DIRITTI

Misure di polizia, controllo sociale e tutela dei diritti

Una riflessione in chiave costituzionale su senso e funzione delle misure di prevenzione, strumenti di controllo sociale potenziati dalle misure “a tutela del decoro” introdotte dal decreto legge sulla sicurezza urbana di Minniti e di recente convertito in legge dal Parlamento
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È del 21 aprile scorso l’approvazione della nuova legge sulla sicurezza urbana (n. 48/2017), un intervento che, potenziando il quadro delle misure di prevenzione personali (e non solo), amplia la possibilità di ricorrere a strumenti di sicurezza idonei a comprimere le garanzie costituzionali poste a tutela dei diritti.

Ma cosa sono le misure di prevenzione e perché vengono spesso considerate uno strumento repressivo di dubbia costituzionalità oggi rafforzato dalla legge n. 48 del 2017?

Rispondere, impone di andare alla radice della loro funzione: impedire la commissione di delitti da parte di persone considerate – a vario titolo – socialmente pericolose, indipendentemente dalla commissione di un reato. L’applicazione è, quindi, interamente fondata sulla possibilità che si possano compiere – anche solo nel futuro – attività genericamente considerate “antisociali”, in grado cioè di mettere in (astratto) pericolo la sicurezza o l’ordine pubblico, così giustificando una vigilanza anticipata.

Qui il primo dubbio di legittimità: è possibile limitare la libertà personale sulla base di un giudizio prognostico basato esclusivamente sulla personalità e sulle abitudini di vita di una persona che non ha commesso un reato? La Costituzione sembra escluderlo. Gli articoli 13 e 25, prevedendo che nessuno possa essere “punito” con la restrizione della libertà se non in forza di una legge, sembra negarlo chiaramente. Il termine punizione, infatti, implica necessariamente la commissione di un comportamento illecito, comportamento non richiesto per l’applicazione delle misure di prevenzione.

Se già il presupposto applicativo di tali misure appare largamente contrastante con le garanzie costituzionali, analoghi problemi emergono anche in relazione alla possibilità che alcune restrizioni – oltre che dai giudici – possano essere disposte direttamente dalle forze di pubblica sicurezza.

Rimpatrio con foglio di via” ed “avviso orale” sono, infatti, tipiche misure di polizia di competenza del Questore, esterne a ogni processo ma in grado di incidere in maniera significativa su vita, abitudini e scelte personali dei destinatari. Il foglio di via, imponendo il ritorno nel comune di residenza e impedendo il rientro nel luogo di allontanamento, condiziona l’esercizio di numerosi diritti costituzionalmente tutelati quali – fra i tanti – lavoro, istruzione, libertà di circolazione e relazioni affettive.

L’avviso orale, che consiste in un generico invito a mantenere un “comportamento conforme alla legge”, sembra non incidere significativamente sulle abitudini di vita; non è così. Ad alcune condizioni, l’avviso può contenere una serie di limitazioni (divieto di utilizzare qualsiasi apparecchio di comunicazione, di possedere giocattoli riproducenti armi o qualunque mezzo idoneo allo sprigionarsi di fiamme e altre ancora). Tuttavia, anche quando ne è privo, l’avviso è in grado di alterare concretamente le abitudini di vita. Nascondendosi dietro la protezione di generiche e indeterminate categorie come sanità, sicurezza o tranquillità pubblica la persona è indotta ad allontanarsi da realtà che, in tempi di “emergenza sicurezza” e smantellamento del sistema di welfare, si trasformano facilmente da “fenomeni” a “pericoli” sociali. Basti pensare ad occupazioni abitative, centri sociali, campi rom, presidi, scioperi e così via.

Tutto questo è costituzionalmente legittimo? Anche qui la Costituzione appare di segno opposto. L’art. 13, attribuendo ai soli giudici la possibilità di limitare la libertà personale con un atto motivato (riserva di giurisdizione), sembra escludere ogni sua possibile restrizione da parte delle forze di pubblica sicurezza. Inoltre, l’invito a comportarsi secondo legge, determinando un’alterazione di fatto delle proprie abitudini e scelte di vita, rischia di trasformarsi in un’illegittima “minaccia dell’azione penale”, anche questa in aperto contrasto con le garanzie costituzionali (art. 25, co. 2 Cost.) e il principio di tipicità dell’azione penale (art. 1 del c.p.).

Nonostante queste riflessioni, le forze politiche attualmente al Governo sembrano ancora oggi considerare le misure di polizia come un valido strumento a tutela della sicurezza: lo dimostra la recentissima legge n. 48 del 2017 che ha convertito il decreto contenente le “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”, un articolato pacchetto di misure volte a potenziare l’intervento di enti e forze di polizia locali nella c.d. lotta al “degrado delle aree urbane”.

Secondo quanto disposto dall’art. 9, spetta alla polizia locale accertare se siano compiute «condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione delle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze». In caso di violazione, i trasgressori saranno destinatari di una multa fino a 300 euro e – qui il profilo di maggiore frizione con le garanzie costituzionali – potranno essere allontanati dal luogo di commessione dell’illecito e dalla stessa città a seguito di un provvedimento di un’autorità politico-amministrativa: il sindaco.

Quest’ultimo si eleva, dunque, ad attore della sicurezza assumendo un potere simile a quello esercitato da questori e procuratori nell’applicazione delle misure di prevenzione. Ciò che cambia, ampliando il raggio d’azione delle misure limitative della libertà personale che sfuggono, almeno in prima battuta alla garanzia giurisdizionale posta dall’art. 13 della Costituzione, è il presupposto applicativo: se per le misure di prevenzione questo si indentifica nella presunta pericolosità sociale del destinatario, la legge n. 48 lo rende ancora più evanescente, individuandolo nel “fastidio sociale” e nell’“attacco al decoro”.

Lo stesso articolo 10, rubricato “Divieto di accesso”, sembra confermare questo legame: in caso di reiterazione della condotta e «qualora da questa possa derivare un pericolo per la sicurezza», al questore viene riconosciuto il potere di impedire la permanenza nell’area fino a sei mesi, che possono diventare due anni se il comportamento è compiuto da persone condannate in via definitiva, o in appello, per reati contro la persona o il patrimonio nei cinque anni precedenti.

Quanto detto sembra condurre ad una naturale conclusione: l’approvazione della legge sulla sicurezza urbana e l’ampio utilizzo delle misure di prevenzione dimostrano come, nonostante la chiarezza delle garanzie costituzionali, le restrizioni di polizia – alle quali si affiancano oggi le misure dei sindaci a tutela del decoro – siano ancora largamente utilizzate, limitando autodeterminazione e libertà personale attraverso il richiamo a evanescenti “sintomi antisociali” complice, naturalmente, un’illegittima interpretazione della Costituzione in chiave “securitaria”.

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