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Luca Persico e i 99 Posse: da Napoli, Ramm’ Semp’ ‘n Faccia

Dopo un silenzio discografico di ben cinque anni, ai primi di aprile sono tornati i 99 Posse: ne abbiamo approfittato per riflettere insieme al frontman Luca Zulù Persico su trent’anni di musica e movimenti

Luca Persico, in arte ‘O Zulù, è da trent’anni voce, anima e simbolo della 99 Posse. Da quasi dieci anni vive tra Napoli e Avellino, ai piedi di una montagna, con la compagna e un bimbo di otto anni. «Qui c’è aria buona e cibo buono – racconta via zoom, da un angolo della casa circondato da cimeli, cd, libri e vinili – ma mi definisco ancora un animale metropolitano. La città l’ho vissuta, cantata, abusata. Era giunta l’ora di cambiare visuale e iniziare una nuova vita».

In questi giorni, Luca è impegnato nella preparazione di uno spettacolo teatrale, Ridire: parole a fare male, una rilettura teatrale di 30 anni di scrittura, per la regia di Pino Carbone. Da qualche settimana è uscito il nuovo singolo, Comanda la gang, un ritorno alle origini, il primo di una serie di “singoli di resistenza”, che seguiranno un filo rosso, sul mondo e sull’attualità. Tra giugno e luglio, pandemia permettendo, la band inizierà un tour estivo che prevede già otto date, tra cui la rassegna estiva di Villa Ada, a Roma.

Come vi stavate preparando al ritorno?

Il ritorno lo avevamo immaginato sempre con un concerto, un live, non con un disco o un singolo, come si fa di solito. Anche questa volta, dopo una pausa di alcuni anni, in cui ognuno di noi ha lavorato a cose diverse, pensavamo di tornare con una esibizione dal vivo, per prepararci al trentesimo anniversario del gruppo. Ma è arrivata la pandemia e tutto è saltato. Quindi, per la prima volta dopo tanto tempo, abbiamo deciso di ripartire dallo studio, ma non insieme, ognuno nella sua stanza. Ma lì si è accesa la miccia di questo nuovo lavoro, che poi abbiamo portato a termine tutti insieme. Subito è scattata l’alchimia artistica, che mi ha rincuorato.

Foto da Flickr

Io ero il più depresso tra i ragazzi. Il mio progetto parallelo, ‘O Zulù, che si doveva compiere nei primi mesi del 2020, partiva da un’idea che mi frullava in testa da tempo, quella di fare i conti con i paradossi dell’industria discografica. Mi spiego: da circa un centinaio di anni possiamo registrare la musica, rendendo possibile l’ascolto al di là dell’esecuzione immediata e contingente. Ma sappiamo benissimo che la musica nasce e si sviluppa per secoli senza alcun supporto di riproduzione, soltanto grazie alla sua potenza di coinvolgimento, racconto, evocazione che l’ha fatta conoscere al di là delle tecnologie.

Oggi siamo giunti alla posizione esattamente opposta: se vuoi suonare in un club, in un festival, tutti ti chiedono se hai registrato un singolo, un disco, un video, insomma qualcosa antecedente all’esibizione. Invece volevo misurarmi con la natura prioritaria del live, del concerto, dello spettacolo vero e proprio, il progetto ‘O Zulù andava in quella direzione. Una volta registrata l’ultima canzone che chiudeva il progetto di spettacolo e che dava il titolo al lavoro – Ramm’ Semp’ ‘n Faccia, una sorta di Assalti frontali in dialetto napoletano – è arrivata la Covid a bloccare la nostra vita. Quel pezzo era immaginato per ascoltarlo solo dal vivo, nell’istante del concerto. Nessuna registrazione, nessun video. All’inizio di giugno del 2020, prima di partire per il mare con mio figlio, decisi di pubblicare la canzone su youtube, senza ufficio stampa né promozione; così, con molta marezza, giusto per dare un minimo di senso a tutta quella fatica.

Gli altri due della Posse (Massimo Jovine e Marco Messina) hanno affrontato la pandemia con più forza, aderendo a diversi progetti, settandosi meglio in questo mondo collegato a distanza, perennemente online. Io invece, che mi definisco un animale del Novecento, ho avuto molte difficoltà a rapportarmi con l’esterno. Ma la musica ci ha salvato, anche questa volta.

