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I bachilleratos populares: la scuola come campo di sperimentazione sociale

Un contributo di approfondimento a partire da una ricerca sul campo accompagna cinque videointerviste (a cura di Francesca Pontillo, montate con la collaborazione di Pablo Mardones) per un viaggio attraverso le pratiche pedagogiche delle scuole popolari, nate su iniziativa dei movimenti sociali nelle fabbriche recuperate e nei quartieri popolari della capitale argentina.

 Questo articolo prende le mosse da un incontro con un movimento sociale pedagogico che rivendica l’educazione come parte integrante e centrale di una trama eterogenea di attività, soggettività, organizzazioni e movimenti impegnati nella costruzione di pratiche e prospettive di lotta per un cambiamento sociale, a partire dalla sperimentazione di una educazione libera, critica, cooperativa, autogestita e fortemente connessa con i movimenti sociali e popolari.
Il video racconta alcuni frammenti di storie di vita, progetti e trame di lotta ed organizzazione per trasformare la società che compongono il mondo delle scuole popolari IMPA e Voces de Latinoamerica, a Buenos Aires.

In che modo la critica alla gerarchizzazione della relazione docente-studente e le pratiche assembleari e orizzontali, consentendo la partecipazione di coloro che sono tradizionalmente esclusi dal potere, in un contesto segnato dall’erosione del diritto all’educazione, possono favorire la risignificazione dei processi di apprendimento e insegnamento?

 

E in che modo una diversa forma di concepire e trasmettere la conoscenza, un’educazione socialmente contestualizzata e demistificante, può contribuire alla costruzione di soggettività critiche, capaci di partecipare, prendere parte, discutere e costruire nuovi destini?

Ed infine, in che modo le forme attraverso cui i docenti-militanti dei b.p. si appropriano delle strategie educative e pedagogiche disponibili socialmente possono contribuire a prefigurare progetti di nuove società?

A queste domande provano a rispondere le video interviste, voci, sguardi e parole che contribuiscono alle riflessioni che seguono, emerse dalla ricerca sul campo, e attraverso le quali mi propongo di riflettere attorno alle potenzialità delle scuole popolari ricostruendo alcuni dei tratti fondamentali di queste esperienze.

 

 

 

La scuola e la crisi

La crisi della scuola sembra oggi un dato sul quale convenire con un ghigno di impotenza e rassegnazione; ma se il coro è unanime nel dichiararne la perdita di credibilità, non lo sono invece le voci di quanti ne indicano cause e rimedi. Economisti, sociologi, pedagogisti, organismi internazionali di cooperazione e mondo della finanza propongono innumerevoli piani e soluzioni, destreggiandosi tra linee di principio e di intervento.

Nell’arena del dibattito pubblico, i riformisti progressisti e quelli conservatori indicano rispettivamente in migliori scuole e nelle potenzialità delle TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione) una via d’uscita dall’impasse. Quello che emerge è allora una lista senza fine di difetti da curare, un proliferare di diagnosi e “falsi dibattiti” che secondo Peña Calvo e Fernández García[1] esprimono solo i segni di un esaurimento.

Se nell’attuale congiuntura storica il paradigma capitalista, per dirla con Vercellone[2], fa «sintesi economica» dei differenti tempi sociali e l’obiettivo dell’autorealizzazione diviene forza produttiva sfruttata dal nuovo rapporto capitale-lavoro, la conoscenza, elemento centrale dei processi di apprendimento e insegnamento, si trasforma in vera e propria merce.

 

Siamo allora spettatori di un discorso a doppio binario: se da un lato assistiamo ad incessanti retoriche sull’importanza dell’educazione in quanto strumento fondamentale per sviluppare un adeguato bagaglio di conoscenze e capacità che consenta l’esercizio di una piena cittadinanza, dall’altro l’impianto pubblico e democratico dei sistemi educativi e d’istruzione è sempre più sottoposto ad attacchi e definanziamenti.

