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CULT

It’s Five O’Clock Somewhere

Classe, ideologia e identità nel country e nell’hiphop americano contemporaneo. Presentazione a ESC del nuovo numero di Ácoma. Rivista internazionale di Studi Nordamericani dedicato a “Popular music, identità e classe”. Con Sandro Portelli, Pietro Bianchi, Paolo Barcella e Michele Dal Lago.

A seguire alle ore 21 verrà presentato lo spettacolo Trump Voters, un concerto-lezione sul declino industriale degli Stati Uniti raccontato attraverso la popular music americana (a cura di Michele Dal Lago, Giusi Pesenti e Paolo Barcella).

The sun is hot and that old clock is moving slow
And so am I
Work day passes like molasses in wintertime
But it’s July
I’m getting paid by the hour, and older by the minute
My boss just pushed me over the limit
I’d like to call him something
I think I’ll just call it a day

Pour me something tall and strong
Make it a “Hurricane” before I go insane
It’s only half-past twelve but I don’t care
It’s five o’clock somewhere

Oh, this lunch break is gonna take all afternoon
An’ half the night
Tomorrow morning, I know there’ll be hell to pay
Hey, but that’s all right
I ain’t had a day off now in over a year
Our Jamaican vacation’s gonna start right here
Hit the ‘phones for me
You can tell ’em I just sailed away

(Alan Jackson, It’s Five O’Clock Somewhere)

It’s Five O’Clock Somewhere è stato probabilmente il brano country più famoso dell’estate del 2003. Rimasto per ben otto settimane in testa alla classifica Hot Country Songs di Billboard, è una delle tipiche espressioni del successo commerciale di Nashville, con una produzione accattivante e un ritornello impossibile da dimenticare. Ha addirittura conquistato il terzo posto nella classifica delle canzoni country più popolari del decennio.

Il videoclip della canzone ci mostra la quintessenza del disimpegno vacanziero: mare caraibico, barche, ragazze in bikini e un bar dove si dispensano generosi cocktail. Tuttavia se andiamo a leggere il testo, facciamo una scoperta abbastanza stupefacente. Scritto da Jim “Moose” Brown e Don Rollins ma portato al successo da Alan Jackson, superstar della country music da ormai più di trent’anni, il brano inizia descrivendo la noia di una tipica giornata di lavoro in cui il tempo scorre piano (“that old clock is movin’ slow/ And so am I”) e in cui si ha l’impressione di buttare via la propria vita. Il verso “Vengo pagato a ore, ma invecchio ogni minuto” (“I’m gettin’ paid by the hour/ and older by the minute”) ci fa capire che si sta parlando di un preciso soggetto sociale, un lavoratore salariato.

La presenza del padrone sembra però, in quella giornata, più insopportabile del solito (“My boss just pushed me over the limit”), tanto che il protagonista vorrebbe mandarlo a quel paese (“I’d like to call him something”): non lo fa, ma decide piuttosto di prendere e andarsene, per finire la sua giornata (“I think I’ll just call it a day”).

It’s Five O’Clock Somewhere non racconta l’esperienza concreta di un conflitto sul luogo di lavoro, ma della fantasia di un atto insubordinazione: il protagonista immagina di andare a fare una pausa pranzo (“It’s only half-past twelve”) e di non tornare più al lavoro: “ma chi se ne importa” – ci dice – tanto da qualche parte nel mondo (magari proprio ai Caraibi, dove lui vorrebbe essere) sono già le cinque (“I don’t care It’s five o’clock somewhere”), e quindi il turno è finito e posso andarmene a casa. L’idea di immaginarsi di essere altrove, lontano dal proprio lavoro, dove il ritmo della propria giornata è scandito non dal tempo di lavoro ma dal proprio piacere, ci dà la misura dell’implicito retrogusto politico del brano, che tuttavia rimane tra le righe, senza apparire in primo piano, nascosto magari dalle immagini di un video d’evasione.

