DIRITTI

Lesvos, approdo e nostalgia

Nel 2015 oltre trecentomila persone sono sbarcate sull’isola di Lesvos, in Grecia, alla ricerca di un futuro migliore in Europa.  L’UNHCR e le ONG sono presenti in massa, ma la vera forza dell’accoglienza sono le centinaia di volontari presenti sull’isola

È notte fonda, il mare è stranamente calmo e la via lattea è chiara sopra le nostre teste. Dal balcone che si affaccia sul porticciolo si sentono chiare e forti le voci. “Estenna ya baba”: una ragazzina sta chiedendo al papà di fermarsi per riprendere fiato, dall’accento è sicuramente siriana.

Sono gli ultimi arrivati qui a Skala Skamnias, piccolo villaggio di pescatori nell’estremo nord dell’isola di Lesbo. Davanti il molo, in lontananza, le luci della costa turca. E’ un tratto di mare relativamente breve quello che separa la Grecia e la Turchia in questo angolo del Mar Egeo. E’ proprio in quelle insenature lì che questo fiume umano partito da tante diverse città e villaggi sparsi tra Medio Oriente e Asia Centrale sfocia finalmente nel Mediterraneo.

Giochi geopolitici e schemi economici vorrebbero tenere questi due mondi lontani almeno umanamente, eppure qui “Oriente” ed “Occidente” riescono a spogliarsi di ogni barriera e pregiudizio lasciandosi andare in un abbraccio inarrestabile.

Dall’inizio dell’estate l’isola di Lesbo è tra i principali luoghi di approdo dell’ondata di rifugiati che ha colpito le coste greche. Nel 2015, infatti, la Grecia ha accolto più di 600 mila rifugiati, di cui circa 350 mila sono sbarcati a Lesbo[1]. Afghani, curdi, iracheni e tanti siriani. C’è anche chi arriva dal Pakistan, dal Bangladesh, persino dalla Somalia. Alle spalle hanno settimane di viaggio, a volte interi lunghi mesi.

I più fortunati riescono a salire sui gommoni che partono dalle coste turche in pochi giorni, si nascondono nei boschi che coprono i pendii delle insenature vicino Berham e dopo qualche notte accampati tra i cespugli trovano il modo di imbarcarsi per le isole greche, i più sfortunati vengono fermati dalla gendarmeria turca che una volta bloccati li riporta indietro verso Istanbul. E il viaggio ricomincia da capo.

Sono uomini e donne in cammino. Lasciano tutto, superano frontiere, attraversano il mare, e continuano il cammino. Sono stanchi, tanto stanchi, ma non si fermano mai. Seguono la linea dell’orizzonte che li porta verso l’Europa del Nord e le mille difficoltà del viaggio non riescono a smorzare la tenacia e la volontà di questa gente.

Tanti racconti, fiumi di parole narrano la strana avventura che la vita sta facendo vivere a queste donne e questi uomini. Eppure la cosa più difficile da raccontare non è la guerra, non sono le bombe, non è il sangue. E’ la nostalgia. Le lacrime scendono quando si parla della moglie rimasta ad Aleppo con i bambini, gli occhi diventano lucidi quando guardiamo le foto del giardino di gelsomini nella casa di Damasco prima che le bombe dal cielo sostituissero la pioggia, la voce è rotta dal pianto quando arriva la chiamata della mamma settantenne rimasta a Kobane, troppo anziana per affrontare il viaggio. Le lacrime scendono quando si ricorda l’ultimo abbraccio dato ad un fratello che ha deciso di rimanere ad Idlib, per continuare a combattere.

Gli sbarchi sull’isola di Lesbo sono continui, inarrestabili. I giorni di pioggia continua e mare grosso fanno meno paura delle bombe e della povertà che questa gente si lascia dietro.

Scene da esodo lungo le strade che dalle coste del nord portano ai campi. Ogni giorno questa gente percorre più di sessanta kilometri, lungo i sali e scendi delle tortuose strade di Lesbo. Bambini piccoli, donne in attesa, anziani sorretti da un bastone, c’è addirittura chi è salito sul gommone su una sedia a rotelle per continuare il viaggio spinto dalle braccia di qualche parente o caro amico. In cammino, verso i campi, dove la fila per registrarsi è lunghissima, può durare anche più di un giorno. La gente mangia, dorme, prega restando in coda, per non perdere il posto.

Tra Ottobre e Novembre si è registrato un record di sbarchi, con picchi tra i cinque e i diecimila arrivi al giorno. Essendo l’isola di Lesbo, una zona di transizione e non la meta finale, sono stati allestiti degli hotspot di prima accoglienza in cui i futuri richiedenti asilo possono registrarsi e ricevere un permesso di trenta giorni per spostarsi legalmente in Grecia per poi raggiungere il paese europeo da loro scelto per presentare domanda di asilo.

