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Melanconia di classe. Intervista a Cynthia Cruz

Esce in questi giorni per l’editore londinese Repeater “The Melancholia of Class: A Manifesto for the Working Class” di Cynthia Cruz, una riflessione sulla rimozione delle origini di classe dal discorso culturale contemporaneo e sul sentimento di melanconia che ne consegue

Enrico Monacelli: Prima di tutto, una domanda preliminare spinosa, che non c’entra direttamente con The melancholia of class, ma che temo sia tristemente obbligata dall’habitat in cui il tuo libro potrebbe inserirsi. Il tuo libro parla evidentemente di classe e lotta di classe. Già solo il titolo punta subito i riflettori sulle macerie della guerra fra classi antagoniste, una cosa che, ad alcuni, potrebbe sembrare così passé. Ridotto ai minimi termini, il tuo libro è un romanzo gotico sui modi in cui le questioni di classe infestano le nostre vite come spettri. Uno dei modi in cui ci perseguitano è certamente legato alla nostra repressione di ogni discorso sul conflitto di classe, repressione che non viene promossa solo dagli interessi della classe dominante, ma anche dalla struttura del discorso di sinistra contemporaneo. La forma più popolare di questa repressione di classe di sinistra, credo, è l’ingiunzione a evitare e odiare il “riduzionismo di classe”, scuola di pensiero che sosterebbe che la classe è l’unica radice di ogni oppressione sociale – filosofia che sembra essere ovunque e da nessuna parte contemporaneamente, dato che risulta davvero difficile trovare autori tanto crassi nelle loro analisi. Nonostante ciò, se ci mettiamo a sondare i discorsi di molta sinistra, online e offline, questo comandamento – non ridurrai tutto al conflitto di classe – non solo è decisamente sentito, ma è fonte di ansia e panico. Spesso sembra quasi indelicato parlare di questioni di classe per paura di essere presi per uno di quelli là, uno di quei rozzi che non capiscono che l’oppressione è complessa e va analizzata di conseguenza. Per questo ti chiedo: il tuo libro è uno spaventoso esempio di riduzionismo di classe? Come ti posizioni in questi dibattito? E perché il conflitto di classe ci fa così paura?

Cynthia Cruz: Negli Stati Uniti si dà per scontata l’idea che le classi sociali non esistano, e, dunque, che non esista alcuna classe lavoratrice. Allo stesso tempo, la maggior parte dei cittadini statunitensi appartengono alla classe lavoratrice o sono lavoratori sulla soglia della povertà. Questo apparente paradosso è il cuore di The melancholia of class – come può sopravvivere un soggetto della classe lavoratrice senza nemmeno sapere di esistere? Un vuoto in cui la classe c’è ancora ma in cui ci è stata strappata di dosso, un vuoto che è stato riempito di termini neoliberali che ci fluttuano attorno ma a cui non osano avvicinarsi.

Il termine identity politics è stato coniato dal Combahee River Collective nel 1977. «l’obbiettivo del collettivo» come viene affermato sul sito dell’organizzazione «era quello di rendere il femminismo nero e il lesbianismo parte integrante del movimento femminile dato che prima di questo gruppo il movimento era guidato principalmente da donne bianche del ceto medio». Il gruppo afferma che: «siamo arrivate al punto in cui è necessario sviluppare una maggiore comprensione delle relazioni fra classi che comprenda il ruolo specifico delle donne nere, che sono generalmente ai margini della forza-lavoro, in un momento storico in cui alcune di noi sono viste come pegni doppiamente desiderabili all’interno di mansioni da colletti bianchi. Dobbiamo articolare la posizione di classe di persone che non possono essere considerate meri lavoratori senza razza e senza sesso, ma per cui l’oppressione sessuale e razziale gioca un ruolo significativo a livello economico e nelle loro vite lavorative». In altre parole, il termine identity politics era pensato originariamente per ribadire che la classe è una forma di oppressione imprescindibile nell’analisi di tutte le varie forme di oppressione sociale, se non addirittura quella fondamentale.

