ITALIA

Le scorie dell’ex Ilva? Un patto di famiglia

Comincerà il prossimo 4 dicembre il processo a carico degli eredi di Emilio Riva, l’ex patron dell’Ilva di Taranto, imputati di disastro ambientale per la gestione delle discariche dello stabilimento nei pressi della gravina Leucaspide. Un modus operandi ereditato da quando l’impianto siderurgico era di proprietà dello Stato. Una storia di capitalismo all’italiana, di sversamenti in una area di forte pregio naturalistico che ora rivede la luce grazie al coraggio di chi ha denunciato

«Io non mi sono mai arreso. Ho continuato, come ho potuto e tra mille difficoltà, a svolgere la mia professione»,  dice l’imprenditore agricolo Vincenzo De Filippis, aprendo il cancello della Masseria Leucaspide, struttura che risale al ‘500, circondata da un centinaio di ettari coltivati a uliveti e altre decine seminati a uve pregiate e agrumeti.

Siamo nelle campagne che abbracciano verso il Nord della Puglia, i comuni di Taranto, Statte e Massafra, all’interno di un’area naturalistica pregiata dove comincia la gravina tarantina che termina nei pressi di Matera. Qui, però, lo skyline è in massima parte condizionato dalla presenza minacciosa dello stabilimento ex Ilva, il siderurgico grande due volte e mezza l’estensione della città di Taranto.

Dopo un lungo periodo di decadenza la masseria Leucaspide ha riaperto al pubblico nel 2012. «Abbiamo cominciato a lavorare come sala ricevimenti. In futuro, accanto all’attività agricola vera e propria, puntiamo ad aumentare la capacità ricettiva della struttura», racconta Vincenzo De Filippis, mentre mi accompagna nel giro della masseria che il suo trisavolo ha ereditato dal senatore “illuminato” del regno d’Italia, Giacomo Lacaita, che da queste parti ospitava ambasciatori e ricchi magnati franco-inglesi dell’epoca.

«Ra una storia gloriosa quella di questa zona, fertile da tanti punti di vista. Poi è stato costruito lo stabilimento, che i danni a quest’area li ha fatti fin dalla metà degli anni’70, quando l’Iri cominciò a sversare la cosiddetta “loppa” al confine con la gravina», dice De Filippis, indicando dal terrazzo della masseria le pareti rossastre della gravina e visibili ad occhio nudo, contenenti gli scarti e i depositi sedimentati dell’acciaieria.

 

«Quello è il confine con la proprietà di mio fratello Vito Maria, che ha scelto una strada diversa dalla mia, mentre io ho deciso di continuare la mia attività imprenditoriale, lui ha ingaggiato qualche anno fa una battaglia giudiziaria contro l’ex Ilva, decidendo di fargli causa».

 

È il 30 ottobre del 2018, infatti, quando un decreto di sequestro preventivo firmato dalla giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto, Vilma Gilli, mette sotto chiave parte della zona dove insiste la gravina Leucaspide, un’area pari a circa 540mila ettari dove i vertici dell’azienda avrebbero abusivamente interrato circa 5 milioni di tonnellate di «cumuli di rifiuti pericolosi e non pericolosi di origine industriale». Come si legge nelle oltre cento pagine del decreto di sequestro: «perché, in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, avrebbero occultato il reale stato dei luoghi su tutto l’argine sinistro della Gravina Leucaspide sino al limite del confine con l’azienda agricola di proprietà della famiglia De Filippis Vito Maria».

Secondo i giudici di Taranto le decisioni in materia di scarti dell’acciaieria erano assunte dai membri del “Consiglio di famiglia”, dai componenti del consiglio di amministrazione di Ilva S.p.a e di Riva Fire S.p.a, la cassaforte finanziaria dello stabilimento siderurgico fino al sequestro degli impianti avvenuto il 26 luglio del 2012 ( per cui è ancora in corso davanti alla Corte D’Assise di Taranto il “processo madre” per disastro ambientale).

In realtà, sempre secondo i magistrati tarantini: «esisteva un direttorio occulto che operava secondo le regole stabilite dalla scrittura privata denominata patto di famiglia». Ed è per questo che il prossimo 4 dicembre comincerà a Taranto un nuovo processo per disastro ambientale doloso – per l’avvelenamento della gravina Leucaspide – a carico degli eredi di Emilio Riva, l’ultimo “patron” dell’acciaieria tarantina.

