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Hey Joe! Where (are) you going?

Riflessioni sparse intorno a Nymphomaniac, l’ultimo film di Lars von Trier. Se il cinema è una macchina che crea desiderio il regista danese riesce a raccontare la storia di una donna e della sua sessualità evitando l’o-skené (il fuori-scena) puramente pornografica in un film sul godimento, la dipendenza, la solitudine, offrendo così un punto di vista parziale sul desiderio femminile.

«Forse l’unica differenza fra me e gli altri è che io ho preteso di più dal tramonto. Colori più spettacolari quando il sole arriva all’orizzonte. Forse è questo il mio unico peccato». Joe

Hey Joe è la canzone – resa famosa da Jimi Hendrix, ma qui cantata e sensualmente reinterpretata da Charlotte Gainsbourg – che chiude l’ultima opera di Lars von Trier Nymphomaniac . Joe è il nome della protagonista del film, un nome che non identifica immediatamente un genere preciso.

Se il personaggio principale fosse stato un Joe di genere maschile e la trama si fosse diffusa attraverso il racconto delle sue numerose avventure ed esperienze sessuali, sicuramente avremmo assistito a un film diverso, altrettanto complesso però se narrato con la medesima profondità (come non ricordare Shame di Steve McQueen), diametralmente opposto, invece, se raccontato con lo sguardo del senso comune, casomai quello proprio di società, come la nostra, dove rigurgiti sessisti e patriarcali sono davvero duri a morire. Se le identiche situazioni avessero avuto per protagonista un uomo, l’immaginario sarebbe stato quello del Casanova, dell’eroico seduttore a cui strizzare l’occhio; sicuramente non sarebbe stato stigmatizzato socialmente con una parolina ad hoc, creata appositamente per produrre soggettività “deviate” da giudicare e condannare moralmente, da controllare e reprimere. Nessun furor penis corrisponde al “furore uterino” che contraddistingue la ninfomane, la donna – così definita sin dai tempi di Messalina – il cui desiderio sessuale è esasperato, morboso, in preda alla mania…

Non è compito facile ricostruire il film di von Trier, là dove esso intreccia molteplici temi e questioni, e nemmeno rielaborare un finale che, per alcuni critici, è sembrato l’ennesimo shock del narcisista regista danese. Nymphomaniac è un’opera da guardare attentamente, cercando di coglierne le molte sfumature, i continui riferimenti storici, filosofici, letterari, biblici, matematici, economici. Metafore, a volte manierismi, iperboli che rasentano il limite dell’ipertrofico e non escludono neppure le autocitazioni.

Una donna pestata a sangue e distesa a terra (Charlotte Gainsbourg) in un vicolo viene raccolta da un passante, Seligman (un grandissimo Stellan Stasgard), che la porta a casa sua, offrendole un letto per riposare, vestiti puliti e un tè caldo con latte. La donna, Joe, non vuole essere portata in ospedale, ma sceglie di raccontare la sua storia per far capire all’uomo che l’ha aiutata come è arrivata fin lì. Sin dal primo minuto nella figura di Joe si coglie un residuo di freddezza e impenetrabilità. «I’m a bad human being» è la definizione lapidaria che fornisce di se stessa, dando così inizio al racconto della sua vita, scandito secondo il ritmo delle sue esperienze sessuali. È lei stessa, dunque, ad autoassegnarsi un giudizio morale negativo. Joe si autocondanna seguendo gli schemi sociali dominanti.

Vogliamo leggere questo film, che costituisce un punto di vista molto parziale sulla sessualità femminile, in modo ancora più specifico, seguendo la traccia della relazione tra desiderio e malattia, quale si dipana tra i complessi fili di questa Gesamtkunstwerk (o quantomeno aspirante tale) del cinema contemporaneo. Tema dunque caro a von Trier, che sempre ha tessuto i suoi film attorno alla depressione, il controllo, la maternità, la violenza psicologica e sessuale. Tutto Nymphomaniac si muove sul crinale che separa l’affermazione positiva di una sessualità libera dalla patologia, la dipendenza incontrollabile, l’impulso coatto.