Ripercorrendo la vostra esperienza musicale, dal 1991 a oggi, si ha la sensazione di leggere i capitoli di una storia corale, collettiva, che parte dalla nascita dei centri sociali fino ai movimenti nati a cavallo della fase espansiva della globalizzazione.

A noi stava stretto tutto quello che avevamo ereditato dalla generazione precedente. Io sono del 1970, ricordo la mia infanzia immersa nell’idea di un grande cambiamento alle porte. Un aneddoto impresso nella mia memoria: il mio compagno di classe, alle scuole elementari, che un giorno in un grande magazzino prova a rubare un atlante geografico. Il padre, operaio comunista, amico di famiglia, che lo scopre e lo redarguisce dicendogli: «Non rubare quello che presto sarà di tutti». Dopo questa promessa, invece, gli anni Ottanta. E così il nostro modo di vivere il mondo, la socialità, la famiglia diventò ultraminoritario. Aggiungi che in quegli anni essere meridionale, fuori forma, con pochi soldi in tasca, senza abiti firmati addosso, significava essere tagliati fuori dall’immaginario egemone di quegli anni, la “Milano da bere”, yuppies e dintorni.

Fuori da quel recinto, cercammo di costruire il nostro presente, praticare la libertà in tutte le direzioni. Prima delle occupazioni, questo mondo, fatto di vecchi frikkettoni, nuovi punk, ex militanti, si aggregava in alcuni luoghi: il Riot, una sorta di associazione, il Diamond Dogs, il Caffè della Luna a Chiaia, la vineria Sica al Vomero, frequentata da metallari. La musica, l’abbigliamento, lo stile di vita diventavano i fattori principali di aggregazione, che nel caso di Napoli non definirono perimetri rigidi, ma si contaminarono dando luogo ad esperienze trasversali. Non a caso la nostra musica nacque immediatamente meticcia grazie a queste influenze disparate.

Foto da Flickr

Cosa ha significato la musica per voi?

La musica ha rappresentato il tramite, il mezzo, per esprimere questo punto di vista sul mondo. La musica definì un senso alla vita grama di quei giorni, mi aiutò a capire che non ero io quello sbagliato, fuori posto, ma una società costruita a rovescio. La musica mi fece conquistare una dignità, mi fece sentire meno solo, aprì una prospettiva collettiva. Erano i tempi di Bob Marley, Clash, Ramones, il sano orgoglio proletario del Bruce Springsteen di Born in the Usa.

Questa musica mi spinse alla politica molto di più della tessera di partito di mio padre.

Decidemmo di occupare gli spazi perché stanchi anche solo di pagare i boss dei locali commerciali, inventammo la nostra parola rubacchiando i beat di qualche disco americano, visto che non avevamo né la conoscenza né le risorse per mettere su un home studio. Il paradosso, ma mica tanto, è che le origini della 99 Posse non sono nella cultura hip hop: io venivo dall’heavy metal, Massimo dal punk e Marco, post frikkettone, dalla psichedelia ed elettronica, tipo Popul Vuh e Einsturzende Neubauten.

Come nasce lo stile 99 Posse da questi ingredienti così diversi?

Il miracolo è tutto merito del ragamuffin. L’esplosione dell’hip hop stava contaminando tutti gli ambiti musicali, l’incontro con il rock produceva mescolamenti e ibridazioni, nasceva la scena crossover: Red Hot Chili Peppers, Rage Against the Machine, Faith No More. La cultura nera, afroamericana, si incontrava furiosamente con chi ricercava nuove forme espressive, nuovi spazi, nuove identità. Noi scegliemmo il ragamuffin perché lo sentivamo più vicino rispetto a un certo immaginario hip hop, fatto di ostentazione di merce e sessismo, nonostante gli esempi potenti di Public Enemy o Run DMC. A dir la verità, approfondendo le conoscenze, scoprimmo presto che anche il ragamuffin conteneva filoni insostenibili di sessismo e violenza.

Ma la vera scoperta, l’atto fondante della mia biografia musicale, fu lo storico concerto di Onda Rossa Posse a Piazza del Popolo, a Roma, quando Militant A e compagni conquistarono il palco con Batti il tuo tempo, cambiando la storia della musica in questo paese. Ecco, io sto ancora sotto quel palco, con la bocca aperta a domandarmi tante cose.