 

Gli imputati, infatti, sono: Fabio Riva, presidente del “Consiglio di famiglia”, Nicola, Claudio, Cesare Federico e Angelo Massimo, uomini che negli anni tra il 1995 e il 2012 hanno ricoperto ruoli apicali sia nel “Consiglio di famiglia” che nel consiglio di amministrazione di Ilva e Riva Fire, quest’ultima la pancia finanziaria del gruppo industriale.

 

Tutti accusati, ora, insieme ad altri dirigenti (come l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, già imputato per disastro ambientale) «della realizzazione di grandi depositi costituiti dai suddetti rifiuti dall’altezza di oltre 30 metri sopra il piano campagna. Tutte opere prive di copertura e rimedi contro lo spandimento di polveri pericolose per la salute». Non solo. Agli industriali viene contestato, in particolare, di avere provocato «un grave disastro ambientale interessante acque superficiali pubbliche, acque di falda pubbliche, terreni demaniali e terreni privati», questi ultimi di proprietà di Vito Maria De Filippis, il primo e l’unico, finora, ad aver denunciato.

Più in generale, l’accusa per gli imprenditori è quella di «aver alterato lo stato dei luoghi, distruggendo una zona di grande pregio paesaggistico e sottoposta alla relativa tutela». Per questo, si sono costituiti in giudizio nel procedimento che comincerà il 4 dicembre, la regione Puglia e il comune di Massafra, enti pubblici che attraverso i loro legali, rispettivamente, Donato Salinari ed Emidio Altavilla, hanno chiesto cinquanta milioni di euro di risarcimento. Venti milioni di euro, invece, è quanto ha chiesto il proprietario dei terreni, Vito Maria De Filippis, attraverso gli avvocati Carlo e Claudio Petrone.

 

Carlo Petrone è il “decano” dei penalisti tarantini. Nella memoria presentata nell’udienza che si è tenuta lo scorso 10 settembre davanti al giudice per le udienze preliminari (Gup) del tribunale di Taranto, e risultata poi decisiva per il rinvio a giudizio degli imputati, Petrone ha riferito che la gravina fu già oggetto durante gli anni’90 di indagini sullo sversamento senza autorizzazione in una zona sottoposta a vincolo ambientale.

 

E ancora, l’avvocato ha mostrato in aula le prove, anche fotografiche, che «sulla sommità delle collinette sono state addirittura ricavate vasche, con pareti permeabili e costituite dai rifiuti solidi per lo stoccaggio ed essiccazione di quelli liquidi, fanghi di catrame, ossido di ferro e di olio, fanghi di ossido di ferro e di carbonio, condense rete gas coke». Dunque, della massiccia presenza e sedimentazione di rifiuti industriali, chiaramente.

Oggi, l’avvocato Carlo Petrone, contattato da dinamopress, dice: «nonostante le evidenze, ci sono voluti sette lunghissimi anni per arrivare a tali imputazioni». Nel corso della conversazione lascia intendere la presenza, o meglio l’assenza, di un convitato di pietra in questo già ipotizzato disastro ambientale tarantino, lo Stato, che attraverso l’Iri smaltiva gli scarti dell’Italsider pubblica nelle adiacenze della gravina già nella metà degli anni ’70. È di nuovo lo Stato che dal 2012 e prima della vendita della fabbrica ad Arcelor Mittal «attraverso il commissariamento, di fatto, si è qualificato come proprietario».

Spiega ancora Petrone: «in tutta questa vicenda c’è una anomalia, è quella che ha visto la proprietà statale disinteressarsi completamente della questione, è un dato oggettivo la sua assenza, prima della gestione di Riva e venti anni dopo, con la fine della sua era». Quel che è certo è che da queste parti, in tanti, negli anni, hanno fatto finta di non vedere e dunque solo nel 2018 i giudici tarantini hanno messo nero su bianco nel decreto di sequestro dell’area, che «la zona delle collinette è costituita da un ammasso incredibile di rifiuti industriali che continuano ancora oggi a sversare nei terreni e nella falda inquinanti pericolosi per la salute umana, animale e vegetale». Gli scarti dell’ex Ilva di Taranto, dunque, divenuti con il tempo i segreti di un patto di famiglia. Una storia di capitalismo all’italiana, «volutamente occultata dalla proprietà, verosimilmente, per sottrarsi ai gravosi impegni di bonifica», è questo l’atto d’accusa di un ennesimo disastro ambientale che penderebbe su una provincia e i suoi abitanti.

 

Immagine di copertina di Philip Barrington da Pixabay