OPINIONI

Guerre culturali e intersezionalità

Qualche nota sulla cultura woke e sui rapporti non lineari fra coalizioni di lotta e analisi strutturale di classe. Un confronto con un recente contributo di Mimmo Cangiano

Mimmo Cangiano, in un intervento dal titolo Etica, intellettuali e mercato al tempo delle Culture Wars sul sito “Le parole e le cose”, è entrato con tutte le scarpe sul terreno friabile del woke, strappandolo all’acrimoniosa polemica del “Foglio” e di Rampini sul “Corriere” e agli squittii di Pigi Battista su “HuffPost”. Dicendo la sua da sinistra e anche dall’interno di un’accademia internazionale attraversata in modo critico.

Se non tutto giusto quasi niente sbagliato.

Cominciamo dal quasi niente sbagliato.

Corretta la denuncia di una «sovrastima dell’elemento sovrastrutturale» che conduce a trasporre il rapporto etico-educativo anche su di sé, invertendo così cambiamento della coscienza e cambiamento del mondo e adottando quel “Do it by yourself” che è un assunto base del neoliberalismo, «l’idea di un’agentività isolata e concentrata appunto sulla gestione del sé».

Il culturalismo woke, con tutti i suoi addentellati e la retorica terminologica (marginalità, nomadismo, ibridazione, flessibilità, ecc.) trascura, nel suo entusiasmo disseminativo, l’osservazione realistica di Mark Fisher, per cui «”flessibilità” e “nomadismo” sono gli imperativi gestionali che caratterizzano tutta la società del controllo postfordista».

L’elogio del decentrarsi corrisponde a una delle direttive del capitalismo, che si manifesta nell’outsourcing e in genere nella mobilità internazionale del capitale e nel suo ricorso, nei processi lavorativi al massimo di flessibilità (con conseguente calo dei salari e delle qualifiche riconosciute).

Cangiano osserva a ragione che l’impianto teorico fondativo della cultura woke – con i suoi correlati apparentemente contraddittori (il politically correct, le identity politics, il fanatismo discriminatorio) – fa tutt’uno con la decostruzione dei concetti di oggettività e universalità preparata dalla French Theory e che sin dall’inizio si accompagnava, secondo una definizione di Raymond Williams, con un «particolarismo militante», una balcanizzazione vittimaria della classe dichiarata scomparsa.

Il nuovo identitarismo si radicava, appunto sull’essenza di vittima, che solo conferiva agency, diritto di parola e riconoscimento.

L’operazione non si limitava a uno strumentale essenzialismo strategico (errore epistemologico necessario all’azione politica, nelle parole di Gayatri Spivak), ma si presentava come l’estremo esito nichilistico di un Logos che anteponeva i mezzi ai fini.

Lo straripante soggettivismo libertario, per un verso, restaura soggetto e identità un tempo decostruiti, per l’altro finisce per «leggere la classe come un tipo di identità fra le altre, perdendo di vista il fatto che nel marxismo la classe non è centrale perché oppressa, perché vittima, ma perché sul suo essere forza-lavoro vendibile l’intero sistema economico si basa».

Al che corrisponde – altro paradossale connubio – l’esaltazione della sfera rizomatica del desiderio con la normativa del politically correct fino all’iconoclastia della cancel culture e alla strisciante furia pedagogica nei campi più svariati.

Apriamo qui una digressione che prescinde dallo scritto di Cangiano. Fra gli orrori del politicamente corretto figurano il dibattito sulla legittimità delle traduzioni e le controversie su documenti letterari e figurativi del passato.

Sul primo punto – dando per scontato che ogni epoca ritraduce i classici di testa sua e quindi è benvenuto ogni tentativo di aggiornare il modo in cui un testo è trasmesso da una lingua a un’altra o reinterpretato nella stessa lingua o messa in scena – sembra assurdo mettere paletti su chi traduce chi o chi interpreta chi.

Non bisogna essere ner* per tradurre un/a poeta ner* o una balena per tradurre Moby Dick, non occorre un antisemita per eseguire Wagner (e allora Mahler e Barenboim)? O essersi impestato in un bordello maschile per suonare Schubert (e allora Richter?).

Allo stesso modo molte contestazioni di documenti artistici (che ovviamente sono sempre anche documenti di barbarie) risultano futili, ma è diverso se è un movimento di massa ad abbattere le statue di sanguinari conquistadores e di generali sudisti (come si fece perfino in Italia dopo il 25 luglio 1943 con i segni mussoliniani).

Quando lo spirito woke impugna leve, funi e martelli, è revisione storica pratica dal basso, non puntiglio accademico. E se qualcosa ci può lasciarci perplessi, teniamo la bocca chiusa finché resterà in piedi l’orinatoio dedicato ad Affile alla memoria del criminale di guerra coloniale e antipartigiana Graziani. Digressione chiusa.

