DIRITTI

I senza storia

Le grandi tragedie collettive – i lager nazisti o i naufragi nel Mediterraneo – destano assuefazione più che compartecipazione. A volte sono i dettagli che suscitano empatia per familiarità: gli “effetti personali” rompono la serialità anonima degli ammassi di cadaveri

Da anni il Mediterraneo è attraversato da ondate migratorie che hanno spesso esiti tragici. Gli scarni racconti dei sopravvissuti sono molto simili e spingono il pensiero verso un’unica immagine: i cadaveri che si depositano sul fondo marino e quelli che, mutilati, decomposti, affiorano alla vista o nelle reti dei pescatori. Dove intervengono variazioni, è perché i fatti si presentano particolarmente macabri, come nel caso della barca di somali recuperata a 50 miglia da Lampedusa il 19 ottobre 2003, con un ammasso di corpi, alcuni dei quali già morti e trasformati in coperte per i vivi. (E in questi giorni i morti lasciati senza sepoltura perché nella nave mancavano le celle frigorifere e i porti per uno sbarco erano chiusi).

La generalizzazione di un fenomeno agisce sempre allo stesso modo: sottrae il contesto che lo renderebbe riconoscibile a molti, per farne una spoglia, in tutto simile ad altre, di cui ci si può liberare facilmente. I poveri, quando sono per di più stranieri e migranti non autorizzati, perdono ogni legame di appartenenza a luoghi, culture, famiglie; diventano numeri, tratti somatici o un vuoto a perdere, quando, come capita spesso nella traversata del mare e del deserto, i corpi non si trovano ed entrano nel conto approssimativo delle vittime.

A tracciare un’identità astratta sulla “nuda vita” sono le carte burocratiche. Il visto, proposto dai governi europei, contenente i “dati biometrici” del migrante (iride, impronte digitali, dna), parla lo stesso linguaggio di quei “passaporti” per l’inumazione che sono contenuti nei verbali dell’ufficio civile: una carta di riconoscimento riportata a quel limite estremo che è il sostrato biologico di ogni vivente.

A ridare famigliarità di tratti a persone ridotte alla pura corporeità, non bastano evidentemente i racconti dei superstiti, e nemmeno le informazioni con cui i cronisti tentano di dare una cornice plausibile all’orrore. È stata sufficiente invece una foto, che riprendeva gli “effetti personali” trovati in una barca dei sopravvissuti, per lo più fotografie di famigliari, per dimostrare che la storia può aprirsi strade insospettabili proprio là dove si immaginava di custodire intimità e ricordi strettamente personali.

Sono stati i volti, i gesti, gli sguardi di figli, mariti, madri, a ricostruire, alle spalle di tante morti anonime, una “normalità” in cui molti hanno potuto riconoscersi, e non tanto per il paesaggio occidentale che faceva da sfondo alla messa in posa, quanto per i sogni, gli affetti, le speranze che parlavano attraverso quelle immagini. Dai messaggi inviati a una trasmissione radiofonica, si è capito che sentimenti più adeguati di un passeggero sgomento passano per processi di identificazione, scoperta di somiglianze e confronti.

L’”estraneità” si incrina quando compaiono “vite vere”, con un prima e un dopo, legami affettivi che non spariscono con la morte. Sorprendentemente, più che dai manuali di storia, è dagli “effetti personali”, che sembrano poter prendere corpo le vicende che accomunano la famiglia umana.