Tuttavia l’ambiguità viene mantenuta fino all’ultima strofa, che si chiude con una interrogazione: cosa faccio ora che sono qui in pausa pranzo? Pago il conto e torno al lavoro (e quindi faccio in modo che questa fantasia caraibica sia stata solo un sogno)? Oppure me ne vado davvero, mando a quel paese il mio padrone e vado a farmi un bel cocktail in Jamaica? L’ambiguità non viene sciolta, perché questa canzone, come spesso accade nella popular music commerciale, descrive una formazione di compromesso, che parla non di antagonismi già declinati in forma compiuta nella società, bensì di una loro possibilità. O meglio, del loro manifestarsi in un terreno immaginario.

1.

“Se l’America, sotto un certo aspetto, è veramente un fatto costantemente ricreato dalla fantasia europea, non è tuttavia soltanto, né soprattutto, questo” scriveva Leslie A. Fielder nelle prime righe del suo famoso saggio sul romanzo americano.[1] Capita spesso che turisti europei decidano di intraprendere lunghi viaggi in automobile attraverso il Sud degli Stati Uniti, inseguendo quello specifico immaginario iconico, romantico e a tratti decadente, che il cinema indipendente ha costruito negli ultimi trent’anni. Queste produzioni cinematografiche hanno fatto ampio ricorso al potere suggestivo di alcuni generi musicali – blues rurale, hillbilly music degli anni Cinquanta e Sessanta, alternative country contemporaneo – identificati con l’America autentica e popolare, o meglio, con quell’insieme di proiezioni estetizzanti che si nasconde spesso dietro l’espressione “provincia americana”.

Tuttavia, poco dopo aver lasciato il parcheggio del car rental, è proprio la musica che proviene dall’autoradio a introdurre la prima crepa nel suddetto immaginario. Il turista, dopo aver scorso inutilmente l’intero spettro della banda radio FM alla ricerca di Hank Williams, Robert Johnson o Muddy Waters, si rende presto conto che la musica trasmessa dalle radio americane è profondamente diversa dalla colonna sonora che aveva immaginato per il suo roadtrip. Al contrario, lo zapping radiofonico ha un effetto straniante, alternando senza soluzione di continuità rime hiphop, versi in lingua spagnola e infuocati dibattiti religiosi, inframezzati da canzoni pop country che raccontano di chiese, soldati, trucks e di quanto è bello vivere in una small town.

Se si escludono il classic rock e il pop da classifica, infatti, i generi musicali maggiormente diffusi dalle radio statunitensi sono hiphop, pop country e norteño. Si tratta di tre generi legati a gruppi sociali specifici, che seguono le linee di divisione dettate dai processi di razzializzazione su cui si fonda la riproduzione della classe operaia americana. Tre generi in cui l’affermazione identitaria è molto marcata, nonostante appartengano al consumo mainstream della popular music.[2]

Normalmente si è portati a pensare che la popular music compia innanzitutto un’opera di dissimulazione dei rapporti sociali, che sia uno strumento per renderli opachi o incomprensibili. Chiuse nella sfera della circolazione delle merci, le produzioni della grandi major discografiche si ridurrebbero a un’opera di “mercificazione” dell’espressione musicale popolare, in cui gli antagonismi che attraversano la società sono costantemente mistificati nella retorica individualista, nel minimalismo romantico o nel senso comune dell’arrivismo sociale.

Al contrario, la nostra convinzione è che un’analisi puntuale delle forme espressive della popular music americana contemporanea ci consegni un panorama ben più problematico e sfrangiato, in cui i sintomi del sociale non vengono nascosti ma semmai subiscono una trasfigurazione nel testo ideologico musicale, che deve dunque essere analizzato secondo il principio dell’analisi sintomatica e non del rispecchiamento.