 

Da alcuni decenni le politiche educative -sempre più omogenee a livello globale- si sono orientate verso una gestione imprenditoriale dell’istituzione scolastica (basta pensare alla riforma della “Buona scuola” o al discorso sulla meritocrazia); i programmi scolastici, sintesi delle volontà e delle rappresentazioni sociali sull’educazione,nel prediligere conoscenze immediatamente fruibili e spendibili come “carte gettoni” per accedere al mercato del lavoro e rispondere al contesto nelle sue regole di rapidità e simultaneità[3], contribuiscono ad affermare la supremazia dei valori economici.

Di fronte a questo panorama, l’incapacità del discorso pedagogico di resistere allo svilimento di senso avvenuto in seguito al suo allineamento con le logiche imperanti (teoria del capitale umano ieri, modello delle competenze oggi), ha configurato l’insegnamento come pratica tecnica e strumentale e l’apprendimento come un processo svuotato di senso. L’impatto del neoliberalismo nell’educazione ha ulteriormente legittimato i suoi tratti selettivi, sigillando una relazione sempre più stretta tra razionalità economica, mezzi e fini [4] e naturalizzando una scuola in cui alcuni risultano eccellenti ed altri sono destinati al fallimento.

L’applicazione della cultura della valutazione e della performatività all’educazione che schiaccia la scuola verso modelli efficientisti e lo scollamento prodottosi tra formazione e occupazione (ravvisabile ad esempio nel fenomeno dei NEET che in Italia riguarda oltre il 25% dei giovani tra i 15 e i 34 anni), hanno acuito nello studente il senso di alienazione provato nell’attraversare uno spazio-tempo decontestualizzato e decontestualizzante (nei linguaggi, nei saperi e nelle pratiche).

 

Gli studenti dunque, non attuerebbero nella scuola a partire dai significati che la proposta formativa offre loro, quanto piuttosto per una soggezione socioculturale alla norma che opera come un dispositivo sotteso e latente per l’adeguamento sociale dei soggetti.

 

Per contribuire a pensare delle risposte educative in questo contesto e interrogarmi attorno alla possibilità di traduzione di esperienze e lotte nello spazio globale della crisi ricostruisco brevemente, a partire dalla ricerca sul campo e dalla partecipazione alle attività educative di due scuole, alcuni dei tratti salienti e delle questioni particolarmente interessanti che il movimento pedagogico argentino ci consegna.

La sfida dell’educazione popolare oggi

Nelll’Argentina di inizio millennio, negli anni della grave crisi economica e sociale che ha portato il Paese a dichiarare il default, iniziano a fiorire una serie di organizzazioni territoriali e movimenti sociali che individuano nella riconfigurazione di legami sociali solidaristici e cooperativi uno dei possibili esiti dell’uscita dalla crisi sociale del modello neoliberista e intravedono nell’educazione un campo di intervento di primario interesse per agire in senso trasformativo nel corpo sociale. Tra gli interventi e le azioni che vanno moltiplicandosi nei vari livelli e campi dell’educazione, dal 2003 iniziano a sorgere in imprese e fabbriche recuperate della città di Buenos Aires i bachilleratos populares (b.p.), scuole secondarie per giovani e adulti basate sulle riflessioni critiche e sulle metodologie dell’educazione popolare di stampo freireano e ispirate ai “punti di discussione” di quel filone della pedagogia critica –da Peter McLaren a Henry Giroux- che recupera l’agency degli attori e considera la scuola come uno spazio capace di dare potere agli studenti.

 

Se da un lato il b.p. può essere considerato come una risposta di tipo compensativo alla desertificazione dell’offerta istituzionale prodotta dai processi di decentramento, privatizzazione e mercantilizzazione dell’istanza educativa avviati negli anni ‘90, dall’altro, per le relazioni di forza maturate e per la continuità e la diffusione delle esperienze, il b.p. deve essere riconosciuto come un ambito generatore di una sperimentazione sociale che inaugura pratiche istituenti in grado di riconfigurare le relazioni tra i saperi e quelle tra le persone.

