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Lo scandalo dell’uguaglianza

Nell’epoca dell’alternanza scuola-lavoro e della protesta studentesca contro di essa è utile ripartire da un libro come quello di Christian Raimo, Tutti i banchi sono uguali, per difendere la relativa autonomia dei processi educativi da un mercato del lavoro precario e dequalificato.

La differenza dei talenti naturali nei diversi uomini è in realtà assai minore di quanto noi crediamo; e l’ingegno assai diverso che sembra distinguere gli uomini di diverse professioni, quando sono pervenuti a maturità, è, in molti casi, non tanto la causa quanto l’effetto della divisione del lavoro. La differenza fra i caratteri più diversi, per esempio tra un filosofo e un facchino comune, sembra derivare non tanto dalla natura quanto dall’abitudine, dal costume e dall’educazione. [1]

(Adam Smith)

Il 15 settembre 2017 sul sito Linkiesta è apparso un articolo, firmato da Davide Brullo, intitolato “Tutti i banchi sono uguali” di Raimo è retorica anticlassista. La scuola ha bisogno di poeti come Flavio Nicolini. Si tratta di una stroncatura –attraverso le affilate armi retoriche del peggior senso comune contemporaneo – di Tutti i banchi sono uguali, il libro sulla scuola pubblicato recentemente da Christian Raimo.

Dell’articolo di Brullo colpisce non tanto la volgarità sociologica e pedagogica delle sue affermazioni – che arrivano a riabilitare l’immagine reazionaria e idiota dell’insegnante poeta e sognatore come risposta alla crisi attuale della scuola di massa – quanto piuttosto il livore anti-intellettuale e il risentimento smisurato nei confronti di Raimo. Viene dunque da chiedersi cosa abbia scritto Raimo di tanto scandaloso da provocare una tale reazione isterica.

In realtà, l’elemento traumatico del libro consiste esattamente nel non fare nulla di scandaloso, provocatorio o rivoluzionario. Raimo – a differenza della maggior parte dei saggi sull’argomento pubblicati negli ultimi anni – non denuncia una scuola completamente da abbattere e ricostruire, né propone una rivoluzione totale dei metodi di insegnamento e dell’organizzazione scolastica.

Al contrario, Tutti i banchi sono uguali ripone al centro della riflessione sulla scuola italiana le questioni centrali attorno alle quali si è interrogato il dibattito scientifico, politico e culturale sull’istruzione del secolo scorso, a partire dalla dialettica tra la riproduzione delle diseguaglianze, da un lato, e la loro compensazione dall’altro, che attraversa tutta la storia della scolarizzazione di massa. Raimo si contrappone dunque al processo decennale di delegittimazione retorica e materiale dei principi egalitari e civili che hanno fatto della scuola di massa, nella seconda metà del novecento, un fattore di parziale progresso sociale.

Senza per questo cadere nell’illusione di attribuire al sistema scolastico un ruolo centrale nella trasformazione sociale, illusione che spesso accumuna il pensiero pedagogico neoliberista – il quale, coerentemente con le politiche del lavoro supply-side, intende rispondere alle tensioni e alle contraddizioni del mercato del lavoro intervenendo esclusivamente sulla composizione e formazione dell’offerta (ossia gli studenti, futuri lavoratori) anziché sulla domanda – e una parte di quello progressista e libertario, pieno di ingenuità e volontarismo.

Raimo sa benissimo che non si può assegnare all’educazione il compito di negare ciò che può essere negato solamente con la modificazione storica dei rapporti sociali di produzione. E che i risultati scolastici e professionali delle persone sono determinati innanzitutto da fattori extrascolastici, dalle politiche sociali, del lavoro e del welfare (in altri termini, dallo stato dei rapporti di forza tra le classi; affermazione che potrebbe scatenare una seconda crisi isterica del sopracitato Brullo).