La popular music funziona come forma di mediazione ideologica di un’appartenenza di classe: come un meccanismo attraverso cui la classe lavoratrice americana auto-rappresenta e auto-comprende (e nello stesso tempo trasfigura) la posizione che occupa nella società. I rapporti di classe non esistono in forma immediatamente intelligibile: i soggetti sociali se li devono rappresentare, e nel farlo li traducono in una forma simbolica che trasfigura, capovolge – ma nello stesso tempo rende anche mediatamente comprensibile – gli antagonismi che attraversano il sociale. Sulla scia di Althusser si potrebbe sostenere che il testo ideologico della popular music contemporanea non sia una “falsa coscienza”, bensì una rappresentazione inconscia del modo attraverso cui un’appartenenza di classe appare nell’immaginario sociale:

“A dire il vero, l’ideologia ha ben poco a che vedere con la “coscienza”, supposto che questo termine abbia un significato univoco. Essa è invece profondamente inconscia, anche quando si presenta (come nella «filosofia» premarxista) in una forma elaborata. L’ideologia è sì un sistema di rappresentazioni, ma queste rappresentazioni non hanno il più delle volte nulla a che vedere con la “coscienza”: per lo più sono immagini, a volte anche concetti, ma soprattutto sono strutture, e come tali si impongono alla stragrande maggioranza degli uomini senza passare attraverso la loro “coscienza”. Sono oggetti culturali percepiti-accettati-subiti che agiscono sugli uomini attraverso un processo che sfugge loro. Gli uomini “vivono” la loro ideologia come il cartesiano “vedeva” o non vedeva – se non la fissava – la luna a duecento passi: niente affatto come una forma di coscienza, bensì come un oggetto del loro “mondo”, come il loro “mondo” stesso.”[3]

La lettura sintomale di questi repertori permette di evidenziare, ad esempio, come l’esperienza della subordinazione economica emerga frequentemente, nel testo ideologico, sotto forma di vissuto di squalificazione (anche esistenziale), che suscita reazioni spesso drastiche ma quasi sempre soggettive e, in ultima istanza, autodistruttive, tanto sul piano individuale quanto su quello sociale. “La coscienza di classe dei lavoratori” scrive Anthony Giddens “non può essere adeguatamente compresa come semplice riflesso del sistema complessivo dei rapporti di classe. Deve essere piuttosto rintracciata proprio nella lotta per evitare tale assorbimento, per mantenere un senso di libertà e dignità in contesti dove queste ultime minacciano di scomparire”.[4]

2.

Si prenda ad esempio la poverty pride, la rivendicazione “etica” della propria condizione di povertà. La country music raramente offre canzoni sul sogno americano di mobilità verticale. Al contrario, lamenta l’impossibilità di qualunque ascesa sociale nonostante il duro lavoro. Troviamo spesso l’esperienza soggettiva dello sfruttamento, della durezza e dell’ineluttabilità della propria condizione. Molte canzoni sembrano riconoscere apertamente il carattere esogeno dei fattori che determinano la condizione sociale dei loro protagonisti. “A Working Man Can’t Get Nowhere Today”, cantava Merle Haggard nel 1977.

Allo stesso tempo, rimarcando continuamente la propria appartenenza al mondo operaio, la poetica di questo genere musicale entra continuamente in contraddizione con quel processo culturale e politico che l’antropologa Sherry Ortner ha definito “the middle-classing of (white) America”, vale a dire la gigantesca operazione ideologica di occultamento delle differenze di classe che ha cancellato la classe operaia dal discorso pubblico nazionale, inducendo i lavoratori a identificarsi con gli usi e i costumi di una immaginaria, onnicomprensiva classe media.

Tuttavia, se da un lato la country music porta alla luce quelle che, in un famoso saggio dei primi anni settanta, Sennett e Cobb chiamavano “The Hidden Injuries Of Class”, le ferite di classe nascoste, dall’altro tende ad esprimerle in modo prepolitico, soggettivo. Scrive Nadine Hubbs:

“I sentimenti antiborghesi nella country music appaiono nel racconto aneddotico di capireparto che soffiano sul collo del lavoratore, o che lo giudicano inadeguato o fuoriposto. Questi aneddoti esprimono una protesta contro la posizione della classe operaia all’interno delle strutture socioeconomiche del potere e del valore. Nella country music questa protesta non si utilizza il linguaggio della politica o dell’attivismo, ma si esprime attraverso storie individuali di vita quotidiana, enfatizzandone la dimensione emotiva.”.[5]

La reazione all’umiliazione è quasi sempre un moto di orgoglio, di rivendicazione della dignità e del valore della propria condizione e del proprio stile di vita, quasi fosse un scelta e non una necessità. Ma l’insistente affermazione della dignità del lavoro operaio e dello stile di vita a esso connesso ne segnala innanzitutto l’assenza o la precarietà. Il risentimento viene trasferito sul piano identitario e culturale, sviluppandosi lungo linee di contrapposizione che non riflettono, se non in modo molto parziale e mediato, gli antagonismi economici immanenti.