Tornato a Napoli, andai dal mio negoziante di fiducia, che ci conosceva meglio dei nostri genitori, chiedendo qualcosa che aveva a che fare con il rap e l’hip hop. E lui mi diede un disco di Macka B, mica i Public Enemy. Iniziai a capire e apprezzare la peculiarità di questi artisti nel non prendersi troppo sul serio, che usavano l’ironia come strumento di racconto e di lotta. Un’attitudine che si sposava bene con lo spirito mediterraneo, ma anche con la mia formazione personale, tirata su a colpi di Skiantos. Decidemmo allora di aggiungere un punto sulla mappa musicale e politica della penisola: dopo Roma con Onda rossa Posse, Bologna con Isola Posse e la Puglia con Sud Sound System, nasceva a Napoli la 99 Posse, figlia dell’occupazione di Officina 99.

Da noi non esisteva alcuna forma di autoproduzione; un giorno, mentre io e Giampiero stavamo provando per la prima volta Rafaniello nella cucina del centro sociale, entrò all’improvviso un compagno di Officina, nostra guida politica e spirituale, e ci disse: «Ma che avita fa cu chesta musica? Leggitev’ o’ Capitale!». Chiuse la porta e se ne andò pieno di sdegno. Rafaniello fu il nostro primo pezzo, che definire “cover” è dargli dignità. Invece era proprio una copia di un pezzo di Macka B, Coconut.

In questa canzone vengono presi in giro i giamaicani più facoltosi, che vanno a studiare negli Usa e quando tornano hanno la puzza sotto il naso. Fuori restano neri, ma dentro sono diventati bianchi, come gli occidentali a cui vogliono tanto assomigliare.

Quelli erano gli anni in cui stava nascendo un partito che voleva rifondare il comunismo, pieno di gente che rappresentava il peggio dell’esperienza reale comunista e che, nel passato, aveva azzannato i movimenti e la sinistra extraparlamentare. Ci accorgemmo fin da subito che dove non arrivavano i volantini, i comunicati, le assemblee e i cortei, arrivava la musica e il ragamuffin, così reinventato da un gruppo di ragazzi napoletani. Li dentro e nelle future canzoni non c’era un’idea musicale precisa e ortodossa, ma innanzitutto un’urgenza comunicativa di un mondo che ci stava scoppiando in mano.

A metà anni Novanta, conquistate un riconoscimento pubblico inaspettato: Curre curre guagliò, Guai a chi ci tocca (con i Bisca), Cerco tiempo con l’esordio di Meg. E si forma una scena partenopea con Almamegretta, Bisca e 24 grana.

Ogni volta che abbiamo raggiunto uno stile, abbiamo provato a superarlo, virando per la contaminazione, la ricerca. Non nascendo da una ispirazione musicale coerente, non dovevamo perfezionarci per raggiungere una meta stabilita. Eravamo mossi dalla curiosità, dalla voglia di darle dignità politica, ma anche dalla necessità di dribblare e rompere gli schemi. Un’attitudine coltivata nel tempo, che oggi mi porterebbe a definire il sottoscritto semplicemente come un “vecchio punk”.

La voglia di confronto, oltre i perimetri del gruppo, nasce già nel primo disco: Lele Prox, Daniele Sepe, un giovanissimo Speaker Cenzou, sono i nomi di amici e compagni che collaborarono alle rime e alle musiche. Una sorta di comunità artistica e non solo che viveva durante la settimana nei centri sociali e nei locali, in cui si passava da un palco all’altro, da un microfono all’altro, con grande affetto e complicità. Era una continua jam session, free style, mescolamento, che poi si replicava anche nei grandi appuntamenti nazionali delle Posse. Tant’è che tra una serata e l’altra, ci dimenticammo di promuovere Curre curre guagliò e finimmo direttamente a organizzare una serie di concerti con Almamegretta e Bisca, che poi divenne L’incredibile opposizione tour. Un tour svolto soltanto nei centri sociali.

Il paradosso è che nel momento in cui decidete di fare un tour dedicato agli spazi occupati arriva la “popolarità” ben oltre la nicchia antagonistica.