All’immersione negli “eccessi” di Joe (dalla gara con l’amica B. sul treno, a chi riusciva a scoparsi più uomini all’esperienza del “contratto” BDSM), fanno eco gli illuminati riferimenti culturali di Seligman, il quale, almeno inizialmente, sembra essere più emancipato di Joe. Nessuna condanna traspare dalle sue parole, ma soltanto una serena consapevolezza della naturale e potente polivalenza della sessualità, femminile o maschile che sia. Un uomo, per di più vergine, senza alcuna esperienza sessuale diretta, sembra essere lo strumento, stucchevolmente metaforizzante e naturalizzante, di liberazione ed emancipazione di Joe.

«L’amore distorce le cose. L’amore è qualcosa che non hai mai chiesto. L’erotismo è dire sempre di si. L’amore sollecita gli istinti più bassi, le bugie: come quando dici sì, quando invece vuoi dire no… L’amore: ogni 100 delitti compiuti in nome dell’amore. Solo 1 in nome del sesso».

La Joe adolescente sessualmente molto precoce e intraprendente (interpretata da Stacy Martin in versione Lolita) pensa che l’amore sia un concetto abusato, banalizzato, se non addirittura mercificato. «Noi combattevamo l’amore» racconta a Seligman, nominando il suo “club” di amiche per cui l’unica legge riconosciuta consisteva nel non andare mai a letto con un ragazzo per più di una volta. «Mea vulva, mea vulva, mea maxima vulva» era il mantra che si ripetevano le adepte della nuova religione che poneva al centro l’amore esclusivo per la propria vagina. La libertà sessuale è per la giovane Joe “santificazione” del proprio corpo, che ribalta e uccide la visione cristiana della nudità e del sesso peccaminoso fine a se stesso.

E mentre alcune compagne decidono di darsi alla monogamia, perché come suggerisce l’amica B.: «l’ingrediente segreto del sesso è l’amore», Joe si ribella ai modelli dominanti di donna fidanzata, moglie, madre. Vive la gravidanza come l’intrusione nel proprio utero di un corpo estraneo: il bambino appena nato mostra un inquietante ghigno luciferino, non suscita tenerezza materna in Joe, ma puro orrore. A Natale abbandona la famiglia e trascorre le feste con il “partner sadomaso” Jamie Bell, ricevendo 39 frustate come Gesù di Nazareth. Quale migliore evocazione della natività, se non la riproduzione del martirio del suo protagonista?

La figura della moglie e madre di famiglia, tradita e abbandonata, viene invece magistralmente interpretata da Uma Thurman (la signora H.): è la donna sull’orlo della crisi di nervi che si precipita con i tre figli piccoli in casa dell’amante del marito, per mostrare loro il whoring bed in cui il padre avrebbe continuato a scopare con la ragazza (sempre Joe) per cui li aveva abbandonati. È forse la scena che vale tutto il film, dipinta con l’ironia consueta di von Trier e in cui viene finalmente verbalizzato il riferimento alla psicoanalisi, quando la signora H. si rivolge ai tre malcapitati bambini: «Dovete cercare di memorizzare bene questa stanza, soprattutto il letto. Potrà esservi utile in seguito, in terapia».

L’intero film, a voler guardare in superficie, straborda di allusioni che sembrano di primo acchito al limite dell’acquiescenza al discorso psicoanalitico: il letto su cui Joe a volte è seduta a volte distesa è il punto spaziale da cui prende avvio il racconto, la stanza di Seligman è quasi l’unico luogo in cui si svolge la narrazione (il resto delle scene infatti sono la rappresentazione del percorso anamnestico compiuto da Joe), lo spazio classico in cui prende forma il rapporto tra la narratrice-paziente e l’interlocutore-analista, a partire da cui il racconto si apre e si chiude quasi fosse un’unica lunghissima seduta. A una prima lettura, allora, Joe ricerca un riconoscimento e Seligman è il testimone della verità del soggetto: una lunga confessione, in cui l’istanza a dire la verità si confonde con un prima prova di emancipazione.

