MONDO

La piazza plebea

Le mobilitazioni di piazza che si sono viste in Argentina nello scorso dicembre, esprimono una natura differente da quelle del 2001. L’irruzione della “strada” limita il protagonismo delle élite e rivendica il diritto a nuove verità

Il dicembre 2001 ha inaugurato le negoziazioni di piazza per quella parte crescente di lavoratori che creano valore senza essere inquadrati in contratti collettivi. Non era spontaneismo, ma sedimentazione di una nuova strategia, una messa in questione del modello sociale, basata sugli spazi pubblici, analogamente a quello che furono il picchetto, l’assemblea e “l’escrache”[1], e un modo per unire la rivendicazione di quei beni materiali di prima necessità con una dinamica destituente della legittimità delle istituzioni neoliberali. Il 2001 è stata l’occupazione dello spazio pubblico, nel pieno della crisi, per creare democrazia dal basso, oltre lo stato. Dicembre 2017 è un’altra cosa, è più la fessura che il taglio. Più che un’esplosione, la decisione di incidere a partire delle strade.

È una piazza plebea, che anche quando non è in grado di destabilizzare i tempi del dominio che regolano quotidianamente la vita urbana, introduce una tensione che minaccia di limitare il trionfalismo delle élite, ogni volta che il plebeo porta con sé la vocazione a sottrarre l’autorità basata su titoli di proprietà o di gerarchia razziale o di genere. Già solo per questo motivo, il movimento urbano forza una nuova comprensione del sociale; fa fallire la riduzione della vita politica ai tre poteri dello Stato e introduce una variabile che non ha smesso di insistere lungo tutta la nostra storia moderna: il protagonismo popolare.

La reazione immediata del governo e del sistema dei media che regola la cosiddetta opinione pubblica è stata quella di agitare lo spettro della violenza, di improbabili gruppi terroristici e dei colpi di stato. Le élite al potere mancano di un altro linguaggio in grado di esprimere la loro paura della strada. La via plebea ha una sua teoria politica, diversa dalla retorica del contratto sociale e dei dispositivi di controllo urbano. L’irruzione della piazza dinamizza il panorama sociale e offusca la cartografia congelata (macrismo contro kirchnerismo) da cui il governo cerca di estrarre legittimità per qualsiasi cosa.

Machiavelli contro Hobbes? In un certo senso, sì: mentre la piazza plebea esercita un potere cognitivo, riscoprendo nelle moltitudini una premessa diversa e più adeguata all’approfondimento della democrazia, lo stato basa le sue ragioni sul principio della proprietà privata concentrata e sulla creazione di un atmosfera fittizia di terrore, che legittima il crescente ricorso alla violenza repressiva applicata alla protesta sociale. Al di là delle varianti del dispositivo repressivo, ciò che preoccupa il governo non è l’esistenza di gruppi che lanciano pietre nelle marce, ma il sentimento di disobbedienza di coloro che vanno alle manifestazioni e non si disperdono davanti all’azione della polizia, così come dei “caceroleros” [2] che occupano viali e piazze di quartieri in cui le i risultati delle elezioni furono ampiamente favorevoli al governo.

Questo incipiente risveglio della piazza è forse, e in prospettiva, il dato più importante della nostra congiuntura. Il dinamismo della mobilitazione è il miglior antidoto contro il collasso intellettuale ed emozionale. In altre parole, abilita il parallelismo virtuoso tra capacità di lotta e chiarezza di idee. È stato così quando si è cercato di applicare il 2 x 1 per dare impunità ai repressori del terrorismo di stato con le manifestazioni di massa che richiedevano la restituzione in vita di Santiago Maldonado, una morte che il governo intende far passare – incredibilmente – come un incidente e trova spiegazione negli spari alla schiena, da parte della dei corpi speciali della prefettura, che Rafael Nahuel ha ricevuto nei pressi del Lago Mascardi. La reazione della leadership politica delle forze di sicurezza e il dispositivo di comunicazione che le accompagna, ha giustificato l’omicidio, facendo riferimento ad uno scontro a fuoco impossibile da dimostrare e che ha costruito un precedente diretto sul modo in cui rispondere alla piazza: si tratta di codificare la lotta popolare – in questo caso, quella dei giovani che sostengono la rivendicazione della terra e l’autonomia dei mapuche – come un crimine contro la proprietà su cui si fonda la legittimità dello stato di diritto.

Oltre a evidenziare l’indissolubile ed evidente legame tra proprietà e repressione (il diritto de facto dello stato di uccidere chi disobbedisce), l’invocazione della piazza come violenza solleva un altro problema: l’uso di discorsi di massa sottratti a qualsiasi criterio di rigorosità e corroborazione. La cosiddetta “post-verità”, un regime di comunicazione in cui ognuno consuma la realtà che gli conviene secondo le sue convinzioni, è una pratica di depotenziamento politica poiché la democrazia, considerata oltre una semplice forma di governo, è il diritto a nuove verità ( sperimentare idee e modi di vita). L’irruzione della piazza plebea – forse è effimera, vedremo  – agisce anche su questo livello di rivendicazione politica, almeno in potenza. Lo fa, soprattutto, contestando la capacità dello Stato di dare nomi alla realtà: violenza è uccidere, violenza è espropriare. E conosciamo molto bene chi da sempre uccide ed espropria in Argentina.

 

Articolo comparso sul sito lobosuelto

Traduzione a cura di DINAMOpress

 

[1] È il nome dato in argentina a un tipo di manifestazione nella quale un gruppo di attivisti si dirige verso la casa o luogo di lavoro di qualcuno che si vuole denunciare davanti all’opinione pubblica. La parola nacque nel 1995 durante le proteste verso responsabili di genocidio a cui il governo Menem aveva concesso l’indulto.

 

[2] Da “cacerolada”: protesta rumorosa e massiva che consiste nel perquotere padelle e pentole, nelle strade e dai balconi delle case.