Furono i Bisca, che avevano una decina di anni di esperienza in più della nostra, a capire che c’era una potenzialità enorme davanti a noi. Furono loro a convincerci a organizzarci con una nostra amplificazione e un nostro service, per migliorare la resa dello spettacolo. Facevamo il tour con una carovana di tre mezzi: gli artisti, l’impianto e uno studio mobile di registrazione, uno di quelli che oggi si usano per le dirette dei grandi concerti, tipo Primo Maggio. Il salto definitivo ci fu con l’arrivo nel gruppo di Meg (Maria Di Donna, ndr) e con l’esordio di Mtv Italia, che decise di puntare su una nuova generazione di band italiane, forse perché in competizione con l’altro canale musicale, TMC2, che puntava invece sui cantautori classici.

Iniziammo a frequentare gli studi televisivi più delle case delle nostre famiglie; nacquero inevitabilmente le prime incomprensioni del mondo militante a cui appartenevamo. Niente di nuovo, lo so, ma noi volevamo contaminare con le nostre parole e la nostra musica un mondo più largo, per far conoscere quei contenuti radicali. Avevamo fatto tutto quel bordello per sfondare una porta, una volta sfondata non potevamo tornare indietro.

Foto di Andrea Scuteri da Flickr

Come nasce l’incontro con Meg?

Stavamo registrando con i Bisca un pezzo, No way, per una compilation a sostegno di Mumia Abu Jamal, progetto curato da alcune compagne e compagni di Roma. L’università era occupata e anche noi davamo una mano, per quanto possibile in un periodo di tour infiniti. Durante l’occupazione conoscemmo Meg, studentessa di Lettere. Il giorno della registrazione della mia parte, mi trovavo in facoltà per una importante riunione e mi ero completamente dimenticato dell’appuntamento in studio. Riuscirono a rintracciarmi e, senza mezzi per muovermi, chiesi a Meg un passaggio con il motorino. Eravamo molto legati a lei, ma non ci aveva mai parlato della sua passione per la musica, del fatto che suonava in una band, forse perché ci vedeva come dei “professionisti” affermati.

Giunti in studio io entrai in sala per registrare il pezzo, iniziai a cantare, ma non riuscivamo a chiudere la traccia. Dall’altra parte del vetro, Meg stava canticchiando qualcosa, in presenza di Sergio Maglietta dei Bisca che, a un certo punto, le chiese di andare dentro e cantare la stessa cosa al microfono. Appena sentii la frequenza della mia voce intrecciarsi con la sua, provai un brivido. Fu l’inizio di un’altra storia.

A un certo punto vivevamo in una sorta di “comune” io, Meg e Marco Messina, un porto di mare per amici e artisti. Lì iniziammo a buttare giù le parti di Cerco Tiempo, l’album in cui il contributo di Meg si esprimerà anche nella scrittura. Marco aveva comprato il primo campionatore, giocava con i beat, ricordo che un paio di canzoni furono immaginate insieme a Paolo Polcari degli Almamegretta. Erano anni di mescolamento e sperimentazione. Di Meg mi incuriosiva anche il suo sguardo sulla realtà e sulla militanza. Non veniva come me dalle esperienze delle sedi, prima Democrazia proletaria e poi l’autonomia napoletana, in cui si spaccava il capello a discutere di “sussunzione formale e reale”, ma dall’università, dal fuoco delle mobilitazioni studentesche che stavano politicizzando una intera generazione.

Tra il 1998 e il 2000, c’è il boom: Corto Circuito vende 160 mila copie, La vida che vendrà si trasforma nella colonna sonora dei movimenti alterglobalisti, con la gemma del riff di chitarra di Mick Jones dei Foreigner nel pezzo L’anguilla.

Non me li dimenticherò mai, i Foreigner: in pratica si sono presi tutta la Siae del pezzo per quel riff! A parte gli scherzi, sono gli anni di massima espansione del gruppo, di massima visibilità artistica e politica. A settembre del 2000 la 99 Posse è sul treno “spacca frontiere” verso Praga, per contestare il vertice del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale. Avevamo costruito un equilibrio spericolato tra produzione musicale e spazio politico. In quei due anni, tra 1998 e 2000, la prima linea politica divenne un campo di battaglia, con morti e feriti. Dal punto di vista artistico le porte ormai erano tutte sfondate, era la visibilità che ci chiamava al telefono per offrirci spazi, telecamere e palchi. Io iniziavo ad avere la nausea.

