ITALIA

Ilva e Taranto. A che è punto è la notte

Per Luigi Di Maio quello sull’Ilva di Taranto è “Il miglior risultato possibile nelle peggiori condizioni possibili”. Eppure la firma dell’accordo che cede a un gruppo indiano l’impresa, ha innescato la rivolta tra i comitati cittadini, sopratutto quelli che si erano affidati al Movimento 5 Stelle

In un primo pomeriggio di fine estate il ministro dello sviluppo economico Luigi Di Maio, esce dalla porta principale del suo ministero, in Via Veneto. Ad attenderlo ci sono decine di giornalisti. Alle sue spalle, mentre guadagnano l’uscita, gli uomini attualmente ai vertici dei sindacati metalmeccanici italiani; poco più in là, sul marciapiede, le aste riposte delle bandiere delle organizzazioni sindacali ne segnalavano la presenza al completo. A farsi spazio, completando il quadro, c’è Mattieu Jehel, amministratore delegato di una multinazionale indiana, Arcelor Mittal, società siderurgica e mineraria che gestisce siti industriali in 19 nazioni, tra i cinque maggiori produttori al mondo di minerale di ferro e carbone metallurgico; ma, soprattutto, il più grande produttore di acciaio. Perciò, «siamo contenti del risultato di oggi. Abbiamo fatto un accordo che va bene per tutti. E’ l’inizio di un percorso e di un lungo viaggio per fare dell’Ilva un’impresa più forte e più pulita nel futuro», dice con soddisfazione Jehel, uscendo dal Mise dove è stato appena raggiunto l’accordo definitivo per la cessione al gruppo indiano dell’Ilva di Taranto.

«Il miglior risultato possibile nelle peggiori condizioni possibili», sintetizza subito Di Maio, prendendosi la scena di cronisti e fotografi. «Quando siamo arrivati al Ministero dello Sviluppo economico, lo stabilimento Ilva era stato già venduto con un contratto sottoscritto nel 2017, che prevedeva meno garanzie ambientali e non prevedeva l’accordo sindacale», dice il vice-premier, ministro e capo politico del Movimento Cinque Stelle: «oggi è stato ottenuto che l’aumento della produzione di acciaio oltre sei milioni di tonnellate annue sia condizionato alla dimostrazione da parte dell’azienda che le emissioni complessive di polveri dell’impianto non superino i livelli collegati alla produzione a 6 milioni». E ancora, ha spiegato Di Maio, riannodando nel racconto i fili della trattativa con il gruppo indiano cominciata dal ministro precedente, Carlo Calenda, «sul piano occupazionale si partiva da 10000 assunzioni e centinaia di esuberi, si è arrivati a 10700 con zero esuberi. Questo accordo è il miglior risultato che si potesse ottenere nelle peggiori condizioni possibili», gioiva di nuovo il ministro; il quale per un attimo, poi, aveva smesso i panni dello statista, per indossare nuovamente quelli dell’attivista/cittadino/poliziotto che vorrebbe fare giustizia per sè e per gli altri. «Non faremo sconti a nessuno». E giù ancora: «da oggi fiato sul collo per verificare che si mantengano gli impegni presi soprattutto sul versante ambientale». Infine, «Mi batterò perché l’Ilva non inquini davvero, e i cittadini di Taranto possano tornare a respirare. La struttura commissariale agirà come un poliziotto ambientale». E le porte del Ministero saranno sempre aperte ai comitati e ai cittadini.

 

La rivolta è nella base, a cinque stelle?

Ma adesso ad avercela con lui, sono proprio loro: i comitati, il vasto mondo dell’associazionismo locale, che da circa dieci anni si batte per la chiusura delle fonti inquinanti a Taranto, una parte dei quali affidatisi, durante le scorse elezioni, al Movimento Cinque Stelle, con la promessa della chiusura e riconversione della fabbrica. Sono loro, dunque, ora, ad essere in rivolta contro la dirigenza del Movimento. Nella memoria collettiva restano le dichiarazioni pronunciate in passato dallo stesso Di Maio: «chiuderemo la fabbrica e impiegheremo i lavoratori nelle bonifiche», così semplificava lui. Quel è che certo è che gran parte della rabbia, conseguenza in parte di questo risentimento, si è riversata sulla deputata tarantina del Movimento Cinque Stelle, l’ex giornalista di una tv locale Rosalba De Giorgi, che giovedì pomeriggio aveva subito una contestazione, allontanata dai manifestanti di un presidio organizzato «per chiedere il rispetto di quanto annunciato nel contratto di governo, a partire dalla chiusura delle fonti inquinanti», così si legge in una nota stampa con cui era stato convocato il sit-in, definito dagli organizzatori, significativamente, Non c’è più tempo. La città, come accade da sempre, sul destino dell’Ilva è spaccata. Sullo sfondo c’è una ferita ambientale, sociale, sanitaria, che non accenna a sanarsi.

