ITALIA

«La partecipazione nasce dal conflitto». A che punto è Bologna dopo lo sgombero di Xm24

Nella lunga giornata del 6 agosto, attiviste e attivisti del centro sociale bolognese Xm24 hanno resistito al “nulla che avanza”, costringendo il Comune a firmare un accordo in cui si prevede l’assegnazione di un nuovo spazio entro e non oltre il prossimo novembre. Assieme a Mauro Boarelli, autore del recente Contro l’ideologia del merito, storico e membro bolognese della rivista Gli Asini (che ha di recente curato il volume A che punto è la città? Bologna dalle politiche di “buongoverno” al governo del marketing) proviamo a capire le origini di questa decisione della giunta Merola, l’impatto che le recenti politiche cittadine stanno avendo sul tessuto urbano e il possibile ruolo di pungolo e alternativa che possono svolgere le esperienze di autogestione

Lo sgombero di Xm24 è l’ultimo di una serie di operazioni di chiusura di spazi sociali autogestiti (Atlantide, Crash, Labàs…) che ha caratterizzato gli ultimi anni della giunta Merola. Qual è il contesto politico in cui si è sviluppato un tale atteggiamento?

A mio modo di vedere, si tratta della fase conclusiva di una parabola che inizia grosso modo attorno agli anni ’80. È in quel periodo infatti che nella prassi di governo inizia ad essere utilizzata la parola d’ordine della privatizzazione. Progressivamente, questo concetto si è incarnato in decisioni e pratiche che ne hanno allargato i confini, comprendendo sia i servizi pubblici sia gli spazi pubblici. L’elenco degli spazi inutilizzati – e quindi sottratti alla cittadinanza – è lunghissimo. Per nessuno di questi è previsto un uso pubblico, tutti sono in attesa di processi di “rigenerazione” (una delle parole più corrotte del vocabolario politico corrente) che li consegneranno ad usi privati. Contemporaneamente, è stata costruita una potente retorica della “partecipazione” che è servita a istituzionalizzarla, a ridurla a veri e propri format che non tollerano voci dissonanti, deviazioni dalle norme stabilite dall’alto. Si tratta di evoluzioni che, come ben sappiamo, derivano anche da cambiamenti politici globali, ma che nel contesto bolognese assumono specificità derivanti dalla storia locale. È proprio qui, dove ha avuto la propria base sociale più solida e l’esperienza amministrativa più significativa, che il Partito comunista e i suoi eredi hanno mostrato in maniera lampante lo smarrimento dopo gli sconvolgimenti dell’89, favorendo la disintegrazione di un’intera cultura politica, lo smantellamento delle forme di governo socialdemocratico (anche se gli amministratori dell’epoca non avrebbero mai usato questa definizione) che avevano caratterizzato la parte più feconda del periodo postbellico fino alla metà degli anni ‘70, e – infine – la subordinazione verso le teorie e le pratiche del neoliberismo. L’altra peculiarità sta nella frattura del ’77, che mise in luce l’incapacità di costruire un rapporto con movimenti e culture non riconducibili a quelle della sinistra istituzionale. L’incapacità di elaborare quella frattura proietta le sue conseguenze fino ai nostri giorni.

Nello specifico, c’è una vicinanza (lei la definisce addirittura “subordinazione”) della giunta attuale con il settore delle costruzioni…

Recentemente, il Sindaco Virginio Merola si è fatto fotografare assieme a rappresentanti dell’Associazione costruttori per sostenerne la richiesta di rimuovere gli ostacoli a edificare negli spazi dismessi. In pratica il sindaco di Bologna, che rappresenta o almeno dovrebbe rappresentare tutta la città, ha utilizzato la sua carica istituzionale per farsi interprete degli interessi esclusivi di una specifica categoria imprenditoriale, dimenticandosi degli interessi della totalità dei cittadini. A mio modo di vedere, il Comune dovrebbe invece farsi regista di un’ampia operazione di ripubblicizzazione di tali aree, a partire da quelle che si trovano sotto la sua diretta gestione fino ad arrivare a quelle che appartengono ad altri enti e istituzioni (Città metropolitana, Asl, Asp, Demanio, Poste, etc.). Invece sta accadendo esattamente il contrario: la giunta si fa promotrice della loro privatizzazione generalizzata. Prendiamo il caso della Caserma Masini, teatro dell’esperieza Labàs. Lì il Comune ha caldeggiato lo sgombero, dichiarando prima di volerci costruire un albergo e ora il liceo privato di Confindustria. Poi c’è il tema enorme dei Prati di Caprara: un bosco spontaneo all’interno della città, dove Merola vorrebbe costruire ancora edilizia privata e commerciale (e addirittura un gigantesco outlet della moda, progetto poi ritirato, a quanto sembra, ma che dà l’idea della confusione mentale dell’Amministrazione comunale). Insomma, sul tema delle aree pubbliche dismesse troviamo mancanza di progettualità e un susseguirsi di decisioni contraddittorie, mentre le poche idee messe in campo prevedono in ogni caso una privatizzazione degli spazi.

