OPINIONI

La caduta degli storni. «Quindi trarrem gli auspici»

Nella notte di Capodanno a Roma sono stati ritrovati nei pressi della stazione Termini centinai di storni morti, verosimilmente spaventati dai botti e alzatisi in volo in maniera disordinata. Un presagio per il futuro? Forse un ulteriore segno che – per dirla coi Gilet Gialli – mai come ora fine del mondo e fine del mese sono la stessa cosa

Il 2021 non si è aperto proprio bene in Italia: indice di positività al 17,6% con mortalità sostenuta, campagna vaccinale ansimante, ricatti e penultimatum di Renzi al Governo. Io però, che non sono infettivologo o politologo ma semplice materialista antropologico alla Benjamin, mi soffermerò sull’inedita moria di storni con (per) i botti di Capodanno a Roma.

I romani ammirano e detestano gli storni: li ammirano quando tracciano incredibili coreografie geometriche nei tramonti autunnali, li detestano quando a sera vanno a dormire nelle aree più calde, tipo i dintorni di Termini, o sugli alberi a Prati e largo Arenula scaricando su passanti e automobili noccioli di oliva e tonnellate di guano che, oltre a sporcare, rendono scivoloso l’asfalto.

 

Comunque è sempre stato così, forse quest’anno si sono ammucchiati più a lungo per l’inconsueto tepore dicembrino, ma non è che l’inverno migrino altrove.

 

Fatto sta che i botti di Capodanno li hanno spaventati a morte, si sono levati in massa andando a sbattere contro finestre e muri, sui fili dell’alta tensione, si sono scontrati fra loro, si sono infartuati, insomma alla fine a centinaia sono piovuti giù stecchiti sull’asfalto. Mai successo a memoria mia.

La prima impressione – che spesso è quella giusta – è che questo insolito fenomeno sia uno scenario apocalittico, un segno premonitore e in qualche modo un inizio di punizione. Viene subito in mente (al di là dei precedenti mitologici e biblici) la pioggia di rane in Magnolia di P.T. Anderson o quella di elettrodomestici e telefoni in Cuori in Atlantide di Stephen King.

 

foto della pagina Facebook di Crfs Lipu Roma

 

Giornali, social e associazioni zoofile come la Lipu si sono affannati a offrire plausibili spiegazioni razionali – in primo luogo il global warming, che ha moltiplicato e sfibrato le popolazioni di storni esponendoli a choc improvvisi e selezionando gli individui più robusti a scapito dei più fragili, il prolungato lockdown, con relativa diminuzione dell’inquinamento acustico e da traffico, che li ha incoraggiati a stabilirsi nel centro urbano e sui rami più prossimi al suolo, moltiplicando così addensamento e collisioni reciproche in caso di volo improvviso, il contrasto fra il silenzio del coprifuoco notturno e i rumorosi festeggiamenti per la fine dell’annus horribilis.

Spiegoni razionali che suonano ancor più inquietanti della prima impressione emozionale. La selezione naturale degli stormi aggrediti all’improvviso da un evento esterno assomiglia parecchio all’effetto del virus sui famosi fragili con patologie pregresse con cui cinicamente esorcizziamo il bollettino quotidiano delle morti con (per) Covid.

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Che dipenda da un cambiamento del regime climatico è ancor meno tranquillizzante, associa la pioggia di uccelli ad altre calamità ambientali passate o imminenti – dal Silent Spring del 1962 sull’estinzione degli uccelli canori a causa dell’uso massiccio di Ddt e pesticidi alle previsioni su dissesti ecologici già palesemente in corso in seguito alla deforestazione o allo scioglimento dei ghiacciai. Per non parlare, tanto per restare ai volatili, delle epidemie di aviaria e allo spillover dei coronavirus dai pipistrelli (mammiferi alati) all’uomo.

L’apocalisse è già un’immagine più corroborante in quanto anestetizzata e futuribile – i quattro cavalieri e i dragoni che sorgono dal mare fanno meno paura della zoonosi e della proteina spike.

 

foto da commons.wikimedia.org

 

Ma l’apocalisse è anche un’immagine più adatta in quanto onnicomprensiva, tiene dentro storia e natura, minaccia biologica e crisi economica, collasso ecologico ed economico. E forse contiene un messaggio istruttivo sulle nostre responsabilità, sull’aver “peccato” non contro Dio, ma contro la natura, le altre specie, la nostra specie. E per il fatto che siamo tutti puniti non per i peccati di tutti, ma per l’avidità di una minoranza di sfruttatori e per la debolezza o la complicità di chi non si è ribellato per tempo o si è illuso di usufruire dello “sgocciolamento” di una ricchezza estratta in modo tanto violento dalle sue esauribili fonti.

 

La selezione naturale delle popolazioni animali e vegetali eccedenti non è certo una novità e di regola si compie attraverso la predazione di una specie verso l’altra e l’invasività di specie vegetali.

 

Vale anche per la decimazione periodica della specie umana a opera di batteri e virus che ha accompagnato per molti secoli la nostra storia e che oggi si ripresenta nelle pandemie del terzo millennio. Con il tempo e la disponibilità delle tecniche l’azione predatorie della specie umane nei riguardi degli altri animali, piante e suolo è diventata preponderante e ha di gran lunga sopravanzato il “naturale” contenimento riequilibrante, tanto più che l’uso complementare del “far morire” (il massacro di lupi, bisonti, balene, orsi, animali da pelliccia, il disboscamento sfrenato) e del “lasciar vivere” (allevamento intensivo di carne da macello e da pelliccia, monocultura agricola, land grabbing e Ogm di prima e seconda generazione) ha aggiunto ulteriori squilibri.