La frattura è molteplice, e ha investito interamente i corpi intermedi, politico e sindacali, travolgendoli. A Taranto negli ultimi 30 anni si è reso più evidente che non da altre parti del Meridione d’Italia il più classico degli scollamenti: tra base e rappresentanza politica. Un mutamento di forme, un divorzio che ora sembra investire, prima di ogni tempo, a Taranto, anche il rapporto tra attivisti e dirigenza del Movimento Cinque Stelle, almeno così prevede qualcuno. I primi effetti di tale scissione sembrano già vedersi con l’abbandono del gruppo consiliare del MoVimento da parte di Massimo Battista, operaio del siderurgico con passato da attivista nel comitato Cittadini e lavoratori liberi e pensanti.

 

Nel quartiere dove le scuole chiudono per inquinamento: promesse non mantenute

Nel quartiere Tamburi, attaccato alla zona industriale, dove lo scorso inverno una ordinanza disposta dal Sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, aveva impedito per sette giorni non consecutivi agli alunni delle scuole materne ed elementari presenti nel quartiere di frequentarle, (la situazione ambientale e sanitaria è così drammatica che l’Asl di Taranto ha consigliato di usare precauzioni durante i Wind Days, i giorni di vento, a causa della dispersione eccessiva di polveri di ferro provenienti dalla zona industriale) qui ti dicono: «abbiamo accompagnato Beppe Grillo durante l’ultima campagna elettorale a vedere le nostre case, i luoghi dove abitiamo a ridosso dei parchi minerali, e non una parola, ora, almeno sulla riconversione della fabbrica, se non sulla chiusura, come avevano promesso». Ordinanza che sembra essere, oggi, più che mai valida a causa del rilevamento, da parte di Arpa-Puglia, di gas radon nelle scuole del quartiere.

La delusione e la rabbia per le promesse non mantenute in termini di tutela sanitaria per la popolazione è tanta; e fa il paio con le proteste contro il governo giallo-verde da parte dell’associazionismo locale. Luciano Manna è un ex operaio Sanac (gruppo Riva) e responsabile comunicazione del nodo locale dell’associazione Peacelink. Dalle denunce e dagli esposti dell’associazione sono partiti in passato diversi procedimenti giudiziari contro gli inquinatori. Manna, nelle scorse ore, ha annunciato «di aver depositato in procura diversi video che conterrebbero la prova che attualmente l’Ilva è una discarica aperta di scorie cancerogene, e che è in corso un vero e proprio attentato alla salute pubblica»; dice Manna, ripercorrendo tutte le tappe dei procedimenti giudiziari contro Ilva, e la storia dei provvedimenti legislativi che l’hanno riguardata; «è tuttora in corso di svolgimento presso la Corte D’Assise del Tribunale di Taranto il maxiprocesso denominato “Ambiente Venduto” che vede imputati, a vario titolo, tanti ex dirigenti della fabbrica, e altre decine di persone tra funzionari pubblici e uomini del mondo politico, locale e nazionale». Già, la politica, quella in questi anni è mancata di certo nel risolvere le problematiche ambientali e quelle sanitarie che vivono i cittadini di Taranto. «L’accordo che è stato concluso da Di Maio, sia nella fase contrattuale che in quella sindacale, ha sancito le garanzie occupazionali degli operai ma dal punto di vista ambientale non ha fatto nulla di più che recepire un piano ambientale del privato, compreso l’addendum, che non assicura il rispetto delle norme ambientali e di conseguenza pone a serio rischio la salute dei cittadini, già notevolmente compromessa, così come accertato dai recenti studi epidemiologici» Prosegue Manna: «E, tuttavia, non dimentichiamo che tutti e quattro i governi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, che si sono succeduti dopo il sequestro della fabbrica avvenuto ormai sei anni fa, il 26 luglio del 2012, hanno adottato diversi provvedimenti normativi, ma, tutti tesi a salvaguardare la produzione, nessuno di questi ha fatto riferimento alla salute della popolazione». Dodici decreti di legge, esattamente. «L’incredibile vessazione dello Stato italiano ai danni della città di Taranto», l’hanno definita il gruppo di attivisti di #Tuttamialacittà, i quali sul loro sito internet hanno ripercorso cronologicamente tutte le tappe dei passaggi normativi «finalizzati a favorire la produzione dell’Ilva, nonché il recupero dei crediti da parte delle banche che hanno partecipato al salvataggio del siderurgico, in danno della vita e dell’ambiente», dicono gli attivisti. Di più. Particolarmente preoccupante era considerato quanto stabiliva il decimo Decreto Legge, il n. 98 del 9 giugno 2016 “Disposizioni urgenti per il completamento della procedura di cessione dei complessi aziendali del Gruppo Ilva”, ovvero, che: «le condotte poste in essere in attuazione del Piano di attuazione dell’Autorizzazione integrata ambientale non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario, dell’affittuario o dell’acquirente». Che concedeva, in sostanza, l’immunità, fino al 2023, prima per i commissari pubblici, ora per gli amministratori privati. Roba da Pd, nel senso che quest’ultima previsione era stata prevista dal governo Gentiloni, ma non era mai stata messa in discussione durante le 18 ore della trattativa cominciata il 5 settembre al Mise. Contrattazioni che avevano portato, all’indomani, ad un “accordo di natura storica”.