Eppure, a Bologna è stato istituito un Assessorato all’Immaginazione Civica (presieduto da Matteo Lepore) e il Comune si fa promotore di numerose iniziative di partecipazione ai processi decisionali…

Vista dal di fuori, Bologna potrebbe sembrare la “capitale della partecipazione”: patti di collaborazione, laboratori di partecipazione, bilancio partecipato… Il Comune ha costruito negli ultimi anni una “architettura partecipativa” che appare molto estesa. Eppure, se si prova ad analizzare caso per caso queste iniziative, si capisce come si tratti di un apparato retorico che svolge una precisa funzione ideologica. Prendiamo il caso dell’allargamento della tangenziale, il cosiddetto “passante di mezzo”: un tema cruciale, un progetto dall’elevato impatto ambientale e urbanistico. Il Comune mise in piedi un laboratorio partecipativo in cui però era chiaro fin dal primo momento che l’allargamento non poteva essere messo in discussione, la decisione era già presa e non poteva essere cambiata. In pratica, i cittadini potevano esprimersi solo su questioni secondarie, su operazioni di “mitigazione” di un progetto che nella sua sostanza doveva restare immutato. Al bilancio partecipato, invece, viene riservata una quota irrisoria del bilancio comunale (0,11%), e la sua attribuzione è ingabbiata in procedure che ostacolano anziché favorire la visione complessiva della gestione del denaro pubblico. Si tratta di briciole destinate a interventi secondari che non incidono in modo significativo sul tessuto urbano. Se le decisioni principali sono già state prese, e se l’esercizio della partecipazione viene confinato ad ambiti ristretti e marginali, la partecipazione semplicemente non c’è, si riduce a una farsa. Tutto ciò in un contesto in cui  gli organi di quartiere, con le riforme del 1985 e del 2015, sono stati svuotati di ogni potere decisionale e ridotti a meri organi consultivi. Parallelamente, il Consiglio comunale  è stato ridotto a un organo che si limita a ratificare scelte compiute altrove. Mettendo insieme tutti i pezzi – svuotamento della democrazia rappresentativa, completo sgretolamento dei processi di decentramento partecipativo, articolazione di una molteplicità di forme  di partecipazione formale o marginale – risulta chiaro come oggi i cittadini di Bologna si ritrovino a non contare nulla, pur nell’illusione partecipare molto. Ecco allora che la retorica della partecipazione e dell’immaginazione civica svolge una funzione narcotizzante: ti illudo di poter partecipare, mentre di fatto ti sottraggo ogni potere decisionale.

Quanto è forte queste effetto narcotizzante? Si sta creando egemonia attorno a queste forme illusorie di partecipazione?