Nasce così l’esaltazione del redneck o del lavoratore americano rank and file, contrapposto non alla classe dirigente, bensì alle élites culturali. È questa una delle ragioni della frequente incomprensione del vissuto di classe raccontato dalla country music da parte delle forze progressiste statunitensi che, dagli anni Ottanta in avanti, hanno spesso abdicato alla loro funzione di rappresentanza della classe operaia bianca, liquidando le formazioni di compromesso, citate poc’anzi, come irredimibili pulsioni reazionarie. Si tratta di un equivoco culturale e politico che ha condizionato, in alcuni frangenti, le scelte elettorali delle classe operaia americana.

Il risentimento nei confronti dei colletti bianchi, delle persone istruite, della sinistra – per quanto politicamente deleterio – nasce anch’esso dall’esperienza materiale dello sfruttamento unita a quella culturale dell’umiliazione. Alla fine degli anni Novanta il sociologo Thomas J. Gorman ha condotto una lunga ricerca qualitativa, intervistando membri della classe operaia e colletti bianchi al fine di comprendere come si percepiscano reciprocamente. “La classe operaia statunitense”, scrive Gorman, “non avrà coscienza di classe in senso marxiano, ma sicuramente mostra una profonda comprensione delle disuguaglianze […] E, nel lottare per conquistare un senso e una dignità, accumula frustrazione, rabbia e amarezza che la conducono a denigrare il lavoro intellettuale e a esaltare quello manuale”.[6]

Un lavoro manuale che si è sempre più dequalificato e terziarizzato negli ultimi decenni, caratterizzati da un grande processo di deindustrializzazione, accompagnato dalla stagnazione dei salari. Una trasformazione registrata anche dalle canzoni country contemporanee, dove il lavoro appare sempre più generico e povero, nel suo contenuto come nella sua retribuzione. Un esempio per tutti è rappresentato da Shift Work, la hit pop country del 2007 di Kenny Chesley:

Ascoltando il brano si coglie immediatamente il gioco di parole. Chesney pronuncia shift work (lavoro a turni) di modo che possa suonare come shit work (lavoro di merda).

Se si vuole comprendere l’esperienza di classe del proletariato bianco statunitense, e le sue contraddizioni, è necessario dunque superare l’ilarità che un videoclip e una canzone del genere possono suscitare, osservando piuttosto come la rappresentazione del mondo del lavoro, a differenza di ogni altro genere pop contemporaneo, continui ad essere presente nelle classifiche della country music.

La musica hip hop invece – uno dei più grandi incubatori di rappresentazioni sociali dell’America contemporanea – non sembra fare molti riferimenti espliciti al lavoro.[7] È senz’altro una conseguenza diretta delle altissime percentuali di disoccupazione rilevabili nelle comunità afro-americane, soprattutto se confrontate con quelle di altri settori della classe lavoratrice americana.[8] Là dove i lavori blue collar delle industrie manifatturiere sono pochi, si sono diffusi maggiormente quelli spesso dequalificati nel settore dei servizi; tuttavia, è soprattutto il grande mondo dell’economia informale e della criminalità, la cui epica è l’alfabeto di molte produzioni hip hop contemporanee, a impiegare molti giovani afroamericani.

Qui la dimensione di classe – o, più precisamente, l’impressionante mancanza di mobilità sociale che ancora caratterizza questa comunità – emerge nelle formazioni inconsce del testo ideologico, con fantasmi di compensazione simbolica, come si vede nell’onnipresente riferimento al denaro, spesso guadagnato in modo illegale: la sua presenza è comunque contingente e destinata a scomparire in modo improvviso, senza produrre alcuna forma di emancipazione sociale.

