POTERI

I giorni dello scolapasta

Scolapasta in testa e giubbotto in kevlar, mica il chiodo renziano, Letta va alla guerra

La campagna delle destre per restituire agibilità politica a Berlusconi è bizzarra, oltre che ossessiva. Se ne parla come se tale qualità fosse oggetto di concessione o contrattazione, dimenticando, che so, che Lenin l’aveva a pieno titolo nella sua capanna finlandese nel 1917 e che purtroppo D’Alema e Veltroni ne fanno cattivo uso standosene fuori del Parlamento.

Il vero problema è l’incandidabilità, cioè la difficoltà a presentarsi con nome e cognome in una campagna elettorale personalizzata e a tenere insieme il pittoresco zoo dei suoi colonnelli. Il vittimismo infuriato genera un pressing indecente sulla sinistra che, a sua volta, si erige in pose monumentali sulla sponda della legalità, con la grottesca immagine di Enrico Letta in trincea a Kabul, scolapasta in testa e giubbotto di kevlar antiproiettile. Scolapasta, ma in un giorno inopportuno, quando le sue comiche promesse di restare per molti anni a fianco del disgraziato Afghanistan (come se non bastassero i talebani) acquistano un senso ben più minaccioso alla vigilia di un probabile attacco Nato alla Siria, dove il buon nipote di Gianni dovrebbe emulare gli spiriti guerreschi di D’Alema ai tempi dell’aggressione al Kosovo. L’Enrico catafratto sarebbe il braccio armato di Napolitano, in una riedizione (molto, molto più complicata) della campagna libica. Sia il ruolo di alleato volenteroso sia quello più prudente e probabile di benevolo spettatore (cui spingono i berlusconiani filo-putiniani) allontanano oggettivamente la crisi di governo e per essi Letta appare molto più attrezzato e internazionalmente accredito del provinciale Renzi.

Questo tanto per capire che non è affatto automatico e indolore fare il tifo per una delle due parti che si azzuffano in nome dei supremi valori della Repubblica. L’enfasi portata sull’opposizione fra il destino privato di un condannato nonché pluri-inquisito e la santità della legge nelle sue procedure ermellinate sposta vistosamente l’epicentro del dibattito su questioni lontane dalla crisi e dal drammatico impoverimento di massa: l’irrompere dei venti di guerra la rende ancor più imbarazzante. Neppure è ovvio sposare gli argomenti che vengono portati a sostegno del primato della legalità: il rispetto delle sentenze, la terzietà del giudice, la tutela dei valori civici. Come se nessuno dei lettori avesse fatto esperienza di tribunali e giudizi. Va da sé.

Un punto particolare è però il discorso sull’amnistia, propugnata come funzionale svuotacarceri dagli addetti al settore, dai radicali e da chi vuole evitare multe spaventose all’Italia da parte della Comunità europea a partire dall’anno prossimo, richiesta dal movimento come sanatoria dei reati politici e sociali perseguiti da Genova a oggi o addirittura come estinzione del vecchio contenzioso degli anni di piombo. Naturalmente invocata anche dai famuli di Berlusconi, anche se ben poco rilevante nel medio periodo vista la sequela di processi pendenti e la non meccanica estensione alle pene accessorie. Motivazioni ben diverse, dunque, e in ogni caso da integrare con una politica complessiva di depenalizzazione generica e di reati specifici (dalla clandestinità al consumo di droghe), ma che sono mal contrastabili con argomenti razionali. Cui, anzi, ci si oppone con l’argomento principe irrazionale: la paura delle devianza, il tutti dentro e buttiamo via la chiave. Lo scolapaste di Enrico, incoraggiato con coro unanime da Repubblica, il Fatto e Micromega, per non parlare di Sel e Asor Rosa, serve anche per sbarrare la strada al crimine in agguato e all’esondare di clandestini, drogati, ladri e stupratori oggi rinserrati nelle confortevole celle.

Non solo quel punto particolare –l’amnistia– deve continuare ad essere centrale nella piattaforma dei movimenti, a prescindere dai (limitati) effetti che essa avrebbe sulla domiciliazione coatta di un vecchio pagliaccio, ma più in generale occorre riflettere criticamente sul ruolo della tematica giudiziaria per la sinistra in senso lato. Dando per scontato che la presenza di magistrati alla testa di formazioni politiche, vedi Di Pietro e Ingroia, porta sfiga –minimo! Lasciamo perdere la dottrina, cioè che la giustizia è una categoria di classe e dipende dai rapporti fra le classi, che il diritto è una formazione pragmatica e non trascendentale né naturale. Prendiamo la situazione concreta italiana, le vicende dal 1992 a oggi. Già allora il ricorso ai giudici, in luogo dello scontro politico, alterò i rapporti di forza fra i partiti lasciando uno spazio libero in cui emerse una soluzione imprevista (politica, non giudiziaria): il trionfo di Forza Italia. Con il risultato che la corruzione è ripresa come prima, solo con diversi soggetti, come quando l’arresto di una generazione di camorristi o di un cartello di narcos apre la strada ai rivali. Non sembra che la riproposizione del medesimo schema possa portare oggi a esiti più convincenti. Le larghe intese segnano il fallimento dell’opzione giudiziaria e dell’intero sistema partitico-parlamentare: i giudici non redimono certo il deficit strutturale di rappresentanza. Il giustizialismo di Stato e quello dal basso sono forme corrotte e deviate della socialdemocrazia e del massimalismo nell’epoca della fine del Parteienstaat, cioè di una democrazia liberale fondata sui partiti di massa.

Sfiliamoci di testa quel ridicolo scolapasta e respingiamo le campagne a favore del carcere purificatore e le crociate mediorientali: per igiene mentale, prima ancora che per rimettere effettivamente in discussione i rapporti di forza fra le classi.