cult

CULT

Una liberazione non apocalittica

Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista (DeriveApprodi, Roma 2022), di Roberto Ciccarelli smonta il discorso degli oppressori e le sospette geremiadi di alcuni oppressi sulla “fine del mondo”

“La fine del mondo sta arrivando e io non ho niente da mettermi” – Roberto Ciccarelli prende molto sul serio la formulazione ideologica di questo problema e le dedica uno dei capitoli più avvincenti del suo bel libro, Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista (DeriveApprodi, Roma 2022, pp. 320, € 22).

Nel senso che descrive tutte le varianti, seriose e patetiche, della retorica apocalittica con cui i postumi rassegnati e unidimensionali rinunciano alla liberazione invocando l’imminenza della catastrofe, considerata non l’esito di un rapporto di forze da modificare ma come un’imposizione dall’esterno. La mentalità millenaristica immobilizza l’esistenza e fa da alibi all’impotenza quando non alla complicità con il nemico, laddove la difficoltà di superare la crisi è causata dall’ignoranza delle possibilità storiche a disposizione. «Apocalittica è la condizione che annienta la possibilità di configurare un uso alternativo della vita al punto da rendere impossibile praticare un’altra vita a partire da questa vita» (p. 64), insomma la fine del mondo è invocata per rifiutarsi di prendere in considerazione la fine di un mondo, quello del capitalismo, e di operare attivamente per realizzarla.

La liberazione dalla vita sostituisce la più faticosa liberazione della vita, l’impotenza contemplata subentra alla potenza agita, è il volto di Medusa per gli oppressi.  

Nel variopinto ventaglio di scusanti si va dall’apocalissi senza eschaton, senza redenzione, dei più tragici, alle più svariate teorie dell’accelerazionismo, del presentismo dei retro-utopisti, del collasso ecologico di Gaia, dei catastrofismi assortiti (fine del lavoro, robotizzazione, neo-malthusianesimo, sostituzione etnica, pandemizzazione, ecc.), fino alla definizione profetica di ère negative (antropocene, capitalocene), dell’estinzione ontologica: tutte assunzioni dell’umanità e del capitale come soggetti pieni, compatti, sostanziali, che ignorano l’esistenza di campi di relazioni e battaglia che possono sortire esiti diversi.

In un passo particolarmente illuminante e di ascendenza foucaultiana Ciccarelli (p. 227) spiega che in questo caso «si ritiene che gli individui siano schiavi di un sistema, oggetti di un dominio incontrollabile». Solo in apparenza è una presa di posizione anti-capitalistica radicale, mentre si tratta di una consolazione inerziale e realmente eversiva e operativa è solo una considerazione del capitalismo come «un’organizzazione rivoluzionaria della produzione e della società la cui storia non è la manifestazione di una volontà onnipotente. È il risultato di un rapporto di potere tra coloro che sono subalterni e coloro che promettono la libertà, la sicurezza e il soddisfacimento dei bisogni. Il capitalismo non estorce il consenso, ma governa la vita di coloro che accettano per necessità questo scambio. Il neoliberalismo è oggi il nome di questo governo ed è l’esito di un potere che non è solo repressivo, ma anche premiante. [Esso] è un’esortazione a perseguire il benessere personale in nome della razionalità e di valori morali comuni L’individuo interiorizza il comando e accetta i suoi obiettivi perché condivide con i dominanti un principio di realtà così assoluto da rimuovere ogni resistenza».

Perfetta e realistica descrizione del procedere non apocalittico bensì inclusivo del neoliberalismo, che forse potrebbe essere attualizzato e integrato con la constatazione che, a un certo punto, questi mezzi non sono sufficienti e la ratifica del principio di realtà, l’esclusione delle alternative, è segnata dall’ingresso in gioco della guerra, che si presenta come blocco di scelte obbligate e moralmente vincolanti oltre che come strumento di risoluzione dei rapporti di forza sul mercato globale. Non è però la fine del mondo, solo la fine della pace per i bianchi con una minaccia virtuale di morte nucleare per tutti.