Le giornate di Genova 2001 e soprattutto il dopo Genova – con le offerte di tribuna per il reduce o il pentito – mi hanno dato il colpo di grazia. Decisi di andare via, dissi ai ragazzi che potevano fare ciò che volevano della 99 Posse. Io andai in Palestina, poi in Iraq, una settimana prima della seconda invasione statunitense, dove feci anche un documentario. Infine in Kurdistan, partecipando a due Newroz. In quel periodo nacque il progetto Al Mukawama. A distanza di tanti anni, penso ancora che non sono andato a fare “missioni solidali”, ma a chiedere aiuto a chi viveva la vera prima linea della lotta, tra bombe fame e torture, con il sorriso, la rabbia, la voglia di vivere nonostante tutto. Volevo conoscere e imparare da loro.

Se non sbaglio i primi anni Duemila coincidono anche con un periodo complicato per la tua vita personale.

Le risposte che cercavo nella prima linea, non le ho trovate tutte. E così iniziai a provare a spegnere dubbi, difficoltà, ansie, angosce attraverso l’uso smodato di sostanze. Il modo più semplice e banale per spegnere il caos che avevo nella testa, ma anche per dare gli ultimi colpi a Zulù. Dopo Genova avevo iniziato a odiare Zulù. Fino a Genova mi ero divertito a giocare con il mio personaggio, a fare ironia e autoironia. Dopo Genova non ne potevo più e ho fatto di tutto per fargli fare brutta figura, per umiliarlo, per ucciderlo. Anche se il prezzo era quello di uccidere una parte di me stesso.

Ne sono uscito quando ho capito che Zulù e Luca, che il punk e il comunista, il no future e il venceremos, erano entrambi pezzi reali e necessari della mia identità, facevano parte di me, avevano pari dignità e non c’era bisogno di nessuna autodistruzione. Capito questo ho superato tutti i problemi di dipendenza. Io non c’ero cascato nel “tunnel della droga”, io mi ci ero buttato consapevolmente con la massima lucidità.

Una volta uscito sono riuscito anche a dare un ordine diverso alle priorità, scacciando via tante negatività. La droga, da una parte, costruisce circuiti automatici legati banalmente alla produzione o meno di endorfine, veicolando comportamenti in direzioni così distruttive che mai avresti pensato di praticare. Dall’altra, potenzia e amplifica capacità di visione, di analisi e di percezione che, nel caso uno riesca a uscirne vivo – si tratta banalmente di fortuna – diventano esperienze decisive per la crescita e la consapevolezza personale.

Racconto una storiella divertente: in vita mia ho provato soltanto una volta l’MDMA, la presi due ore prima di un concerto a Napoli, durante il tour di Corto circuito. Ovviamente l’effetto si fece sentire proprio a inizio concerto, così che passai tutto lo spettacolo dietro l’asta del microfono, convinto che fossi nascosto, guardando il mio bassista mentre le sue note mi si conficcavano nello stomaco, mandandogli bacetti e gesti d’amore. Immaginatevi un cantante di 130 chili, “nascosto” dietro l’asta del microfono che manda baci mentre canta Rigurgito antifascista.

Foto di Gennaro Navarra

Veniamo ad oggi, all’uscita di Comanda la gang, in cui si rimette al centro il meglio della storia sonora e lirica della 99 Posse. L’obiettivo, anche questa volta, è chiaro e diretto. In una società di algoritmi e capitale volatile, voi scegliete di mettere in mostra facce, nomi e cognomi del potere.

Ci siamo divertiti un sacco a girare il video dentro una scuola. Volevamo sottolineare due ambiti sociali colpiti al cuore durante la pandemia: la scuola e la cultura. E, trasversali a questi, le generazioni più giovani, che stanno pagando un prezzo enorme nella crisi.

Il pezzo nasce dentro una cornice di riferimento più grande, legata al periodo che abbiamo vissuto nell’ultimo anno, che tiene insieme anche le altre canzoni del prossimo disco. L’improvvisa crisi di governo ci ha riportato direttamente alle origini, quando guardavamo stupefatti le capriole di una rappresentanza politica senza dignità. Con la stessa ilarità e distanza abbiamo descritto questa italietta, usando per gioco la stessa aria della famosissima canzone di Dario Baldan Bembo, Amico è.