Il senso contemporaneo del termine identity politics non c’entra nulla con il suo significato originario. La definizione attuale di questo termine è “la tendenza di persone di una certa religione, razza, background sociale, etc. a formare alleanze politiche esclusive, allontanandosi dalla politica di massa dei partiti”. Che le identity politics siano state cooptate e riformulate per assecondare i programmi della sinistra liberal (concentrarsi, più di qualsiasi altra cosa, sull’individuo e allontanarsi dal comune) non dovrebbe affatto sorprenderci. Questa è la definizione stessa di capitalismo.

EM: Permettimi di insistere un po’ sul terrore di classe. Uno dei tratti distintivi del tuo libro è l’interesse verso un sentimento molto specifico legato alla classe, un modo di vedere il mondo particolare e situato in una determinata classe sociale. The melancholia of class parla principalmente dei desideri, delle paure e dei fallimenti di tutte quelle persone che si sono lasciate, in un modo o nell’altro, la propria classe alle spalle. Il tuo libro è pieno di working class heroes e di traditori di classe che sono scappati dall’identità che gli era stata appiccicata addosso quando si sono ritrovati negli ingranaggi del macchinario sociale, dai modi country di Mark Linkous al corpo libidinoso di Paul Weller fino ad arrivare alla stessa Cynthia Cruz. È un libro che parla di addii e fallimenti, un punto di vista insolito per un libro che parla della classe lavoratrice – genere che si appiattisce spesso e volentieri sull’agiografia dei fortunati che ce l’hanno fatta. Perché hai scelto di concentrarti su questa malinconia? Perché ritieni importante analizzare le complessità emotive di chi si lascia alle spalle la propria classe, di chi abolisce in qualche modo la propria identità?

CC: Sono stata totalmente inconsapevole del fatto che provenivo dalla classe lavoratrice per buona parte della mia vita. Per questo, quando me ne sono andata di casa, ad esempio, non pensavo che mi stessi lasciando la mia classe alle spalle. Le parole classe sociale o classe lavoratrice non facevano parte del mio lessico, essendo state espunte dal dibattito statunitense. La cosa più simile a una coscienza di classe che io avessi passava attraverso la musica – ascoltando band che cantavano quanto odiassero l’autorità. E senza un linguaggio o una teoria che si radicasse nell’analisi delle relazioni di classe, mi ero convinta che i miei fallimenti, la mia autocommiserazione e la mia mancanza di autostima fossero parte di chi ero come persona, che vuol dire: erano problemi miei che dovevo affrontare da sola. E questa non è un’esperienza fuori dalla norma: è esattamente il modo in cui ci vogliono far sentire. Il risultato di un capitalismo ben funzionante è una società in cui la borghesia (la classe media/la classe dominante) ha preso il sopravvento, ha il controllo di ogni aspetto della vita sociale, e in cui la classe lavoratrice viene illusa di far parte della stessa classe dei propri oppressori. In più, al posto di sentire una qualche sorta di complicità fra di noi (cosa che accadrebbe, ad esempio, se riconoscessimo di essere membri della classe lavoratrice in una società guidata da una classe dominante), siamo spinti a considerarci avversari nella gara a chi si aggiudicherà un posto nella classe media. Ci si aspetta da noi di calpestarci l’un l’altro nella scalata sociale. Questa è la nostra situazione attuale. Uno degli scopi del mio libro è che chi lo legga possa riscoprire membro della classe lavoratrice e possa, di conseguenza, prendere parte al conflitto di classe.   

Per rispondere alla tua domanda: perché questa malinconia è un sintomo della repressione delle nostre origini, riconoscere la propria appartenenza alla classe lavoratrice e dargli un nome è una forma di emancipazione. Quando riconosciamo la nostra melancolia per quello che è, allora troviamo il nostro posto nel conflitto di classe. Se ci svegliassimo dal nostro sonno, chissà cosa potrebbe accadere.

