cosa hanno in comune la storia di Valentina e di Annalisa? Tutte e due erano incinte e tutte e due sono state vittime di violenza ostetrica, un fenomeno denunciato addirittura dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Si tratta di casi isolati? No, tutti i giorni nelle sale parto e maternità le donne sono vittime di violenza, durante il travaglio e il parto sui loro corpi vengono praticati atti medici non necessari, pericolosi, dolorosi e non acconsentiti: l’episiotomia (il taglio della vagina e del perineo), la kristeller, l’obbligo alla posizione sdraiata con le gambe aperte, il non poter avere una persona con sé, la rottura del sacco amniotico, la somministrazione di farmaci che forzano il travaglio provocando contrazioni molto dolorose, la separazione inutile e forzata di ore e ore tra la madre e la persona appena nata, umiliazioni, prese in giro, frasi ingiuriose, violazioni della privacy.

 

La violenza ostetrica non è malasanità, non è errore medico. La Violenza ostetrica è il controllo e disciplinamento del corpo della donna nel parto.

 

L’obiezione e la violenza ostetrica nascono dal rifiuto di accettare che la donna abbia l’unico, esclusivo, inviolabile diritto di decidere se, quando, dove e come diventare madre.

 

Anche per questo saremo in piazza il 26 novembre e il 27 novembre a Roma, per difendere il diritto a compiere scelte libere e informate rispetto al proprio corpo e alla propria salute sessuale e riproduttiva, per denunciare e combattere la violenza ostetrica e l’ingerenza della morale cattolica, per pretendere una sanità laica che garantisca il diritto delle donne all’autodeterminazione.

 

*tratto da nonunadimeno.wordpress.com