È un modello di governo che in una certa misura certamente funziona, perché queste forme di finta partecipazione sono – in realtà – strumenti di creazione di consenso. Tuttavia, credo che alla lunga mostrino il loro vero volto e penso che proprio questa debolezza rappresenti uno dei motivi del recente inasprimento  dell’Amministrazione comunale nei confronti di esperienze come quella di Xm24. Gli spazi autogestiti rappresentano dei nuclei di resistenza in cui la partecipazione è viva e si sviluppa in modi non incanalati né incanalabili negli schemi previsti dal governo cittadino. Ecco perché, anche se possono apparire marginali, in realtà disturbano parecchio. Anche sulla “marginalità” dovremmo ragionare. Se guardiamo alla manifestazione di due anni fa dopo lo sgombero di Labàs e a quella più recente a sostegno di Xm24, abbiamo visto un grandissimo numero di persone scendere in strada, ben oltre la capacità organizzativa e di mobilitazione di quei centri sociali.  Vale a dire che tanta gente che magari non frequenta neanche gli spazi autogestiti o li conosce marginalmente, ha capito che la guerra a queste forme di aggregazione sociale li riguardava comunque da vicino. Una tale capacità di mobilitazione oggi il Pd può solamente sognarla. Ricordiamo anche che entrambe queste realtà sgomberate ospitavano i mercati della rete contadina di Campi Aperti, un’esperienza nata quindici anni da proprio ad XM24, perché solo in uno spazio del genere poteva in quel tempo essere sperimentata una forma di vendita diretta dei produttori che si poneva ai limiti della “legalità”, per usare un altro termine tristemente in voga. Oggi i mercari di Campi aperti sono diffusi in tutta la città, sono luoghi di commercio di vicinato frequentati da persone molto diverse tra loro per provenienza sociale ed età. Questo per dire che negli spazi autogestiti prendono corpo e si sviluppano anche meccanismi di coinvolgimento sociale e intergenerazionale che nessun altro spazio della città in questo momento riesce a produrre. Si tratta dunque di luoghi fertili anche per chi non è politicamente o culturalmente vicino alla loro visione del mondo, ma che comunque è ben disposto ad attraversarli perché vi trova forme di vitalità sociale impensabili altrove. Esattamente il contrario della finta partecipazione promossa dal Comune.

Come fare a invertire la rotta? Da cosa si può ripartire?

Bologna ha conosciuto momenti di partecipazione molto viva in anni ormai molto lontani. Parlo della prima metà degli anni ’60, gli anni della costruzione dei quartieri e dell’invenzione della scuola a tempo pieno. È chiaro che stiamo parlando di un’epoca di acuto conflitto sociale. Oggi le dimensioni e la qualità del conflitto sono radicalmente diverse, e questo non può essere ignorato, altrimenti si rischia di fare un’analisi priva di contatti con la realtà: la partecipazione non si crea a comando (come pretende il Comune di Bologna), nasce proprio dal conflitto. La peculiarità dei nostri tempi sta nel fatto che il conflitto sociale è interpretato in modo negativo, e quindi sedato, anche dalle forze politiche e sindacali che ne erano state protagoniste. Ma il conflitto è parte integrante delle dinamiche sociali, negarlo è irresponsabile e porta a conseguenze nefaste, ovvero alla sua trasformazione in “scontro”, la sua versione corrotta e disgregatrice che sta facendo conoscere al nostro paese una stagione estremamente pericolosa. Anche per questo è importante l’esistenza di spazi autonomi autogestiti come Xm24, che sono – ciascuno a proprio modo – espressione di conflitti. Occorre partire dall’esperienza di questi spazi e da tutte le realtà frammentate che agiscono nel tessuto sociale. Occorre partire da esperienze come quella già citata di Campi aperti, oppure quella di “Camilla”, il primo emporio autogestito sul territorio italiano, che non esito a definire progetti politici, se torniamo a dare alla parola “politica” il significato più ampio che le appartiene sottraendola ai confini angusti e soffocanti nei quali l’ha rinchiusa il discorso dominante. E sono “politici” in quanto partono da una idea chiara e alternativa del rapporto tra uomini, donne e processi economici. Si tratta, in sostanza, di partire dall’autogestione e dal mutualismo, ovvero da quelle forme organizzative che hanno  dato vita alla parte più nobile della sinistra politica e sindacale a partire dalla fine dell’Ottocento. Nei momenti di crisi sociale sono appunto questi i meccanismi che di volta in volta riaffiorano, dimostrando la loro fertilità. Tutto nasce da lì e a me sembra che non si possa fare a meno di partire da lì, con l’intelligenza di declinare in chiave contemporanea, senza cedimenti nostalgici, quel ricco patrimonio di idee e pratiche. Queste pratiche devono moltiplicarsi, organizzarsi, allearsi. Di sicuro non è pensabile inseguire alternative stando ancora dentro la forma classica (e ormai degenerata) dei partiti (il Pd è in agonia da molto tempo, e in questa agonia rischia di trascinarci tutti), né inventando ogni volta sigle politiche estemporanee, nate magari con generosità e buone intenzioni ma sempre e solo alla vigilia di appuntamenti elettorali, e quindi entro un orizzonte troppo angusto: tutto ciò non porterà a nulla.

Foto di copertina realizzata da Max Cavallari durante lo sgombero di Xm24