 

Dal delitto perfetto all’accordo capolavoro                                

Sono in tanti in queste ore ad aver espresso pubblicamente soddisfazione a Di Maio: dal sindaco al vescovo, dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla Fiom, attraverso Maurizio Landini, dall’ex ministro Calenda, alla segreteria di Usb, sindacato costituitosi a Taranto proprio nel 2012, nei mesi caldi del sequestro della fabbrica, e in forte polemica con le organizzazioni sindacali tradizionali. Il sindacato Usb oggi a Taranto è cresciuto tanto, tra gli operai di Ilva, ma non solo; e ora rivendica anche di aver avuto un ruolo decisivo nell’accordo ottenuto al Ministero. Nella sede di Usb dove incontro il segretario provinciale Francesco Rizzo, campeggiano fotografie di operai morti sul lavoro, locandine di tornei di calcio intitolati alla memoria di qualcuno di loro, ogni piccolo dettaglio appeso al muro evoca «lo stabilimento», come lo chiamano da queste parti. Dice Rizzo: «Dal punto di vista sindacale questo è il migliore accordo possibile». E ancora: «non ci sarà nessun licenziamento negli stabilimenti Ilva. Questa è una vittoria frutto anche della nostra determinazione, perché abbiamo lottato da un lato contro i tentativi di imposizione di Arcelor Mittal, dall’altro contro la scellerata conduzione della trattativa che era stata iniziata da Carlo Calenda». Rizzo ha ragione. L’accordo, dal punto di vista sindacale, è un capolavoro, anche perché sul piatto non c’era nient’altro da prendere. Né da pretendere. A Taranto è stato monetizzato, ancora una volta, il diritto all’esistenza. Di questo si tratta. Così, nonostante quanto hanno rilevato gli studi epidemiologici del ministero della salute, gli allarmi continui dell’Ordine dei medici, sette operai morti in incidenti in fabbrica soltanto negli ultimi cinque anni di commissariamento straordinario statale, la soddisfazione è tanta, da più parti. Perché l’Ilva è un punto di Pil, ha ricordato lo Swimez.

L’allora Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, quando nel 1960 inaugurò lo stabilimento Italsider di Taranto, disse di «voler recare agli italiani del Mezzogiorno l’assicurazione che lo Stato ha preso effettivamente e seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla». Oggi, invece, perchè Taranto non muoia, questa è la lezione che di Maio sembra aver ben imparato: occorre cambiare tutto per non cambiare niente, rispettando la tradizione.

 

Articolo apparso anche sul sito Confronti