Grazie agli studi comparati della sociologia dell’istruzione sappiamo da tempo che la medesima organizzazione scolastica, se osservata in contesti nazionali vicini ma con sistemi di welfare differenti, produce risultati completamente eterogenei in termini di inclusione, uguaglianza, pari opportunità e mobilità sociale. Una osservazione che relativizza non poco il ruolo dell’istruzione e della pedagogia nel disciplinare questi processi.

Ma Raimo è nondimeno consapevole che l’istruzione rappresenta un campo di battaglia, che esiste un margine di azione, che la relazione tra scuola e società è tutt’altro che un semplice riflesso, bensì una tensione contraddittoria entro la quale si aprono spazi di conflitto e di intervento.

Il rapporto tra scuola e mercato del lavoro è l’esempio principe. Contrariamente a quanto si legge nella quasi totalità dei documenti prodotti recentemente da ministeri e organizzazioni economiche internazionali (Banca Mondiale, WTO e OCSE), l’elevazione dei livelli generali di istruzione – generata dalla scolarizzazione di massa – opera come fattore di disequilibrio del mercato del lavoro. Ed è in questo disequilibrio, in questa non corrispondenza tra domanda e offerta (il cosiddetto educational mismatch) che va ricercato l’elemento progressivo dell’istruzione e non, come oggi sembrano sostenere tutti, nel suo contrario. «Il meccanismo dell’istruzione, lungi dall’essere funzionale al sistema produttivo, si rivelava come variabile capricciosamente indipendente» scriveva lo storico Giuseppe Ricuperati [2] nel suo saggio sulle politiche scolastiche italiane successive al boom economico.

Vi è una spinta dal basso animata dal desiderio di mobilità sociale delle classi subalterne. Non solo perché vi è l’ambizione di conquistare posizioni economiche superiori, ma anche perché quanto maggiore è il grado di istruzione, tanto maggiore è il bisogno di controllo, autonomia e creatività da parte del lavoratore.

Queste spinte entrano in aperto conflitto con il mercato del lavoro attuale, i cui trend occupazionali evidenziano una domanda di lavoro sempre più generico, dequalificato e sottopagato.

Raimo mostra infatti come la chiacchiera pedagogica sul saper-fare, sulle competenze e sulla necessità di una congruenza tra ciò che la scuola produce – in termini di qualificazione e addestramento professionale della futura forza-lavoro –  e le richieste del mercato sia poco più che una copertura ideologica, nemmeno troppo raffinata. La realtà materiale dell’alternanza scuola-lavoro attuata in questi anni mostra la vera natura di questa visione: fare della scuola una agenzia di socializzazione al lavoro precario e dequalificato.

In realtà gli studenti medi che – durante l’alternanza – sperimentano le mansioni più ripetitive, generiche e dequalificate nel settore del commercio e dei servizi (Raimo cita gli esempi eloquenti di McDonalds e Zara, tra principali fruitori della forza lavoro gratuita costituita dai giovani in alternanza) stanno veramente rispondendo alle esigenze del mercato del lavoro, preso così com’è, come fosse un ente naturale rispetto al quale non esiste altra modalità di relazione se non l’adattamento. Le soft skills che maturano altro non sono che la duttilità, la subalternità e l’accettazione dei rapporti di potere interni ai luoghi di lavoro. L’organizzazione del lavoro rimane di fatto una struttura imperativa, che implica necessariamente una tensione tra ruoli di comando e ruoli di subordinazione. Ciò che apprendono gli studenti in alternanza – terrorizzati in partenza dallo spettro della futura disoccupazione – è la sua immutabilità, l’accettazione passiva dello stato di cose presenti.

Il vero scandalo della riflessione di Raimo è pensare che nella scuola vada ricercato l’esatto contrario, operando all’interno di quella relativa autonomia che caratterizza i processi educativi rispetto all’eteronomia che connota i processi produttivi.

 

[1]  A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Utet, Torino, 1975, p. 94.

[2] G. Ricuperati, «La politica scolastica», in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, II.2. La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, Torino, Einaudi, 1995, p. 750.

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