Così il penultimo capitolo del II volume, intitolato The mirror, potrebbe essere inteso nei termini di un omaggio più o meno esplicito a Lacan: assistiamo infatti a una tardiva e sofferente “fase dello specchio” di Joe, la quale si sdoppia, si guarda dal di fuori, riconosce la propria immagine “riflessa”, ma ciò che vede non è di suo gradimento. Più che alla costituzione dell’Io di Joe, assistiamo a quella del suo Super-io e, conseguentemente, alla lotta contro i propri ingovernabili istinti, alla ricerca di una disperata soluzione rispetto alla sua dipendenza. L’odio è il sentimento prevalente di Joe verso se stessa, l’unico modo in cui riesce ad amarsi. Mentre Seligman appare come il suo antonimo, l’asessuato, lo spettatore perfetto e ideale per ascoltare la sua storia e per pronunciare volta dopo volta una visione e un giudizio non distorto dalle proprie esperienze. «La sessualità è la forza più potente negli esseri umani» – È la frase che Seligman oppone all’ossessione della donna di presentarsi come una peccatrice a ogni costo. L’uso colto di evocazioni freudiane sembra aprire la possibilità, per Joe, di riflettere sulla sessualità da un altro punto di vista: il richiamo alla perversione polimorfa del bambino, ossia al fatto che «in ogni bambino esiste ogni genere di perversione» e che l’infanzia è esattamente quella fase della vita che viene utilizzata per controllarne alcune, sembra di nuovo, proporre questa direzione. Ma von Trier è consapevole anche del dark side del discorso freudiano, quello che rasenta i limiti della misoginia, incastrato negli stereotipi della passività e della funzione semplicemente accogliente del sesso femminile.

Il regista mette così in scena il sesso (espediente narrativo) slegandolo dall’erotismo e superando la pornografia, la cui ovvia finalità è l’eccitazione dello spettatore. I primi piani dei genitali, e la catalogazione dei peni fatta da Joe è una sessualità che lavora per accumulazione con poco piacere e, anche, con poca fantasia nelle posizioni.

«La dipendenza comporta mancanza di empatia».

«Per me la ninfomania era insensibilità».

Quando Joe si ricongiunge con Jérôme, l’uomo di cui era innamorata, nei loro rapporti sessuali sperimenta la completa impossibilità dell’orgasmo e il fatto la spinge a cercare altro, a osare, sempre di più. Qui lo snodo essenziale di tutto il film, ovvero il rapporto con la “malattia”, il desiderio bloccato nella coazione a ripetere, la ricerca forsennata del godimento, fino a sperimentarne l’impossibilità, la ferita nel corpo. Il desiderio di Joe verso Jérôme mette in crisi, inceppa lo schema proprio del godimento: Joe diviene frigida. Il suo corpo si consuma, si lacera, si autodivora, cioè gode divorandosi e distruggendosi. Come il caso degli alcolisti e dei tossicomani, dei quali, dice Ch. Melman, più che vino, più che coca, più che eroina, l’oggetto che consumano è il proprio corpo, così, in questo caso, il corpo non è più mezzo di godimento ma lo stesso oggetto di cui si gode, il mero elemento che viene soggiogato in un dispositivo autotrofico, cannibalesco.. La ricerca dell’appagamento sessuale consiste in una forma di godimento che non viene dall’altro, bensì dalla cosa (das Ding). Von Trier ci getta al centro della dimensione in cui il soggetto è integralmente segnato da una radicale pulsione autodistruttiva, un ambito in cui il “paziente” si lega morbosamente al proprio sintomo, come se quest’ultimo fosse in grado di donargli un godimento specifico. Come il libertinaggio sadiano, la ricerca di Joe, poco ha a che fare con il piacere, ma tantissimo con l’enumerazione e l’accumulazione delle forme possibili di esso. Come l’erotismo di de Sade, non trae piacere dalla descrizione delle possibilità del godimento, ma dall’utopia di giungere alla fine del catalogo, di toccare la vetta o l’abisso.