 

Non si tratta infatti di ripetere il j’accuse di Don Milani e degli studenti di Barbiana contro una scuola che favorisce “Pierino del dottore” ed esclude Gianni sulla scorta di quel meccanismo che Bourdieau ha sintetizzato con l’espressione “violenza simbolica”, né di ripercorrere l’esperienza di coscientizzazione che il brasiliano Paulo Freire –rispetto al quale ad ogni modo gli attori dei b.p. sono debitori- ha condotto nel campo dell’educazione non formale; e neanche si tratta di ritentare qualcosa di simile a quello che alla fine degli anni ‘60 un gruppo di insegnanti ha provato a costruire in termini di pratiche antiautoritarie all’interno delle istituzioni formali e che mise in evidenza (come testimoniatoci da Elvio Fachinelli nel volume “l’Erba Voglio”) i limiti di interventi circoscritti e castrati dall’ «ingabbiamento nella struttura scolastica sostenuta dal potere»[5].

 

Si tratta piuttosto di un’operazione che, nell’articolare una dinamica pedagogica, culturale e relazionale nella dimensione micro e macro della politica, ambisce a incidere su tutti quei livelli della grammatica sociale che producono molteplici forme di esclusione e oppressione sociale.

 

In questo senso il progetto che articolano ci racconta di una forza creativa e di una potenza istituente le cui condizioni di possibilità si iscrivono in seno al carattere ambivalente del neoliberismo -ravvisabile in quel processo di soggettivazione collettiva espresso dall’eterogeneità di pratiche di resistenza e progetti di società alternative ai modelli egemonici di società- che racconta come le sue premesse fondamentali possano convivere con progetti che prefigurano logiche differenti da quelle funzionali allo sviluppo capitalistico[6].

L’etica militante dei nuovi movimenti sociali latinoamericani, la cui eterogeneità trova una sintesi intorno alla realizzazione di azioni collettive contro i processi di dominazione [7] e favorita da un ciclo decennale di politiche progressiste, ha consentito un avanzamento rispetto alle relazioni di forza e la costituzione di una cartografia della resistenza che, come rileva Zibechi[8], ha obbligato «le élite politiche e corporative a negoziare e tenere in considerazione le loro necessità».

Da questo terreno di forza simbolica e materiale si sono mosse allora le organizzazioni sociali che negli ultimi tredici anni, avanzando nella costruzione di alternative scolastiche, hanno portato alla riattualizzazione del dibattito intorno a ciò che si intende per educazione. L’inclusione del “formato bachillerato popular” all’interno dell’orbita educativa istituzionale come “scuola pubblica popolare” (senza che questo intaccasse l’autonomia della loro proposta) e che permette loro di emettere titoli validi per proseguire gli studi di livello terziario e universitario, ha prodotto allora un ampliamento della nozione di pubblico aprendo nella pratica un campo –quello del comune- non appartenente né allo Stato né al mercato e che inaugura «un nuovo spazio politico capace di opporsi a tutte le fruste figure del vecchio universalismo moderno»[9].

 

La proposta politico-educativa agisce allora su due ordini di livelli: da un lato, animando una dinamica conflittuale con lo Stato (e le sue differenti articolazioni) e prefigurando un progetto alternativo che a partire da interventi educativi rivolti al territorio ambisce alla democratizzazione della conoscenza; dall’altro, a livello molecolare, prestando attenzione al momento dell’intervento critico, quello che si realizza nelle relazioni pedagogiche intra ed extra scolastiche e che mira a favorire processi di emancipazione individuale e collettiva.

