ROMA

Taxiwriter 19. Il tiepido autunno

Tra una corsa e l’altra alla guida del suo mezzo, Andrea Panzironi riflette, discute e osserva gli angoli di città in cui la storia ha lasciato delle tracce. Un nuovo racconto

L’azzurro scintillante del cielo di questa mattina dicembrina fa da sfondo agli sgargianti colori delle bandiere dei sindacati metalmeccanici. Garriscono al vento di tramontana i rossi, i verdi, i bianchi ed infine i blu delle svariate sigle che oggi si sono riunite in piazza Santi apostoli per manifestare contro le politiche industriali e sociali del governo. L’Ilva di Taranto è in crisi e trascina giù con sé l’idea ed il senso stesso dell’intera industria pesante. Mentre conduco il taxi verso la stazione Termini vedo gruppi di donne e uomini scendere giù da via Quattro novembre. Indossano quasi tutti felpe e berretti che li distinguono dalla folla di passanti dediti allo shopping oppure da quella degli impiegati in libera uscita dagli uffici della burocrazia romana. Le loro facce sono pensierose, stanche, esauste da una notte trascorsa in pullman per raggiungere la capitale. E non riesco a scorgere nei loro sguardi un filo di speranza, di vigore nell’ennesima lotta per il diritto al lavoro che si apprestano ad iniziare.

Ormai mezzo secolo fa in Italia iniziava il cosiddetto “autunno caldo”, quello delle lotte operaie e studentesche che avrebbero portato le classi subalterne alla conquista dei diritti fondamentali che ancora oggi i loro figli, i loro nipoti sono chiamati a difendere. Eppure questo sembra essere un tiepido autunno, non solo nelle temperature sempre più miti a causa dei cambiamenti climatici ma anche nelle lotte sociali, intiepidite dallo smarrimento politico e culturale che sembra aver preso gran parte della società italiana. Non ci sono tute blu, come nelle foto e nei filmati d’archivio dell’operaismo del passato, non ci sono gli slogans contro i partiti dei padroni, non ci sono studenti a sostegno dei loro padri operai. Non c’è più tutto ciò perché non c’è più l’identità. Chi siamo noi oggi? Chi sono veramente i nostri padroni?

Siamo in mano alla speculazione finanziaria, lavoriamo per persone troppo distanti da noi, dalla nostra cultura, mi dirà qualche ora dopo un operaio dell’Ilva che insieme ad altri compagni, al termine dei comizi dei vari segretari generali, saliranno sul mio taxi perché troppo stanchi per tornarsene a piedi al loro pullman che li riporterà a Taranto. La loro città, mi dicono, una città con un passato unico al mondo, dove l’eccezionale connubio di acque dolci e salate faceva crescere i mitili, le cosiddette cozze, più buoni e pregiati, la principale città della Magna Grecia, è stata completamente divorata, inquinata, stravolta dalla Fabbrica.

La fabbrica che doveva portare lavoro e sviluppo, che doveva permettere ai loro figli di prendere il famigerato ascensore sociale per emanciparsi dalla fatica del lavoro operaio, è stata invece la loro carnefice. Oggi il ricatto al quale sono sottoposti, mi dice un altro operaio seduto dietro di me, è cancro e lavoro a discapito della salute per salari da sopravvivenza. È un ricatto infame. Ha senso tutto ciò? , mi chiede retoricamente un altro compagno seduto al suo fianco. Non riesco a dire nulla, solo alzo le sopracciglia osservandolo dallo specchietto. Quello al mio fianco, come confessandosi, mi dice che loro oggi sono qui perché non potevano non esserci, per rispetto alla loro stessa dignità, ma aggiunge che in fondo in fondo la fine della fabbrica potrà essere la loro speranza.

La rinascita di una intera comunità che si sente abbandonata, presa in giro dai politici di turno che come imbonitori calano al sud per promettere l’impossibile, avverrà solo dalle forze interne a quella stessa comunità. Le idee non mancano, le energie ci sono ancora, manca la visione politica, i dirigenti capaci di dare una direzione al rinnovamento, ribadisce l’uomo al mio fianco. Siamo ormai arrivati in prossimità di piazzale Appio, un raggio di sole rimbalza sull’asfalto lucido della strada, perdo per un momento la percezione della guida, ma immediatamente la ritrovo; lo sferragliare di un tram lanciato a buona velocità sui binari che tagliano in due via Emanuele Filiberto interrompe la conversazione.

Passa veloce sfiorandoci, senza rallentare. Tutti istintivamente stringiamo un po’ le spalle, soffiando, sollevati per la mancata collisione. Qui ci sono venuta al primo di maggio, per il concertone! , dice rompendo il breve silenzio di tensione l’unica donna presente. È una ragazza giovane, probabilmente la fidanzata di uno dei due seduti dietro. Le sorridono gli occhi al ricordo, aggiunge che con lei c’erano altre amiche e che si sono divertite tanto, non come oggi… Le sue parole rimangono sospese, gli altri si voltano verso di lei, fissandola. Mi aspetto una frase di reazione, una reazione “politica” sulle motivazioni della loro presenza lì oggi. Eppure nessuno aggiunge altro.

Come mancassero parole nuove per sostituire quelle vecchie, usate già troppe volte e che oggi sanno di stantio, di inutile. Arrivo nel grande piazzale di Porta Maggiore, i clienti mi indicano il loro pullman, che, insieme ad altri posteggiati al suo fianco, già col motore acceso, attende il ritorno dei manifestanti. Con pochi gesti scendono, quello al.mio fianco paga la corsa e mi stringe la mano. Gli auguro ogni bene per il futuro. Lui fa altrettanto con me. Faccio inversione per tornarmene in centro. Attraverso piazza San Giovanni, oggi calma e tranquilla, quasi senza traffico, e non può non venirmi in mente la massa enorme di lavoratori che qui si riuniva per ascoltare i leader di ieri. Il confronto con la piccola piazza Santi apostoli di oggi è impietoso, come il confronto tra le dimensioni dell’elefante ed quelle del mammut. E qui, ora, sembra proprio preistoria il racconto di quell’autunno caldo di cinquant’anni fa.