La critica fondamentale che Cangiano muove alla cultura postmodernista è che essa non riesce più a concepire l’abbattimento del capitalismo perché ne condivide certe direttive ideologiche (la flessibilità, non certo un pregiudizio monologico).

Tale cultura può certo farsi sovversiva, ma mai trasformativa e rischia spesso di convertire il proprio radicalismo in richiesta di miglioramenti all’interno del sistema.

Non riconoscendosi in quanto sintomo storico di una sconfitta tende a sopravvalutare l’elemento culturale e di esasperarne il momento più estremo senza che ciò implichi necessariamente una trasformazione delle relazioni economiche.

Questo tipo di ideologie è incapace di mettere in corretta relazione la sfera sovrastrutturale con i suoi rapporti di produzione e quindi riduce il capitalismo a uno dei suoi modi storici (quello monologico), mentre in Marx il lavoro astratto non è di per sé omogeneo, l’universalizzazione è semplicemente la produzione a fine di valore di scambio e il profitto può battere le strade alternative della differenza rizomatica come dell’omogeneità.

Se ragioniamo solo sui fattori culturali, le ideologie contingentiste rischiano di porre gli elementi progressivi del neoliberalismo come realmente alternativi a quelli che si sviluppano su presupposti tradizionalmente reazionari (identitari, etnici, patriarcali, monologici, ecc.), lasciandoci di fatto a scegliere fra due diverse manifestazioni ideologiche (corrispondenti a diverse strategie materiali di produzione di valore di scambio) dello stesso sistema economico.

Differenza e marginalità restano pur sempre rapportate e subalterne a quell’universale-astratto che è il mercato. Lo stesso recupero della working class – se non meramente retorico e vittimario (una delle tante vittime) – viene considerato “riduzionistico” in un’ottica woke, che rifiuta qualsiasi privilegio collegabile ai rapporti di produzione.

Cangiano a giusto titolo obietta che «qui gender, race and class effettivamente si incontrano, ma non a partire dal presupposto vittimario, ma a partire dalla loro relazione, inevitabilmente mobile, con la sfera di profitto, produzione, mercato». Fin qui tutto bene, ma adesso si apre l’area del non tutto giusto.

Cangiano a giusto titolo obietta che «qui gender, race and class effettivamente si incontrano, ma non a partire dal presupposto vittimario, ma a partire dalla loro relazione, inevitabilmente mobile, con la sfera di profitto, produzione, mercato». Fin qui tutto bene, ma adesso si apre l’area del non tutto giusto.

Prosegue infatti il nostro interlocutore: «questa è la totalità: non l’astrazione identitaria della subalternità, non l’epistemologia che vede il non-essenzialismo come modo di essere della vita ma dimentica di dialettizzarlo con la sfera della prassi e con la storia, ma la totalità delle relazioni sociali (ciò che Marx chiamava appunto l’essenza dell’uomo), la cui comprensione comporta la scoperta della nostra posizione oggettiva nel sistema oltre al corollario della sua necessaria trasformazione».

Si apre ora un’evidente divergenza mia con le categorie di sfondo di Cangiano (totalità, dialettica, ecc.) in continuità con la formulazione originaria hegeliana e i suoi successivi investimenti sul terreno di classe marxiano, fino al giovane Lukács di Classe e coscienza di classe, in cui il proletariato è totalità-soggetto, totalità concreta, per poi assumere sempre più i tratti di un blocco democratico  e di una realizzazione dell’umanesimo borghese altrimenti soffocato dai rapporti capitalistici, da ultimo  delineando un’ontologia dell’essere sociale.

Io inclino piuttosto al non lineare approccio di Althusser, che va da una struttura contraddittoria a dominante degli anni ’60 alla concezione aleatoria degli ultimi anni, in cui gli incontri casuali generano successive e impredicibili strutture senza discendenza diretta e necessaria fra loro, quindi storie diverse, senza origine né finalità.

La persistenza di alcuni tratti strutturali fra formazioni vicine non esclude salti di paradigma nella composizione di classe e ancor più nei blocchi storici di coalizione delle classi contrapposte.

Ma non è questo il luogo per approfondire alcune alternative nell’interpretazione del marxismo – basta accennarvi sommariamente, tanto per capirci.

Veniamo al sodo, cioè alle implicazioni politiche di medio periodo. «A questo punto potremo anche parlare di intersezionalità, ma non riusciremo a capire il modo in cui le gerarchie di genere e di razza sono connesse non al classismo (cioè alla condizione di vittima), ma allo sfruttamento (cioè alla condizione in cui la “vittima” è al centro e non al margine del funzionamento del sistema economico)».

È evidente la tentazione, da quel punto di vista, di postulare correttivi che migliorino la condizione delle vittime e contrastino la cultura neoliberale, senza rovesciare il modo in cui il mercato funziona.