EM: Una delle cose che mi ha colpito del tuo libro è la tua analisi della moda e della cultura della classe lavoratrice, specialmente quando parli dei mod, del post-punk e del rockabilly. Quando tratti queste sottoculture le presenti sempre come culti della nostalgia, belli e maledetti – apologeti senza mezzi termini del credo no future. Tu stessa affermi che: «La venerazione del progresso non è certamente un fatto nuovo ed è ideologicamente nemica della classe lavoratrice» e che queste culture della classe lavoratrice – i mod, i rockabilly e i punk – si rifiutano di partecipare alla marcia della Storia fissandosi in maniera maniacale sul passato, fermando l’orologio e lasciando entrare un po’ di morte e incertezza. Concludi dicendo che: «insistendo sul passato e trascinandolo fin dentro il presente con artefatti come vestiti o canzoni d’altri tempi, i rockabilly e i mod diventando un atto di resistenza in virtù della loro mera esistenza». Trovo quest’idea estremamente eccitante e interessante, specialmente in un momento in cui la maggior parte della musica fighetta, perfettamente catalogabile dal neologismo di Simon Reynolds conceptronica, è diventata estremamente hi-fi, innamorata del progresso e iper-futuristica nel senso più kitsch del termine. Potresti dirci qualcosa in più su questo anacronismo militante e proletario? E quali artisti contemporanei vedresti come eredi di questa tradizione?

CC: Una cosa che ho preso dai miei genitori è la capacità di tenere insieme la cosiddetta cultura alta e quella bassa, di parlare di questioni filosofiche (la vita, la morte, Dio, la povertà, la classe lavoratrice, il capitalismo etc.) mentre parliamo di gruppi musicali o di quello che passa al telegiornale (mentre siamo seduti in salotto col televisore acceso). È una cosa che accade naturalmente, si sta solo parlando, stiamo vocalizzando l’inconscio. Nei circoli accademici e letterari entrambi i discorsi vengono scoraggiati. O meglio, vengono incoraggiati solo a condizione che si rispettino certi limiti. Parlare della “cultura bassa” va bene finché lo fai ironicamente (ad esempio, l’adorazione che certi nutrono per Dolly Parton) e lo stesso vale per le questioni serie – vanno bene finché sono coperte da strati e strati di contesto (ad esempio, se si deve parlare di qualche teorico). Il modo in cui io e i miei genitori parliamo del mondo non è di certo, in sé, una forma di resistenza, ma insistere su questo modo di vedere il mondo potrebbe esserlo. Alla fine, la resistenza non è sempre una forma inedita di reazione al capitalismo e alla classe media, ma è più simile a un insistere sul non assimilarsi al mondo creato dal capitalismo/classe media. Un’altra cosa, sul progresso e sull’anacronismo: in una cultura capitalista che ha cancellato dai suoi discorsi la classe lavoratrice, uno dei modi migliori per non diventare pazza è ricordarmi concretamente da che condizioni o da dove vengo. Mia madre è cresciuta a Völklingen, in Germania, una città mineraria, e mio padre è cresciuto in una famiglia di mezzadri. Dal momento che la cultura capitalista continua a ripetere che non esistono classi sociali, che non esiste la classe lavoratrice, è facile perdersi cercando di trovare il proprio posto nel mondo, senza tenere a mente che questa società è sempre e solo la società della classe media. Il risultato è ritrovarsi spaccati in due.