Non senza rilevanti conseguenze sanitarie: agli scontati effetti nocivi dell’impiego di estrogeni e antibiotici per i consumatori di carne e pesce e al fondato sospetto che gli allevamenti intensivi e la deforestazione abbiano avuto un peso determinante nello scatenamento di pandemie (dall’aviaria alla Covid-19) si somma la distruzione programmata di milioni di avicoli a cielo aperto durante l’aviaria e di milioni di visoni oggi, a indicare un’ipertrofia degli allevamenti che va ben oltre la “naturalità” della predazione umana e pone domande stringenti sull’abuso e lo spreco delle risorse globali. Altro che wet market di Wuhan!

 

Torniamo ora agli “auspici” del titolo, alla citazione foscoliana che li traeva “di qui”, cioè dai sepolcri degli uomini degni di fama, e torniamo – come in origine – al volo degli uccelli che forniva elementi per decifrare il futuro.

 

Si tratta infatti di segni premonitori, che non prendono tanto atto dei guai del presente quanto piuttosto annunciano il futuro e invitano a prendere le opportune misure per fronteggiarlo. E questo vale anche per un episodio, tutto sommato, casuale, quasi irrilevante e non legato allo sfruttamento industriale come la falcidia degli storni romani.

 

Domandiamoci allora: ma non è maledettamente arcaica questa insistenza su catastrofe e segnali apocalittici?

No, mai come ora – per dirla con i Gilets Jaunes – fine del mondo e fine del mese sono la stessa cosa. La crisi ecologica è concomitante, nella nostra specie, con la crisi economica, la minaccia di estinzione viene dalla diseguaglianza e non dalla predazione di altre specie – per quanto crescano, per colpa nostra, la resistenza dei batteri nocivi e il parassitismo dei virus. In buona sostanza, i “ristori” temporanei e i bonus frammentari con cui si cerca di rimediare alla perdita dei posti di lavoro e alla precarizzazione di quelli residui oppure alla contrazione, in parte fisiologica, della sfera dei servizi personali e del commercio sono del tutto inadeguati alle sciagure incombenti.

 

foto archivio Dinamopress

 

Lo stesso vale per i progetti parrocchiali del Recovery Plan italiota. Come, d’altra parte, la cosmetica green europea dell’estrazione di risorse serve a poco contro il cambiamento climatico e le sue già visibili conseguenze – non muore Gaia, che se ne sbatte e anzi è rinverdita durante il lockdown, e neppure i pesci, i topi, i batteri e i virus, ma il rischio è per l’homo sapiens sapiens e qualche altro primate.

 

Evocare lo scenario apocalittico e i suoi segni prognostici serve a realizzare la serietà della situazione e quindi delle misure da prendere, dei cambiamenti strutturali e non episodici che di colpo passano dal piano dell’ideologia a quello della prassi urgente.

 

La catastrofe e il rimbalzo del senso di conservazione ha reso rapidamente comprensibile quanto prima era fumoso e controverso – pensiamo alla percezione di massa dell’assurdità del taglio della spesa sanitaria e del declino pianificato degli ospedali e delle strutture di prossimità (parliamo di percezione, non ancora di restauro o miglioramento dello stato precedente). Lo stesso potrebbe valere per altri prodotti del neoliberalismo selvaggio degli scorsi decenni, in primo luogo per il lavoro deregolamentato e informale, la prima vittima della pandemia. Ma la pioggia di bonus e sussidi (non di storni infartuati) ha sdoganato l’idea (non ancora l’attuazione) di un reddito universale e incondizionato di cittadinanza quale argine unitario al vorticoso sconvolgimento del mercato del lavoro.

La versione estrema neoliberale del capitalismo ne svela appieno la necrostruttura nel momento del disastro. Difficile non proiettare su quello schermo ogni iniziativa attuale d’emergenza, legittimo confrontare la miseria delle baruffe su rimpasto di governo e Mes alla complessità dei problemi in arrivo. Una coalizione politica asfittica, incapace di abrogare in toto i decreti Salvini, di concedere lo ius soli e di introdurre un reddito generalizzato di emergenza, non ha futuro. E non cambia nulla che i sondaggi al momento indichino come alternativa un blocco di destra ancor più nefasto.

 

Anche se ci auguriamo – senza troppo crederci – che la vaccinazione debelli questo coronavirus entro il 2021 e la crisi non si risolva in guerre su scala più estesa di quella attuale, nel frattempo saranno scattati licenziamenti e sfratti e si constaterà che buona parte degli esercizi commerciali restano chiusi, che il grande indotto cittadino del lavoro impiegatizio è spento e i flussi turistici inariditi.

 

Il popolo dei “vulnerabili” se ne starà buono e rassegnato, accettando qualsiasi livello salariale pur di aver un salario, venerando l’autorità della legge e la sacertà della proprietà privata, si butterà a destra o sinistra (verso i due rispettivi estremi), esaurito il cittadinismo M5s e un centrismo sfibrato? Anche il ricatto del debito (che pure sarà condizionante per il sistema governamentale e bancario) funzionerà molto meno sui movimenti dell’opinione pubblica, che ha visto come nell’emergenza si sia fatto un ricorso disinvolto allo sforamento obliando tutta la retorica austeritaria di un tempo.

Chiediamo agli storni, storicamente più affidabili di sondaggi, opinionisti, influencer e salvatori della Patria. Quindi trarrem gli auspici.

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Immagine di copertina di Greg Seed da Pixbay