Mentre ci divertivamo a costruire la canzone, ci siamo accorti di iniziare a fare sul serio e abbiamo definito il progetto musicale; esattamente come loro, i partiti in questione, che dopo un po’ di moine sono riusciti a costruire un governo tanto prevedibile quanto incredibile. Tutti dentro.

Ma attenzione: non vorrei essere frainteso, né essere confuso con il fiume di populismo che viviamo. I nostri nemici principali non sono i politici, ma il modello di sviluppo e i suoi soldati della “società incivile”. È sempre più difficile fare il “nostro lavoro”, inculcare un dubbio, aprire un varco, coltivare diversità, ampliare gli spazi critici.

Dalla nascita del modello televisivo berlusconiano sono passati 40 anni, il tentativo di abbassare il livello di intelligenza collettiva ha dato i suoi frutti. È pur vero che esiste un altro paese, fatto di solidarietà e mutualismo, che è emerso con forza durante questa pandemia. In altri tempi, si sarebbe detto che saremmo stati sul ciglio di una guerra civile, tra mondi divisi e contrapposti. Mi ostino a pensare che “noi” siamo di più di quegli altri.

Che rapporto hai con la nuova generazione musicale che va sotto il titolo generico e onnicomprensivo di “trap”? Vedi qualche affinità con le vecchie onde che a partire dal punk hanno rivoluzionato l’industria musicale?

Ricordo perfettamente gli anni in cui alcuni stili musicali creavano egemonia di stile di cultura. Penso all’epoca del primo rap o del ragamuffin, dove si moltiplicavano negozietti che vendevano materiali, indumenti, merchandising dedicato. E assistevi, ogni giorno, alle più improbabili sfilate di moda di gente che non ci aveva avuto nulla a che fare fino al giorno prima. Ma che grazie a quel gancio entrava in un circuito nuovo, di nuovi ascolti, frequentazioni, esperienze. Trovavi di tutto: gli opportunisti, i falsi, i politici, gli appassionati. Un mondo, che aveva un obiettivo comune: esprimere un nuovo punto di vista, superare il vecchio, anche con irriverenza, con mancanza di rispetto, cose tipiche delle nuove generazioni. E questa attitudine io la vedo sia nei personaggi più potabili, alla Ghali o Madame per capirci, ma anche quelli meno potabili. Ci dicono chiaramente: «Sei vecchio, te ne devi andare affanculo, mi prendevate per il culo, adesso tengo i miliardi».

Ovviamente io contesto l’ostentazione di denaro, non sopporto il linguaggio machista e sessista. Ma meravigliarsi che un pezzo di mondo periferico lo faccia è da ipocriti, viste le condizioni di vita e l’immaginario costruito su di loro. E comunque non bisogna puntare il dito, indiscriminatamente, contro fenomeni che sono innanzitutto generazionali. Poi, ovviamente, io spero e credo che ci siano ambiti ed esperienze più affini alla “nostra” visione del mondo, ma devono avere modo, tempo e spazio per crescere e affermarsi con il loro linguaggio e i loro strumenti. Certo, manca il “noi”, l’ambito collettivo a tante storie narrate sotto il titolo di “trap”. Ma è una mancanza vissuta con inquietudine, almeno in alcuni di questi autori.

Questa la sento anche come una nostra responsabilità, di non esser riusciti a trasmettere con più forza questo orizzonte, questa postura collettiva davanti al mondo. Noi abbiamo occupato i nostri spazi sociali, io l’ho fatto con queste mani insieme a tante altre mani. Ma la pratica dell’occupazione non ce la siamo inventata, l’abbiamo mutuata dalle generazioni precedenti. Non ci possiamo sentire assolti se viene meno una trasmissione di memoria e di lotte.

Per chiudere: con mio figlio di 8 anni ascolto Sfera e Capo Plaza. Invece, per quanto mi riguarda, in questi tempi sono in fissa per un gruppo bosniaco, Dubioza kolektiv, che fanno un crossover da paura, tra punk, ska, ragmuffin, dubstep. Potentissimi. Parola di vecchio punk.

Foto di copertina da Flickr