È molto più raro che questo accada se mi circondo, in un modo o nell’altro, dei luoghi da cui vengo: la mia famiglia, ad esempio. Come nell’esempio che facevo sopra, nulla di tutto questo è forzato. Vado a trovare i miei genitori perché li amo, ovviamente. È assolutamente naturale che quando lo faccio mi venga ricordato chi sono i miei genitori, chi sono io, i nostri valori, la nostra cultura, la nostra storia e così via. Quando sono circondata dalla mia famiglia entro nel mondo del racconto, nel senso benjaminiano del termine, ascoltando mia madre o mio padre che mi parlano della loro infanzia o delle storie di parenti che non ho mai conosciuto. La parola “progresso” è contenuta nella parola “progressista”, un altro modo per chiamare i liberal. In senso politico, il progresso significa fare piccole alterazioni all’attuale sistema capitalista e non abbatterlo. Il progresso implica un certo agio nello stare nello status quo e una resistenza ad ogni cambiamento reale.  

“Progresso” è un’ideologia che crede che non ci sia nulla di significativo – che significa nulla di “utile” – nel passato. Il progresso vuole cose sempre più luminose, più eleganti – più veloci, più fluide. Un esempio è la continua riduzione del numero dei lavoratori, sostituiti dalle macchine. Nelle farmacie, nei negozi, nei ristoranti o nei nostri telefoni la forza-lavoro umana viene sostituita dai computer. Del progresso, Walter Benjamin scriveva nelle Tesi di filosofia della storia: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

Riguardo alla tua domanda su quali artisti metterei nella categoria “proletario, militante, estetico”: se per contemporaneo intendessi ventesimo-ventunesimo secolo, la mia risposta immediata sarebbe The Fall. E con The Fall, intendo specificamente Mark E. Smith. La musica e la vita di Smith sono state un esempio concreto di questa estetica. Nella sua musica e nella sua vita ha resistito ai bagliori del capitalismo, con le sue forme preconfezionate, ready-made; ha resistito al professionalismo dell’industria musicale e ha insistito, di contro, sul “fallimento” come forma di resistenza. Un esempio era il suo cambiare gli strumenti ai membri della band quando erano diventati troppi bravi, cambiando, simultaneamente, costantemente i membri della band. Queste due mosse mantenevano la musica della band vitale, rendendola immune dal professionalismo.

Se la tua domanda, invece, è se io pensi che ci sia qualcuno che fa musica oggi che descriverei in quei termini, allora la mia risposta è no. Questo potrebbe essere semplicemente dettato dal fatto che le band che riescono ad avere successo nell’industria culturale contemporanea sono sempre di classe media. I musicisti della classe lavoratrice sono troppo presi a lavorare e/o cercare di trovare un posto di lavoro. 

EM: Come ultima cosa, una domanda necessaria e spaventosa. Una dei temi centrali del tuo libro è la necessità di affrontare il desiderio della classe lavoratrice, senza pruderie e senza cercare di abbellire il terrore, specialmente quando si esprime come pulsione di morte senza freni, volontà di distruggere ed essere distrutti. Il lavoro del teorico è andare a cercare le parti del corpo sociale che si contorcono e che soffrono il solletico e divenire uno spettatore attivo di queste zone erogene collettive, anche quando sono vergognose, dolorose o distruttive. Per farlo, tu hai scelto di legare l’ethos del dressed to kill dei mods, altre forme di distruzione culturale e la tua esperienza con l’anoressia. Sembra quasi scontato il fatto che tu desideri dissotterrare le tue pulsioni e il tuo passato e connetterle con manifestazioni più generalizzate di desiderio proletario, dalla presenza elettrica di Paul Weller fino ai modi di Amy Winehouse di essere «libidinale in uno stato di estrema compressione». Tu stessa affermi che: «Il corpo anoressico è spesso immaginato come privo di desiderio, in parte per la mancanza di fianchi o seno, rappresentazioni superficiali del sesso o della sessualità. Eppure, l’atto di rifiutare il desiderio, o anche l’atto di rifiutare il mondo per crearsi uno spazio per i propri desideri inespressi, è un atto libidinale. Il libidinale è una forza energetica. E il corpo anoressico, esso stesso una forma di desiderio compresso, è fatto di questa energia. È libido allo stato puro». La mia domanda è: perché credi che la pulsione di morte sia così essenziale alle lotte di emancipazione? Perché dovremmo affrontare questo desiderio allo stato puro? Non è pericoloso? Te lo chiedo principalmente perché ho trovato il tuo modo di proporre una politica del desiderio che rifiuta apertamente di “essere qualcuno” estremamente commovente e, per quanto possa sembrare banale, vorrei leggere qualcosa in più in merito.

