TERRITORI

Genealogia di un disastro ambientale. Come si è arrivati al processo all’Ilva

Politici, imprenditori, agenti di polizia e fuzionari pubblici: inizia il procedimento contro l’Ilva. Tutta la vincenda con i fatti, i nomi e la storia del disastro che ha distrutto un territorio

Taranto. Cominciò tutto facendo analizzare un pezzo di formaggio. Era il febbraio del 2008 quando l’associazione Peacelink si rivolse a uno dei laboratori Inca ( il consorzio interuniversitario nazionale di chimica per l’ambiente) ottenendo un responso drammatico: quel formaggio risultava contaminato da diossina e PCB (policlorobifenili) in misura tre volte superiore ai limiti di legge. Nell’ottobre dello stesso anno una delibera della Regione Puglia stabilì l’abbattimento di milleduecento animali, distribuiti in sette allevamenti, che si trovavano a un paio di chilometri dall’Ilva, l’impianto siderurgico più grande in Europa. Tutta l’area ricadente in un raggio di almeno dieci chilometri dal polo industriale risultava essere stata contaminata da diossina, certificava il provvedimento redatto dall’osservatorio sanitario regionale. Nel documento c’era scritto anche il prezzo, per quel massacro necessario. Centotrentatre euro lordi di risarcimento per ogni pecora o capra abbattuta. Comprese le spese di smaltimento delle carcasse. A conti fatti si stabilì che ad ogni allevatore sarebbero andati circa sessanta euro per ogni animale abbattuto. È il punto di rottura che da il via ad un’ inchiesta giudiziaria approdata ieri mattina nell’apertura del maxi processo Enviromental sold out, che si sta svolgendo presso la Corte di Assise del tribunale di Taranto.

È imputata un pezzo importante della classe politica e imprenditoriale, locale e nazionale. A giudizio ci sono quarantaquattro persone fisiche e tre società. Ad alcuni di loro sono contestati: dall’associazione per delinquere al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari. Si tratta di alcuni membri della famiglia Riva ( Fabio e Nicola) proprietaria della fabbrica e di alcuni dirigenti del siderurgico. Cinque di questi erano i “fiduciari dei Riva”. Facevano parte, cioè, di quello che è stato definito il “governo ombra” del siderurgico. Ovvero, ufficialmente non risultavano presenti nell’organigramma dell’azienda. In realtà, come si legge nelle carte dell’inchiesta: “la struttura dei fiduciari include coloro che hanno governato sino a poco tempo fa lo stabilimento di Taranto, dando disposizioni su tutte le iniziative e le attività adottate all’interno dello stesso che, poi, venivano eseguite o realizzate dal direttore o dai vari capi area le cui decisioni, comunque, dovevano essere sempre avallate e condivise dai primi”.

Secondo la Procura di Taranto esisteva un’associazione a delinquere che avrebbe agito per controllare “l’emissione di provvedimenti autorizzativi nei confronti dello stabilimento Ilva e consentire al predetto stabilimento la prosecuzione dell’attività produttiva”. Che avrebbe avuto il compito di assicurare che le istituzioni locali e nazionali non emanassero provvedimenti per costringere l’azienda a spendere diversi milioni di euro per adeguare e ammodernare gli impianti. Di impedire, cioè, qualsiasi disposizione che risultasse sfavorevole ai padroni dell’acciaio. Instaurando, così, una serie di complicità con diversi livelli del politico. Sotto la scure dei giudici di Taranto è finito un pezzo importante della classe dirigente pugliese. L’ex governatore della Regione, Nichi Vendola, che secondo i pm avrebbe fatto pressioni su Giorgio Assennato, il direttore dell’agenzia di protezione ambientale (Arpa) “per ottenere una linea più favorevole all’azienda”. Una parte del suo entourage: Donato Pentassuglia, ex assessore regionale alla salute, l’attuale parlamentare Nicola Fratoianni, ex responsabile in Regione delle politiche giovanili, entrambi accusati di favoreggiamento personale. L’ex capo di gabinetto del Presidente, Francesco Manna (poi responsabile per i rapporti istituzionali all’Eni) e Davide Pellegrino, il funzionario regionale che gli è succeduto nell’incarico, dal 2011. Anche a loro è contestato il favoreggiamento. Insieme a loro, tra gli imputati, ci sono anche l’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido e l’attuale sindaco del Comune jonico Ezio Stefano, oltre che una sfilza di funzionari ministeriali. Come il potentissimo avvocato, Luigi Pelaggi, già segretario della commissione ministeriale che concesse l’autorizzazione integrata ambientale ( Aia) all’Ilva nel 2011, a capo della segreteria tecnica di Stefania Prestigiacomo, ministro dell’ambiente nel governo Berlusconi.