I campi più grandi, Moria e Kara Tepe, situati nel sud dell’isola vicino il capoluogo Mytilini, rischiano il collasso ogni giorno. Vere e proprie scene di rivolta si sono viste in questi ultimi giorni, soprattutto a Moria, dove a rendere ancora più esplosiva la situazione è stato il maltempo. Migliaia di persone sono rimaste per lunghissime ore sotto la pioggia battente in attesa della registrazione, l’afflusso senza sosta dei nuovi arrivati ha generato forte tensione e la polizia greca in alcuni momenti ha deciso di utilizzare idranti e gas lacrimogeni per calmare la folla.

L’UNHCR e le grandi Ong stanno cercando con molte difficoltà di gestire l’emergenza in corso. L’impotenza delle autorità greche, già messe a dura prova dalla crisi economica, nel fare fronte a questa crisi umanitaria è tangibile, la quantità di strutture, mezzi e personale è estremamente limitata, i continui cambi di procedura rendono il sistema di registrazione sempre più complicato. C’è tanto lavoro da fare e gli operatori umanitari lavorano senza sosta per garantire un’adeguata accoglienza a chi cerca rifugio.

La grande forza di Lesbo, però, porta i nomi delle centinaia di volontari che ogni giorno continuano ad arrivare da tutto il mondo. Giovani e meno giovani che in piena conoscenza della situazione in cui riversa Lesbo, decidono di salire sul primo aereo e raggiungere l’isola, con l’unico obiettivo comune: accogliere.

All’inizio sono stati i turisti che nel luglio scorso, con grande sorpresa, si sono trovati a spingere le barche a riva. Con l’esplosione degli sbarchi senza precedenti iniziata a settembre, molti si sono organizzati, auto finanziati, ed hanno deciso di portare un solido aiuto. Sono così nati spontaneamente diversi enti di coordinamento di volontari che attualmente lavorano in collaborazione con le grandi organizzazioni umanitarie, svolgendo un lavoro fondamentale, senza il quale la situazione a Lesbo precipiterebbe. C’è chi stava viaggiando zaino in spalle nei Balcani ed ha deviato per la Grecia, medici e cuochi arrivati dall’Estremo Oriente, studentesse di arabo arrivate direttamente dalle università del Medio Oriente e improvvisate traduttrici, figli di rifugiati che si ritrovano dopo anni a fare la stessa fila di registrazione che avevano fatto venti anni prima, quando erano ancora bambini, stavolta aiutando i nuovi arrivati. C’è addirittura chi appena sbarcato decide di non proseguire il viaggio verso la Germania e rimanere nel porto di Skala ad aiutare chi arriverà dopo di lui.

E’ così che Lesbo si mostra in tutta la sua essenza, la condivisione. Il sorriso e le lacrime, di gioia e dolore, sono i punti fissi per chi ha la fortuna di assistere e partecipare a ciò che sta succedendo di questi tempi sull’isoletta del Mar Egeo.

Le storie diventano più difficili da raccontare ogni giorno, il mare regala nuova vita a chi approda su questi moli di salvezza, ma continua a strapparne tanta altra. E’ un mare bellissimo ma è anche un mare assassino, come dice una canzone di qualche tempo fa. E a Lesbo si continua a morire.

I giovani di Lesbo sono molto turbati da quello che sta succedendo sulle loro coste in questi mesi, non si aspettavano di ritrovarsi a vivere su un’isola che oggi mostra una nuova fisionomia. Accanto alle italiane e le tedesche in bikini, le siriane con i loro bimbi in braccio e un salvagente, fuggono da città i cui nomi ancora rievocano un passato leggendario che ormai bombe e colpi di mortaio hanno distrutto.

La comunità internazionale non riesce a prendere decisioni coraggiose, ci sono sempre troppi ‘se’ e troppi ‘ma’.

Si continua a morire. A volte la morte ce l’hai dentro casa, ti ammazza chi dovrebbe governare e garantire sicurezza, tante altre volte la morte la portano proprio quelli che ingannano con le loro lezioni di democrazia, vecchi e meschini escamotage per continuare a giustificare l’antica pratica mai abbandonata dell’invasione e del colonialismo. La gente continua a morire, chi è fortunato può cercare di fuggire.

Il Mediterraneo è l’unica strada percorribile. Le nostre coste l’unico molo che accoglie. Non importa che si chiamino Lesbo, Samos o Lampedusa, quando si tocca terra, ovunque si approdi, l’unica parola che conta è salvezza.

E come testimoni più o meno attivi di tutto questo, una sola domanda rimbomba nella testa. E’ un grido forte : “E allora di chi è la colpa qua? Di chi è la responsabilità?”

 

foto di Marta Malaspina

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[1] Dati UNHCR, 2015