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La geografia sentimentale dei Rancid

Tim Armstrong – cantante, chitarrista e autore delle canzoni dei Rancid, storico gruppo punk della Bay Area – ha da poco pubblicato un singolo per l’etichetta italiana Wild Honey Records per raccogliere fondi per il nuovo ospedale da campo costruito alla fiera di Bergamo per curare le vittime di Covid-19. Pubblichiamo qui in anteprima il testo che verrà incluso nell’edizione in vinile del disco

Diceva Sandro Portelli che la cultura americana, alta o bassa che sia, è dall’epoca di Herman Melville che si caratterizza per la precisione dei dettagli: parla a tutti e dovunque perché parla di luoghi precisi, riconoscibili. Se nomini una banca, se descrivi una nave, deve essere una banca o una nave concreta in tutti i suoi dettagli, perché solo così può diventare tutte le navi o tutte le banche. È per questo che Bruce Springsteen parla della “Johnston Company” o della “Central Trust”, non di imprese edili o di banche qualunque. Ed è per quello che da sempre le canzoni di Tim Armstrong nei Rancid sono piene di dettagli precisi dei luoghi della Bay Area. Non ci sono dei pullman, c’è “il 60” che storicamente collega l’area urbana di San Jose (e che passa per la città operaia di Campbell, dove viveva Lars Fredricksen) all’ultima fermata della BART, la metro della baia di San Francisco. C’è “il 43” che “climb up the hill” e collega Albany (dove vivevano Matt Freeman e Tim Armstrong) a Oakland e Berkeley. Le macchine sfrecciano per Sharmon Palms Lane, le prostitute camminano per Larkin Street nel quartiere di Tenderloin, i tossici si fanno nei bagni della stazione della metropolitana di Daly City a sud di San Francisco, mentre i ricchi si nascondono nel quartiere residenziale di Blackhawk, tra campi da golf e country club. E poi durante una notte in giro per la “East Bay” capita di finire in una vecchia casa in cima a una collina dove abita una nonna e da dove si può ammirare il panorama della San Francisco Bay, di Alcatraz e persino delle discariche dei rifiuti di Albany. I Rancid insomma vanno ascoltati con la cartina geografica sotto mano, altrimenti non se ne capisce nulla. Ma non si tratta tanto di costruire l’epopea di una Bay Area da invidiare da lontano o di cui decantare l’unicità (hanno cantato anche di Hoover Street o Echo Park a Los Angeles, dell’angolo tra la 52esima e Broadway a Manhattan, di Leicester Square a Londra o di Kingston e Shangai), ma di costruire la geografia sentimentale di uno spazio urbano.

 

 

Le città negli Stati Uniti non solo hanno spesso una struttura anonima e impersonale (una griglia di ascisse e ordinate, di Avenues e Streets, il cui nome è solitamente una numerazione progressiva), ma hanno anche la tendenza a cancellare continuamente le tracce del proprio passato. Il capitale non trova alcuna barriera, né da parte della società o dei lavoratori, né da parte dello spazio, che viene distrutto a piacimento qualora si debba lasciare spazio a nuove costruzioni redditizie per l’oggi. È così che la storia viene continuamente nascosta: che quello che legava quegli spazi alle persone che li hanno vissuti viene continuamente dimenticato. Riempire di storie le fermate dei pullman, le stazioni della metropolitana o gli incroci di strade anonime fatte prevalentemente per automobili (e nelle canzoni dei Rancid, si gira sempre rigorosamente a piedi o in pullman, come solo i più poveri ed emarginati fanno negli Stati Uniti) vuol dire resistere all’astrazione e al livellamento del capitale. Non è un caso che, unici tra le band rock n’ roll e punk della loro generazione, i Rancid abbiano anche riscoperto la storia operaia della loro città: e abbiano cantato di Harry Bridges, figura leggendaria del movimento operaio della Bay Area e fondatore negli anni Trenta dell’ International Longshore and Warehouse Union, il sindacato dei portuali della costa occidentale; o abbiano scritto canzoni sugli operai che hanno costruito il Golden Gate Bridge negli anni Trenta (Bridge of Gold). Così che la città di San Francisco non dimentichi la sua classe operaia blue collar, cosa particolarmente importante oggi che sotto i colpi di uno dei più violenti processi di gentrification sembra che la città sia popolata solo di imprenditori e start-upper della Silicon Valley.

 

 

E allora come mai è accaduto che una band così “locale” (per quanto possa aver avuto un successo planetario) e così legata ai propri luoghi come i Rancid possa aver coltivato l’immaginazione di una generazione di ragazzi e ragazze cresciuti negli anni Novanta e Duemila in una città di provincia dell’Italia settentrionale, distante migliaia di kilometri dalla Bay Area? Come è potuto accadere che da un pullman della Val Seriana, da una festa a Campagnola o da una piazza nella provincia di Bergamo ci si potesse identificare con una ragazza che prende un pullman nella South Bay, o con dei ragazzi di Telegraph Avenue a Berkeley? Forse proprio per quello che diceva Portelli: che per poter essere “universali” e riuscire a raccontare a tutti, è necessario essere fedelmente e efficacemente legati alla “singolarità” di un racconto particolare, dovunque esso sia: sia che si parli di una città operaia fuori San Josè, sia che si parli di una paese della bassa bergamasca (e le provincie in Italia e in America si assomigliano molto più di quello che uno potrebbe pensare). Oggi, che quelle strade della Val Seriana e della provincia di Bergamo, sono state messe in ginocchio da una delle più grandi crisi sanitarie che si siano mai avute nel mondo occidentale, sapere che quella band ha voluto darci una mano con questo disco ha il sapore di un cerchio che si chiude e di una lettera che finalmente arriva a destinazione.

 

La versione in vinile 7″ e digitale del disco può essere pre-ordinata qui e uscirà il 28 maggio 

Immagine di copertina: Wikimedia Commons