Agli atti dell’inchiesta c’è una telefonata intercettata dai finanzieri in cui Pelaggi chiede a Fabio Riva una donazione per l’organizzazione di un convegno a Siracusa, per la Fondazione Liberamente, costituita nel 2010 dalla stessa Prestigiacomo insieme all’ex ministro all’istruzione Mariastella Gelmini. Non solo politici. Anche un consulente della Procura era nella rete delle complicità intessuta dai vertici Ilva, l’ex preside della facoltà di ingegneria dell’Università di Bari, il prof. Lorenzo Liberti. Fu immortalato dalle telecamere istallate in un’area di servizio lungo l’autostrada, mentre intascava dal responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà, una busta contenente soldi in dote: diecimila euro per ammorbidire una perizia. Il poliziotto in forza alla Digos tarantina Aldo De Michele, invece, chiedeva direttamente posti di lavoro nello stabilimento. Prometteva in cambio ad Archinà pugno duro nei confronti di attivisti e associazioni ambientaliste e “spiate” dagli uffici e luoghi in cui De Michele era preposto al servizio, siano esse sedi di uffici comunali, piazze della protesta o corridoi della Procura. (Su questa ultima vicenda si veda in particolare qui. Dunque, a vario titolo, con diverse imputazioni, esponenti politici, imprenditoriali, funzionari ministeriali e regionali sarebbero stati i tramite con cui il gruppo Riva “avrebbe determinato un “gravissimo pericolo per la salute pubblica” causando “eventi di malattia e morte nella popolazione”, mettendo a rischio la salute dei lavoratori dell’Ilva e avvelenando i terreni su cui pascolavano greggi di pecore e capre. Questo lo stabilirà il processo per disastro ambientale che si è aperto nella corte d’assise del tribunale di Taranto. L’udienza di ieri è servita soltanto ai giudici Michele Petrangelo e Fulvia Misserini per la costituzione delle parti civili. Circa un migliaio sono quelle ammesse. Per una richiesta complessiva di risarcimento che supera la cifra di trenta miliardi di euro. Per un difetto di notifica, intanto, il processo è slittato al primo dicembre, data in cui ci saranno altre costituzioni. Oltre agli allevatori i cui animali sono stati abbattuti perché risultati contaminati dalla diossina, ai coltivatori di cozze, ai cittadini che risiedono più vicini all’industria, alle associazioni ambientaliste come Peacelink e Legambiente e al partito dei Verdi, tra le parti civili si contano pure i ministeri dell’Ambiente e della Salute, la Regione Puglia, la Provincia di Taranto e i Comuni di Taranto, Crispiano, Montemesola e Statte, i più vicini alla zona industriale.

“È soltanto l’ultima tappa di un lavoro che ha avuto origine negli anni’ 80” ha commentato ieri il procuratore capo Franco Sebastio. Risale al 1982, in effetti, la prima sentenza di condanna per l’allora Italsider di stato:” la prima condanna la decretai io da pretore” aggiunge il magistrato. Comunque, al di là di come e quando si concluderà il processo penale che come tutti i processi che hanno a che fare con i buchi neri del paese finirà probabilmente tra molti anni, l’impressione è che allora, la fabbrica e chi la governa, ovvero lo stesso oggetto del contendere, sarà venuto meno. Restando sullo sfondo la più grande crisi sociale ed ambientale che una città italiana ricordi. Quel che è certo è che se Taranto ha rappresentato nel recente passato il simbolo italiano del fallimento di una certa idea di industrializzazione e di una conseguente urbanizzazione, oggi appare lo specchio della crisi che attraversa il mezzogiorno d’Europa, dove non-lavoro, nuove povertà e emigrazioni semi – forzate si fondono a disegnare la trama di una cartografia della disperazione. Basta citare il dato recente di una ricerca della Cgil sulla disoccupazione giovanile. Qui la città detiene uno dei suoi tanti record: il 57% dei giovani tarantini tra i 15 e i 24 anni non studia e non lavora, a fronte del 39% della media italiana.

Così Taranto sessant’anni anni dopo l’avvento dell’Ilva, la fabbrica più grande del Paese, appare esprimere molti mali del Mezzogiorno d’Europa. Forse, di più. Basti pensare alle gravissime forme di squilibrio ambientale prodotti dagli stabilimenti industriali, da sempre usati come leve necessarie e straordinarie per stimolare l’occupazione e che oggi lasciano sul terreno di una crisi irreversibile, non soltanto i costi umani e sanitari, ma anche quelli economici e sociali. Infatti, se da un lato la crisi di Taranto trova spiegazione in chiavi di lettura che rimandano alla crisi finanziaria cominciata nel 2007, dall’altro si ritiene innegabile la sua collocazione in quelle sacche di “economia recessiva” che non seppero adattarsi alla ristrutturazione postfordista già negli anni ’90 del secolo scorso, restando ancorate, pertanto, ai resti di una preistoria industriale. Ma anche qui, ciò che preme mettere in evidenza è che c’è un altro buco nero nella storia della città che va raccontato ed è quell’arco temporale intercorso tra il grido degli allevatori a cui sono stati avvelenati gli animali e l’apertura del processo Ambiente Svenduto. Cosa accade tra il 2008 e il 2015, da quando cioè alcune associazioni e comitati cittadini impongono nell’ordine del discorso il tema di quello che mangiano e di ciò che respirano i cittadini tarantini. Il nodo della salute minacciata per gli abitanti di una città, in contrapposizione agli interessi nazionali rappresentati dalla fabbrica che in quel momento “sfornava” quasi la metà dell’intera produzione italiana di acciaio, impiegando dodicimila dipendenti. Da allora quali terapie governamentali sono state diagnosticate e quali reazioni soggettive hanno attraversato il campo del conflitto tra salute e lavoro? Sarà il tema della seconda parte di questo racconto.

foto di Manna/Peacelink