Lo cantano i Migos, trio rap di Atlanta, nelle prime rime del loro successo Bad and Boujee,[9]quando dicono “You know so we ain’t really never had no old money” (Non veniamo da una famiglia ricca [10]), contrapponendo la loro ricchezza, guadagnata con attività illegali, a quella delle famiglie che hanno soldi da generazioni. Ma il ghetto è qualcosa da cui è impossibile emanciparsi, nemmeno con i soldi, come dice il rapper della Florida Ace Hood in Cold Blooded Murder:[11] puoi togliermi dal ghetto, ma non puoi togliermi il ghetto di dosso (“You can take a nigga out the ghetto, but you can’t take the ghetto out of me”). In Kendrick Lamar lo stigma della propria condizione sociale ce lo si porta dietro persino nel proprio odore (“Basketball shorts with the Gonzales Park odor”, vestiti con pantaloncini da basket con l’odore del Gonzalez Park,  dice in The Art of Peer Pressure[12]) o nella propria marca del telefono quando ci si avventura in un quartiere diverso dal proprio (“Good Lord, they knew we weren’t from ‘round there/ ‘Cause every time we down there/ We pullin’ out the Boost Mobile SIM cards”, sapevano che non eravamo di qua/ ogni volta che tiravamo fuori i nostri cellulari con le SIM card della Boost).

In Low Life,[13]Future – ormai affermato artista con grandi disponibilità di denaro – racconta di una notte in una stanza d’albergo di lusso dove tutto improvvisamente, come in un incubo, torna ad essere come se si fosse ancora in una baracca del ghetto (“I turn the Ritz into a poor house”, ho trasformato il Ritz Hotel in una casa di poveracci) e la stanza diventa uno strip club, con addirittura gli scarafaggi che camminano per terra (“Turn a five star hotel to a traphouse/ Roaches everywhere, like we forgot to take the trash out”, abbiamo fatto di un Hotel 5 stelle una traphouse/ ci sono scarafaggi [14] ovunque, come se ci fossimo dimenticati di portare fuori la spazzatura).

La mancanza di un domani (come dice Rick Ross in Foreclosures “We spend it all, nothing for our children”, spendiamo tutto e non lasciamo niente ai nostri figli) è infatti uno dei temi più ricorrenti di queste canzoni. Perché se è vero che non si deve fare l’errore di scambiare gli elementi descrittivi per un commentario sociale sulla vita quotidiana del sottoproletariato nero [15] (sebbene non manchino diversi elementi interessanti anche in questo senso), quello che però emerge da questo sottogenere di hip hop è la descrizione di un “universo simbolico”, o per meglio dire di un “inconscio politico”, anche e soprattutto attraverso non detti e figure retoriche.

In narrazioni di parziale successo personale dove regna un’esibizione ostinata di un ego ipertrofico emerge, quasi tra le righe, il fatto che per via della propria identità razziale o di classe indipendentemente da quanto in alto si sia stati in grado di arrivare con la propria musica, incombe spesso il pericolo di un imminente declino.

Lo canta 2 Chainz in Fork “I had a dream that rap wouldn’t work/ I woke up on the block, had to hit it with the fork./ Rap don’t work, records ain’t bein’ sold” [16] (“Ho avuto l’incubo che la mia musica non vendesse più. Mi sono svegliato nel quartiere e mi dovevo rimettere a cuocere la cocaina. Il rap non funzionava più, i dischi non si vendevano più”) o in Ghetto Dreams “My ghetto dreams always turn to ghetto nightmares” [17] (“I miei sogni sul ghetto si tramutano sempre in incubi”).

E lo stesso dice anche Lil Wayne in una delle sue canzoni di maggior successo, John, [18] dove si immagina la sua morte imminente: “If I die today, remember me like John Lennon” (“se muoio oggi, ricordatemi come John Lennon”). Ma uno degli esempi più riusciti è Bankrupt [19] di Ab-Soul, una canzone interamente costruita sull’incubo di un’improvvisa condizione di povertà.