«La solitudine è stata compagna costante» della sua vita dice Joe a Seligman. È questo un altro tema lacerante del film che mette in questione tutte le ragioni dell’insoddisfazione: cosa ci manca, cosa è all’origine delle nostre malinconie e muove il nostro desiderio, cosa abbiamo davvero perduto e, infine, di che cosa godiamo?

L’esterno, la società fungono da fattori di pressione sulla vita di Joe, al fine di riportarla entro un quadro di normalizzazione, come madre e come donna, ma, d’altra parte, ciò che definisce la sofferenza e la malattia è anche e soprattutto l’impossibilità della relazione, che di volta in volta è continuamente negata, distrutta. Proprio quando Joe comincia a soffrire di anorgasmia, quando il meccanismo del godimento si inceppa, avverte la solitudine più radicale.

«Sono una ninfomane e ho capito che per me non c’era spazio nella società. Non so dire se sia stata la società a lasciare me o io a lasciare lei».

Joe prova a curarsi, a fare sedute di gruppo: «I’m a nymphomaniac», afferma, e l’operatrice prontamente la corregge: «we call it sex-addicted». Joe segue le indicazioni degli operatori da cima a fondo, elimina dal proprio appartamento qualsiasi riferimento totemico e comincia a controllarsi. Ma, giunta al momento di dover dichiarare i suoi progressi, si vede riflessa nella sua stessa immagine da bambina polimorfa – è tutto reso al femminile, con buona pace di Freud – e sceglie di non tradirsi, di non accettare il dispositivo di auto-controllo prêt-à-porter che le viene offerto. È qui che nel film si palesa più chiaramente il rapporto ambiguo, la tensione con la psicoanalisi (peggio ancora, con la psicologia d’accatto), l’impossibilità di una placida acquiescenza alla razionalità, al discorso universalizzante. Il linguaggio è essenzialmente ipocrita, ci dice Joe: nominare, enunciare, ricondurre, non è sufficiente per ristabilire una pratica di liberazione del sé. Si potrebbe definire un fallimento, dunque, questa “seduta” e questo percorso analitico, “risolto” piuttosto attraverso la pratica diretta. Il primo passo verso la vera emancipazione.

È il finale scioccante a confermare quest’ipotesi. Seligman, il puro, il colto illuminato viene ucciso da Joe, nel momento in cui prova a infilarsi nel letto della donna, con la convinzione che lei, che ha scopato con un’infinità di uomini, non possa rifiutare. Con l’assassinio di Seligman viene ucciso non solo un vecchio porco, ma l’ipocrisia della ragione, della cultura, dell’universalismo e anche della psicanalisi. Viene uccisa quella sessualità maschile incapace di rinunciare alla sopraffazione. È probabile, ancora, che von Trier descriva una liberazione sessuale delle donne che in parte è storicamente già avvenuta, ma che, d’altra parte, lascia ancora tantissimo lavoro da fare per molte e molti impigliati nella ricerca difficile di una pratica del sé singolare o collettiva.

Come insegnava Modesta, la protagonista de L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, bisogna davvero essere pronte a tutto per non tornare più indietro sui propri passi e affermare il proprio riscatto, e anche l’assassinio diventa praticabile quando diventa il mezzo per eliminare un ostacolo alla felicità o il mezzo per realizzare una giustizia equitativa e per ristabilire un equilibrio…

Alcuni video che consigliamo per ascoltare parte della bellissima colonna sonora del film