Entusiasmarsi, per esempio, quando i membri della classe dirigente Usa si inginocchiano, ma lasciarli mantenere le tasse universitarie, opporsi alla sindacalizzazione, espandere politiche di controllo militare mondiale.

Cangiano non vuole pensare la classe come «luogo privilegiato della lotta politica», secondo vecchi schemi, ma «comprendere come la lotta di classe, lungi dall’essere il principio teso a sussumere in sé, essenzialisticamente, le altre lotte, sia in realtà il principio strutturante all’interno del quale tutti gli antagonismi si articolano, perché è un principio basato non su chi sei, ma su quale è la tua posizione rispetto al piano dello sfruttamento e al lato per cui scegli poi di parteggiare».

Lunga è la strada per ricostruire una classe “moltitudinaria” e “intersezionale”. E la stessa intersezionalità, come ci ha ricordato Angela Davis, è propria delle lotte non delle identità.

Occorre cioè distinguere, da una parte, la formazione di una coalizione intersezionale dentro una determinata congiuntura – e quindi la costruzione al suo interno di un’egemonia che tenga conto dell’eterogeneità delle istanze e degli obiettivi e che dissolva per quanto possibile le rigidezze identitarie – e, dall’altra, il ruolo oggettivo delle classi (che non sono “identità”) nella produzione diretta e indiretta.

Strategia politica e analisi strutturale sono due cose diverse. So bene che entrambe erano tenute unite, nella tradizione leninista, dal doppio ruolo della classe operaia di fabbrica come cerniera e motore del processo produttivo e della lotta di classe, corpo omogeneo e disciplinato dall’esterno in forma di partito d’avanguardia.

Gramsci aveva esposto tale nodo teoretico-pratico riprendendo nel Quaderno 13 la metafora machiavelliana del Principe-centauro come entità collettiva (il Partito) che esercitava egemonia mediante forza e consenso, occupando un ruolo strutturale e di direzione storicamente garantita.

Non che le coalizioni rivoluzionarie corrispondessero allo schema di classe: la Comune di Parigi aveva una base artigianale, piccolo borghese con frange lumpen e composizione politica eteroclita (a questo si attribuivano le sue incertezze e la finale sconfitta), nel 1905 e 1917 russo era quantitativamente preponderante l’ampiezza  delle rivolte contadine, ma alla fine i bolscevichi erano riusciti a prendere in mano la situazione e lentamente a far corrispondere la struttura sociale al potere politico. La macchina Principe-egemonia per un certo periodo funzionò.

Oggi è questo a essere in crisi, separandosi l’agente egemonico di una coalizione anti-capitalistica dal ruolo centrale nella produzione della classe operaia – una classe peraltro disarticolata per distribuzione territoriale delocalizzata, cambio delle proporzioni fra lavoro formale e informale, sussunzione reale e uso estensivo della sussunzione formale, divisione internazionale del lavoro e dei flussi logistici.

Processi di frammentazione non inediti (pensiamo all’imperialismo e alle aristocrazie operaie), ma amplificati dalla sconfitta politica e sociale del socialismo reale e dal rilancio neoliberale.

Ciò che comporta la necessità di re-individuare l’agente sovrastrutturale (politico) della contraddizione – più probabilmente gli agenti delle contraddizioni su scala locale – senza che sia predefinibile un soggetto organico unico o prevalente quale di volta in volta abbiamo escogitato dagli anni ’60 in poi (l’operaio-massa.

L’operaio sociale, il proletariato giovanile, gli esclusi, i marginali, i popoli del Terzo Mondo, il cognitariato, il precariato, la forza-lavoro migrante, le differenze di genere, ecc.), mischiando (con la partecipazione a lotte reali) il dato congiunturale con una filosofia stadiale della storia.

L’eterogeneità domina sia nelle coalizioni sia nell’articolazione strutturale della classe – che sono cose diverse, ripeto, ma le cui aporie si sommano, per effetto delle “operazioni” del capitale complessivo e delle sconfitte storiche. Perfino con l’esito paradossale di rendere complicata l’egemonia degli estrattori di plusvalore ma purtroppo ancor di più la contro-egemonia dei produttori oppressi, che non hanno il sostegno degli apparati economici e ideologici di stato.

Intersezionalità dell’eterogeneo e struttura di classe a dominante sono due campi paralleli, due attributi della stessa sostanza – per essere spinoziani sino in fondo.

Ma adesso non stiamo costruendo una piattaforma di analisi e di lotte (anche se da questo siamo assillati), stiamo solo cercando di intenderci sui pregi e sui limiti delle culture antagonistiche di oggi, per capire se possono essere utili per qualcosa di meglio che far carriera nell’Università.

E anche per farla finita con l’Italian Theory dove il non-uno, l’immunità, il katechon e la nuda vita si intrecciano con il sostegno al Pd e magari con le infatuazioni per Draghi.

Immagine di copertina da Wikimedia.Commons