When the chips are down, the funds are low

And nobody’s around to pull you out of this hole

Can you hold your own?

If you ain’t got a dollar to your name can you maintain?

Can you hold your own when the going gets tough?

 

Quando il gioco gira male, e i soldi sono pochi

E non c’è nessuno in giro che ti tiri fuori da questo buco

Ce la fai a reggere?

Ce la fai a mantenerti senza nemmeno un dollaro in tasca?

Ce la fai a reggere quando il gioco si fa duro?

La paura di un fallimento o il fatto che la propria fast life fatta di consumi autodistruttivi potrebbe finire da un momento all’altro non viene però imputata alla realtà delle condizioni materiali. Le mancanze di possibilità economiche emergono di solito in modo rovesciato nella forma del nichilismo dei continui riferimenti alla droghe, alla compulsività del sesso, alla violenza fine a se stessa. È un cantico dell’autodistruttività quello che vediamo nell’hip hop americano contemporaneo, soprattutto negli artisti che provengono dalle grandi città del Sud, dove le drammatiche condizioni di povertà, disoccupazione e accesso alla salute si intrecciano alla persistente eredità della schiavitù.

Qui l’immaginario paranoico di una vita perennemente sulla soglia della morte trova in Gucci Mane, uno degli storici rapper della scena trap di Atlanta, una delle massime espressioni. In Dance With the Devil [20] racconta una vita fatta di attività criminali, droghe e sessualità compulsiva, quasi si trovasse in un eterno flirt col diavolo: come nel verso “Took a chance and fucked the hood hoe, no condom”, dove si fa cenno al sesso non protetto – un topos che ritorna in moltissime canzoni dell’hip hop contemporaneo e che corrisponde perfettamente alle più alte percentuali di gravidanze giovanili e malattie sessualmente trasmissibili nei quartieri a maggioranza black.

È importante rilevare l’aspetto propriamente pulsionale di queste pratiche autodistruttive, quasi che il soggetto fosse dipendente da qualcosa che lo distrugge al di là dalla sua volontà. Rick Ross lo sottolinea in Smile, Mama Smile [21] una canzone dove racconta la degenza ospedaliera dopo una overdose da sciroppo alla codeina; e non appena riprende conoscenza, gli appare sua madre accanto al letto che gli chiede di smettere con la prometazina (“I went unconscious, I woke up to see my mama smile/ She told me no more promethazine, that’ll make her proud/ Think about it, damn I had to think about it/ Gimme a second, mama, lemme think about it”, ho perso conoscenza e quando mi sono svegliato ho visto mia madre che sorrideva/ mi ha detto promettimi che da ora in poi smetterai con la prometazina, questo mi farebbe felice./ Ho dovuto pensarci, ho dovuto pensarci/ Le ho detto ‘aspetta un secondo mamma, fammici pensare’).

La canzone gioca con il paradosso che persino in una situazione limite, come quella di un overdose dove si è tra la vita e la morte, l’idea di smettere con le droghe pare impossibile.

Le contrapposizione identitarie dei rednecks, così come l’esaltazione nichilista della pulsione di morte da parte dei rapper del Sud, maturano in un’atmosfera di depoliticizzazione, negli anni della controrivoluzione neoliberale, della disarticolazione del movimento sindacale e della crescente polarizzazione della ricchezza negli Stati Uniti.

Bisogna dunque saper guardare alle forme simboliche della classe indipendentemente dalla loro capacità di legarsi direttamente a un progetto politico di trasformazione – questione essenziale e quanto mai urgente ma che non può che articolarsi attorno a problemi e priorità differenti. Oggi più che mai è necessario leggere i conflitti di classe anche là dove sembrerebbero non esserci (o essere egemonizzati dall’estrema destra populista, da un lato, o dall’epica criminale, dall’altro), analizzando innanzitutto la straordinaria varietà di forme espressive mediante le quali la classe lavoratrice, in senso lato, continua a rimarcare una propria identità specifica e parziale in rapporto al resto della società.

 

[1] Leslie Fielder, Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano, 1963, p. 22.