Lo sparpagliamento delle due accezioni kantiane della fine della storia – il terrorismo e l’abderitismo, cioè l’eterna oscillazione che lascia il soggetto immobile nello stesso punto – legittima una presa d’atto più ironica che drammatica di queste manifestazioni ideologiche dell’impotenza politica, mascherate da riflessione teologica e compiacimento del destino, ma che alla fine si riducono a paura del divenire altrimenti e a ripiegamento su una comoda finitudine di autocompatimento. And what costume shall the poor girl wear /To all tomorrow’s parties

Si tratta allora di vivere la condizione “postuma” non nel senso di una fascinazione del zombi, di un nichilismo che conserva «un mondo pietrificato e congelato davanti al terrore dell’impotenza», ma nel senso di una sperimentazione della vita e della storia liberate dai loro postumi (nell’accezione clinica di un danno removibile, di tracce da cui guarire), cioè di un incremento spinoziano di potenza per transizioni e allargamento del campo relazionale.

Vorremmo qui esemplificare, sull’onda dei recenti eventi d’oltralpe, un caso alternativo di uso laico della fine del mondo, che ben rientra negli auspici del testo di Ciccarelli. I Gilets Jaunes offrirono già anni fa e hanno vittoriosamente mantenuto nell’azione e nei programmi della Nupes una soluzione pragmatica del rapporto fra contingenza dei problemi e trascendenza allegorica della soluzione: immaginare la fine del mondo e sbattersi per arrivare alle fine del mese sono per loro la stessa cosa e sono materia di lotta («Fin du monde, fin de mois: même combat»). Il riferimento escatologico serve solo a evidenziare la possibilità di cambiamento del rapporto di forza, di evitare la fine come soggetto in lotta e non umanità astratta e vittima designata e passiva.

Negli altri capitoli Ciccarelli tratta analiticamente la forza-lavoro come potenza di vita, produttrice dei valori d’uso e capace di modificare quelle sue funzioni che al momento ostacolano modalità di espressione e di «autogoverno» diverse da quelle imposte dal capitalismo, cioè di sostituire un altro divenire allo pseudo-divenire della fine della storia e del there is no alternative thatcheriano. La potenza spinoziana ­ – punto di riferimento costante dell’autore – assume così la sua forma storica ed entra puntuale in scena contro le storture del capitalismo contemporaneo e dei suoi maldestri interpreti chiliastici.

Oppure descrive il tortuoso divenir-classe del precariato e della moltitudine nei molteplici avatar generati dal lavoro intermittente e digitalizzato, invano inseguito negli schemi di un “nuovo soggetto” dello sfruttamento e della rivolta.

Il capitolo «Come siamo arrivati qui» il caso contemporaneo più esemplare della rivoluzione passiva (la categoria gramsciana spesso impiegata quale chiave interpretativa) nella risposta al Sessantotto, prima repressiva, poi assimilatrice, capovolgendo bisogni e parole d’ordine di quel movimento nel loro opposto, pratiche di liberazione in meccanismi di consumo e stili di nicchia funzionali all’integrazione sociale. Nella «controrivoluzione senza rivoluzione» si è realizzata come figura decisiva quella del “capitale umano” e del suo portatore, il “capitalista umano” o imprenditore di se stesso, che dovrebbe realizzare monadicamente e con pratiche estrattive la potenza della forza-lavoro, facoltà delle facoltà, sviluppandola come autosfruttamento e recidendo ogni effettiva realizzazione della potenza che passi attraverso la relazione cooperativa con gli altri.

Il lavoro della liberazione è peraltro “interminabile”, secondo il riemergere di un potere alienante in ogni situazione di emancipazione parziale, come da ultimo hanno mostrato Fanon per il colonialismo o i movimenti transfemministi a proposito di altre rivoluzioni che lasciano intoccato il potere patriarcale o il suprematismo di colore o binario. Per non parlare di rovesciamenti repentini del presunto acquisito, vedi la revoca “legale” della sentenza Roe vs Wade da parte della Corte Suprema statunitense.

Stringendo, come nell’epilogo di una fuga musicale, i principali temi sviluppati prima in contrappunto, Ciccarelli conclude il libro con un raffronto e con un’ipotesi: «Se Gramsci ha ipotizzato la rivoluzione attiva sulla base di un nuovo materialismo, chiamandolo Anti-Croce [che allora incarnava la rivoluzione passiva], noi concepiamo un’altra idea di anti-rivoluzione passiva a partire da un materialismo della forza-lavoro contrario all’apocalisse capitalista, il palinsesto che ispira la sensibilità contemporanea, legittima l’indifferentismo storico, celebra il disfattismo politico e attende la fine del mondo».

Postumi con una contro-egemonia, come gli eredi senza testamento di René Char.