 

Nell’articolazione di una serie di strategie socioeducative tese alla risignificazione della scolarizzazione e nel dispiegamento di un’educazione che «assume come compito quello di contribuire a che detti soggetti popolari si costruiscano, si rafforzino e riconoscano la propria capacità di protagonismo storico»[10] è possibile allora intravedere una prossimità con la ricerca gramsciana (in virtù del conformismo da lui formulato e dell’incidenza del vincolo pedagogico sull’intera società) di un principio educativo che promuova un progetto formativo integrale e unitario. E ancora, il ruolo svolto dai docenti-militanti, nell’operare dentro e contro le istituzioni che incarnano il pensiero dominante per l’organizzazione di una cultura che sia funzionale all’attività pratica e politica, sembra convergere verso il profilo dell’intellettuale organico gramsciano[11]. È a loro che spetta dunque il meticoloso lavoro di decostruzione del senso comune che gli studenti, così come gli stessi docenti, hanno incorporato nelle precedenti esperienze scolastiche come portato subtestuale della società. Non si tratta quindi, come affermano i docenti del b.p. Impa «di ripetere gli schemi della sanzione o la sua esternazione discorsiva, ma di creare spazi di riflessione e di azione partendo da proposte che li portino a pensare al loro permanere e a ciò che implica ed è la scuola»[12].

Le strategie che attivano in tal senso, dentro e fuori la classe, ambiscono a generare nuove articolazioni di senso e di significati sopra gli elementi narrativi, testuali e discorsivi relativi alla pratica educativa: ai processi, ai modi e ai metodi del dispositivo pedagogico neoliberista viene contrapposta una diversa organizzazione e trasmissione del sapere e una rinnovata configurazione dei connotati spazio-temporali e organizzativi diretta a risignificare tutti quegli elementi della grammatica scolastica ritenuti responsabili di legittimare le disuguaglianze sociali, di alimentare la perpetrazione del pensiero unico e di costruire soggetti governabili.

 

Un’educazione che nel perseguire la formazione di soggetti critici rende evidente la non neutralità dei saperi favorendo negli studenti la presa di coscienza della costruzione sociale della conoscenza e delle relazioni di potere che in essa vi si annidano.

 

Un’educazione contestualizzata e fondata su pratiche dialogiche che si pone il problema dell’utilità e della ricettività del sapere e che fa del territorio l’elemento centrale del curriculum intorno a cui riannodare i fili che tengono tradizionalmente separata la scuola dal suo intorno sociale. Un’educazione che considera parte dell’apprendimento i momenti in aula ma anche le vertenze di lotta, la gestione e la cura dello spazio, la partecipazione alle assemblee, i momenti di autoformazione.

Un dispositivo pedagogico ibrido dunque che, nel recuperare elementi della pedagogia della scelta e dell’autonomia (superamento dell’asimmetria educatore-educando senza che questo si configuri come falsa orizzontalità, autonomia nella scelta dei contenuti, autogestione dello spazio, lavoro didattico concentrato nel tempo classe e basato su metodologie partecipative dove i docenti sono almeno due per insegnamento), conduce gli studenti a leggere nella cultura uno strumento per la presa di coscienza utile a decostruire la realtà e a riconoscere le condizioni di oppressione che incidono sulle loro esistenze; se la riappropriazione del fine intrinseco e del valore umano della formazione permette loro di sentirsi protagonisti del proprio apprendimento, il ricollocamento della responsabilità a livello sociale diviene per alcuni la chiave per maturare uno spirito partecipativo e trasformativo nella società.

* Cinque studenti, Vivian e Maximiliano del b.p. Impa e Fatima, Lucero e Francisco del b.p. Voces de Latinoamérica vengono intervistati tra giugno e ottobre 2016 nel corso di un periodo più ampio di ricerca svolto in due “scuole popolari” di Buenos Aires. Foto a cura di Francesca Pontillo.

Bachillerato popular IMPA

Il b.p. Impa nasce nel 2004 nel quartiere di Almagro per iniziativa di un gruppo di lavoratori e di ricercatori “popolari” (che poi si costituiranno in CEIP[13]) all’interno della prima fabbrica recuperata dell’Argentina, dove oggi convivono numerosi progetti autonomi e indipendenti che articolano un modello di comunità integrata e alternativa: oltre alla cooperativa di lavoro vincolata con il movimento nazionale di imprese recuperate (MNER) e il bachillerato popular, animano gli spazi un centro culturale, un museo, una radio comunitaria, un canale di televisione popolare, un teatro, una cooperativa di disegno, un centro di salute e un’università dei lavoratori. Con la consegna “occupare, produrre, resistere”, la Impa è diventata un emblema nella costruzione di potere popolare e nella produzione di solidarietà e nuove relazioni sociali. Una tensione che diviene evidente nella proposta formativa del b.p. dove il territorio, inteso come dimensione operativa, diviene luogo dell’azione educativa e contenuto curriculare attraverso l’istituzione di una specifica materia, il cooperativismo.