CC: La pulsione di morte è connaturata alla classe lavoratrice. Se la società è dominata dalla classe media – dalle sue regole, dalle sue leggi, dai suoi valori, dalle sue convinzioni (il capitalismo) – e se la classe lavoratrice è stata cancellata da ogni dibattito pubblico, la classe lavoratrice, per quanto continui ad esistere, non può che esistere come una sorta di brusio di fondo, un qualcosa di troppo, un loop che continua a guadagnare energia e velocità man mano che il tempo va avanti; noi siamo pulsione di morte. Io non credo che la pulsione di morte sia essenziale alle lotte per l’emancipazione, ma credo che sia necessario riconoscere questa forza distruttiva per cortocircuitarla, trasformandola in una forza emancipatoria. In più, mentre scrivevo questo libro, era estremamente importante per me affrontare direttamente questa forza distruttiva dal momento che è stata e continua ad essere usata contro di noi dalla classe media, come base dei suoi giudizi morali. Negli Stati Uniti un esempio evidente è l’epidemia di dipendenze da oppioidi che ha saccheggiato e che continua a mettere a ferro e fuoco intere città, famiglie e comunità. Questa crisi non è dissimile a quelle che hanno colpito alcuni centri urbani statunitensi. mietendo vittime soprattutto i quartieri della classe lavoratrice e poveri, popolati principalmente da persone non-bianche. Raramente ci si chiede da dove vengano le droghe, come le persone vengano introdotto all’uso di queste droghe e quali condizioni rendano alcuni segmenti della popolazione più vulnerabili all’uso e al successivo abuso di certe sostanze. Ciò che ci viene propinato, invece, è l’equiparazione di determinate fasce della popolazione e l’abuso di sostanze e l’auto-distruzione, con il risultato di creare la convinzione che certe persone (proletarie e povere) sono in qualche modo naturalmente inclini a certi comportamenti. Con il mio guardare più da vicini tutti i vari, complicati fattori che potrebbero avere un ruolo nello spingere una persona della classe lavoratrice ad usare alcool o droghe (o non mangiare o spendere più di quando possa o altro), voglio smentire alcune narrazioni false e, nel frattempo, rendere il racconto di queste storie più complicato.

In più, senza la pulsione di morte non avremmo i Joy Division, The Jam o The Fall. Non avremmo il punk, non avremmo una lista infinita di artisti straordinari. Sono attratta dal disegno e dalla musica, dai film e dall’arte che vengono dal libidinale, dalle opere che sono vive e attraversate da questo inarrestabile flusso di energia. Questa energia non ha nulla a che fare con il contenuto. Le band a cui viene detto dal proprio manager di “preformare sensualità” o di suonare o cantare canzoni con testi che parlano di sesso o di sessualità sono spesso e volentieri piatte, perfettine e tutte uguale. Noiose. Al contrario, un musicista la cui vita è precaria, che sale sul palco in preda al terrore più nero (di non poter pagare l’affitto, comprarsi cibo o vestiti, aiutare i propri genitori), che prova davvero autocommiserazione e rabbia può incanalare queste forme di oppressioni in qualcosa che nessuno abbia mai visto o sentito prima perché la sua musica proviene da un’esperienza vera, vissuta, qualcosa che sta al di là della coscienza dell’artista stesso. La pulsione di morte vs. il desiderio di diventare ricchi e famosi – qui sta, spesso e volentieri, la differenza fra genio e mediocrità. La pulsione di morte è al di là e per questo spinge il soggetto oltre sé stesso, catapultandolo oltre i limiti della propria comprensione. Questa è la cosa che mi chiama in un lavoro, la sua vitalità.