MONDO

Memoria e complicità: sulla lotta per l’aborto legale in Argentina

Un percorso attraverso il la marea verde (colore simbolo della lotta per l’aborto legale) che lo scorso 10 aprile ha invaso la città di Buenos Aires, i corpi e gli affetti, di migliaia di persone in piazza, in occasione della prima sessione parlamentare che sta discutendo la legge sull’aborto legale, sicuro e gratuito.

Sono uscita presto di casa, mi sono annodata il fazzoletto verde alla cinta, la giornata era tinta di questo colore, ma ancora non era giunto il momento di metterlo al collo. Mi sono dimenticata che ce lo avevo appeso là quando sono entrata in banca, così come me ne sono dimenticata mentre pedalavo tra un impegno e l’altro. Ma tra il calore di una umida giornata d’estate apparsa d’improvviso in autunno e l’ansia di arrivare per sommergermi nella marea verde speranza che tutto il giorno di ieri ha circondato il Congresso della Nazione, qualcosa era diverso dagli altri giorni soffocanti: ogni volta che mi incrociavo con donna soprattutto giovane, ci scambiavamo sorrisi. In un primo momento pensavo che fossero vicine che non avevo riconosciuto, poi mi sono resa conto: era il fazzoletto, un segno, il riconoscimento di una complicità condivisa tra sconosciute che però sanno qualcosa della storia dell’altra. Sappiamo che in qualche momento della nostra vita ci siamo confrontate con il dubbio di come interrompere una gravidanza, propria, di qualche amica, di una sorella, una figlia, una cugina, della compagna di lavoro o di una perfetta sconosciuta la cui richiesta arriva attraverso le reti sociali perché sa che dove c’è femminismo c’è anche una risorsa di saperi che si condividono, così come si condividono le cose buone. Così sono state le prime azioni dirette per facilitare l’accesso all’aborto, mettendo in comune i saperi, sistematizzandoli per le altre.

Il 10 aprile è stato un giorno storico e nei giorni storici è inevitabile ripercorrere la storia.

Quindi mi è tornata in mente con un piccolo battito in più nel ritmo del cuore l’immagine di Verónica Marzano, questa compagna immensa che è morta da poco, vittima di un incidente che si può dire piuttosto una apatia statale, perché la barriera che ha permesso ad un treno di investirla non funzionava. L’ho ricordata arrivando in redazione per raccontare questa cospirazione: lesbiche e femministe per il diritto all’aborto che iniziavano a mettere a disposizione di tutte una linea di aiuti per abortire con il misoprotsolo: più informazione, meno rischi.

E poi, mentre ero al telefono – questo aggeggio che ci converte sempre più in cyborg iperconnesse– controllavo come seguivano le dichiarazioni al Congresso nel primo giorno di dibattito che si sta dando affinché il diritto all’aborto sia finalmente votato in ambito legislativo, mi è tornata in mente anche la figura di Dora Codelesky, la sua immagine piccola ed agguerrita, il suo boccolo da nonna, la sua chiarezza femminista, assieme all’impronta che avrà lasciato a quel giorno ribelle in cui la nostra disobbedienza al patriarcato farà smettere di mettere in pericolo le più vulnerabili. Lei è stata tra le più attive al momento di cercare un cammino alternativo alle storiche dispute che si davano negli incontri per l’aborto dove dibattiti sterili accendevano l’animo degli Incontri Nazionali delle Donne. Ed assieme ad altre che ieri erano in piazza, circondate da adolescenti che facevano del fazzoletto della Campagna Nazionale per l’Aborto Legale, Sicuro e Gratuito, fasce per i capelli, reggiseni, collane o braccialetti, ha inventato il laboratorio delle Strategie per l’accesso all’aborto che poi si è trasformato in questa campagna nazionale per il dirtto all’aborto.

“Vogliamo che assolutamente tutte, in tutti gli angoli del paese, abbiano l’accesso a questo diritto, alla possibilità di abortire in qualsiasi ospedale per decisione libera. Non importano le scuse che presentino: chi si oppone non vuole la liberazione della donna, vuole mantenere questo controllo sul suo corpo, questo è il suo obiettivo”, diceva Dora e ogni parola può essere sottolineata e ripetuta anche ora.

Vogliamo il diritto all’aborto legale per coloro che mettono a rischio la propria vita perché non vogliono negoziare sul loro diritto a decidere, sulla loro intima libertà di decidere quando essere madri e quando no, ed anche per quelle che accedono all’aborto clandestino in buone condizioni – perché hanno le risorse che lo rendono possibile.

Perché ciò che si sta esigendo, ciò che si sta dicendo con cori e accampate davanti alla porta del Congresso, è che i nostri diritti non si negoziano, che seguiremo sempre la strada della nostra libertà.

Stiamo dicendo che noi, le donne, e tutte le persone capaci di gestare, non saremo mai più prigioniere dalle nostre possibilità, ma disporremo di esse per crescere figli e figlie quando vorremo e potremo, bambini, bambine e bambinx femministi che capiscano e possano godere di un orizzonte più ampio per tutti i modi possibili di essere e stare al mondo.

L’esercizio di memoria non finisce qui, arriva di corsa anche ogni amica che ha teso una mano quando è stato necessario, arriva il lavoro delle Soccorristas in Rete, che hanno messo a disposizione il proprio tempo e la propria complicità femminista per cambiare la vita a persone in carne ed ossa, qui ed ora, aiutandole ad abortire, arriva ogni dottoressa che ha ascoltato e che continua ad sentire che il diritto a decidere si difende anche nel consultorio e nell’ospedale.

E ognuna delle compagne e dei compagni che da ogni lato del paese hanno dato il colore verde del diritto all’aborto legale il significato di speranza. Ma soprattutto, risuonano quelle che non ci sono più, queste per cui gridiamo ogni volta che diciamo Ni Una Menos anche per aborto clandestino.

Ciò che sta accadendo ora stesso attorno al consenso sociale sul diritto a decidere sui corpi ed i progetti di vita delle donne è una enorme conquista, una trama di complicità femministe che sta occupando le strade in massa negli ultimi tre anni e da molto prima, in ogni Incontro Nazionale delle Donne. Questa complicità fatta di dibattiti ed anche di discussioni è l’erede di una enorme storia di lotte che risale a questi circoli di donne che attorno ai calderoni trasformavano la materia in cibo e le erbe in segreti per regolare la propria fertilità.

È questa logica di circolo attorno alle cucine popolari dei quartieri più vulnerabili e questo circolo attorno ad una rivendicazione comune: Aborto legale ora, che vediamo in molte immagini. Perché questo è il cambiamento storico e simbolico che ci posiziona dalla parte della vita, dalla parte di questi sorrisi nei quali ci riconosciamo ogni volta che ci scopriamo parte di una stessa lotta.

Marta Dillon è giornalista e attivista del collettivo femminista Ni Una Menos.

L’articolo è stato pubblicato su per Pagina12 ed Emergentes traduzione in italiano di Elisa Gigliarelli per DINAMOpress.