Bachillerato popular Voces de Latinoamerica

Voces de Latinoamérica, invece, solo da alcuni mesi accreditato come scuola pubblica popolare, nasce nel 2013 per l’iniziativa del movimento sociale El Hormiguero, attivo da diversi anni all’interno della villa Rodrigo Bueno, uno spazio della città lottizzato e edificato in modo autonomo dai suoi abitanti e privo di urbanizzazione; è una di quelle zone periferiche dove secondo Wallerstein[14] «confluiscono alcune delle principali fratture che attraversano il capitalismo: etniche, di classe e di genere»; un territorio attraversato da molteplici contraddizioni che negli ultimi anni è divenuto oggetto di attenzioni e mire da parte di colossi dell’immobiliare (Irsa) che hanno contribuito a spostare gli interessi dell’amministrazione cittadina dal pubblico al privato. Il b.p. allora, facendo del territorio una dimensione immanente al progetto educativo, diviene strumento nella lotta per l’urbanizzazione del barrio e per la difesa degli interessi popolari.

Link utili:

Decolonizzare la pedagogia: pratiche indisciplinate di dis-educazione radicale di DecoKnow

Educazione popolare e autonomia nell’era della governance kirchnerista di Alioscia Castronovo

la biblioteca online della CEIP historica

la Educacion prohibida, il documentario indipendente che racconta differenti esperienze di educazione non convenzionale

 

Note:

[1] Peña Calvo J. V., Fernández García C. Mª, La escuela en crisis, Octaedro, Barcelona, 2010.

[2] Cit. in Chicchi F., Lavoro e vita sociale: le dense ambivalenze della società flessibile, in San Marcellino: Educazione al lavoro e territori, Franco Angeli, Milano, 2010, pp. 35 – 52.

[3] Cfr. Laval C., La escuela no es una empresa. El ataque neoliberal a la enseñanza pública, Piados, Barcelona, 2004.

[4] Apple M., El conocimiento oficial. La educación democrática en una era conservadora, Paidós, Barcelona, 1996.

[5] Fachinelli E., Muraro Vaiani L., Sartori G. (a cura di), L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola, Einaudi, Torino, 1971, p. 24.

[6] Cfr. Gago V., La razón neoliberal, Traficantes de Sueños, Madrid, 2015.

[7] Cfr. Svampa M., Movimientos Sociales, matrices socio-políticos y nuevos escenarios en América Latina, Working Papers Redaktion, editorial borrad, 2010.

[8] Zibechi R., Genealogía de la revuelta. Argentina: la sociedad en movimiento, Ed. Letra Libre, Buenos Aires, 2003.

[9] Negri T., Inventare il comune, DeriveApprodi, Roma, 2012, p.13.

[10] Torres Carrillo A., Educación Popular. Trayectoria y Actualidad, Universidad Bolivariana de Venezuela, Caracas, 2011, p. 21.

[11] Cfr. Manacorda M. A., Il principio educativo in Gramsci: americanismo e conformismo, Armando, Roma, 2015.

[12] Bachillerato Popular de Jóvenes y Adultos IMPA (CEIP Histórica), Praxis política y educación popular. Apuntes en torno a una pedagogía emancipatoria en las aulas del bachillerato IMPA, Naranjo en flor Ed., Argentina, 2016, p. 170.

[13] E oggi confluiti nella CEIP historica di cui sono parte, insieme all’Impa, i b.p. Soho, Maderera Cordoba e Sol del Sur.

[14] Cit. in Zibechi, Territori in resistenza. Periferie urbane in America latina, Nova Delphi, Roma, 2012, p. 31.