[2] Per ragioni di spazio, svilupperemo in questo testo solo una riflessione su country e hiphop. Rimandiamo per un’analisi della musica norteña come rappresentazione della classe lavoratrice americana di origine messicana a José Juan Olvera Gudiño, “Le dimensioni del suono. Musica, frontiera e identità” e Elijah Wald, “Ángel González: il padre di Camelia” entrambi inclusi in Ácoma. Rivista internazionale di Studi Nordamericani, n. 12, Primavera 2017, anno XXIV, reperibili online.

[3] Louis Althusser, Per Marx, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 208.

[4] Anthony Giddens, «Introduction», in, Richard Sennett e Jonathan Cobb, The Hidden Injuries Of Class, Knopf, New York, 1972, p. 15.

[5] Nadine Hubbs, Rednecks, Queers, and Country Music, University of California Press, Berkeley, 2014, p. 160.

[6] Thomas J. Gorman, “Cross-Class Perceptions of Social Class”, Sociological Spectrum 20, 1 (2000), p. 98.

[7] Anche se vi sono alcune importanti eccezioni, come Rock Bottom di Eminem (“My life is full of empty promises and broken dreams/ I’m hopin’ things look up, but there ain’t no job openings/ I feel discouraged, hungry and malnourished/ Livin’ in this house with no furnace, unfurnished/ And I’m sick of workin’ dead-end jobs with lame pay/ And I’m tired of being hired and fired the same day”). Eminem, “Rock Bottom” in The Slim Shady LP, Aftermath/Interscope Records 1998, Digital Download.

[8] Si veda il sito web del Bureau of Labor Statistics, in particolare https://www.bls.gov/cps/tables.htm#empstat .

[9] Migos (featuring Lil Uzi Vert), Bad and Boujee (singolo), Quality Control Music 2016, Digital Download.

[10] È pressoché impossibile tradurre letteralmente una canzone hip hop che per condensazione, uso di un registro linguistico informale e “di strada” (il cosiddetto slang) e continui salti tra un verso e un altro non può essere resa linearmente in italiano. Evitando di concentrarci sugli aspetti formali, abbiamo optato più che per una vera e propria traduzione per una “parafrasi in italiano” in modo da mantenere il senso delle espressioni.

[11] Ace Hood, “Cold Blooded Murder” in Starvation 4, Dude Music 2016, Digital Download.

[12] Kendrick Lamar, “The Art of Peer Pressure” in good kid, m.A.A.d city, TDE/Aftermath/Interscope 2012, Digital Download.

[13]Future (featuring The Weeknd), “Low Life” in EVOL, Freebandz/Epic 2016, Digital Download.

[14] Future gioca qui sul doppio senso della parola roaches: che vuol dire scarafaggi ma è anche un termine slang che sta a indicare il mozzicone di un blunt, un sigaro svuotato e riempito di marijuana.

[15] Genere che per altro ha una nobile e importante tradizione nell’hip hop contemporaneo, come mostrano gli album: Nas, Illamtic, Columbia Records 1994, Digital Download; o Kendrick Lamar, Good Kid, M.A.A.D City, Top Dawg Entertainment/Aftermath /Interscope Records 2012, Digital Download.

[16] 2 Chainz, “Fork” in B.O.A.T.S. II: Me Time, Def Jam Recordings 2013, Digital Download.

[17] 2 Chainz (featuring Scarface  & John Legend), “Ghetto Dreams” in Based on a T.R.U. Story, Def Jam Recordings 2012, Digital Download.

[18] Lil Wayne (featuring Rick Ross), “John” in Tha Carter IV, Cash Money/Young Money/Universal 2011, Digital Download.

[19] Ab-Soul, “Bankrupt” in Longterm 2: Lifestyles of the Broke and Almost Famous, Top Dawg Entertainment 2010, Digital Download.

[20] Gucci Mane, “Dance With the Devil” in Droptopwop, Atlantic 2017, Digital Download.

[21] Rick Ross (featuring CeeLo Green), “Smile Mama, Smile” in Black Market, Def Jam Recordings 2015, Digital Download.

 

*Tratto da Le parole e le cose