OPINIONI

George Floyd e gli “inciampi” di Erdoğan su terrorismo e antifascismo

Il presidente turco Erdoğan ha diffuso sui social parole di sdegno per l’omicidio di George Floyd negli Stati Uniti, suscitando le proteste dei suoi oppositori che hanno ricordato la brutalità della sua politica e della polizia turca. Eppure, ben più della semplice ipocrisia, dietro le parole del premier turco si nasconde la volontà di assumere una posa sempre più neo-imperiale

Il movimento internazionale che contesta la discriminazione razziale in seguito alla morte di George Floyd sta scoperchiando numerose contraddizioni, non solo in occidente. Il presidente turco Recep Tayyp Erdoğan ha scritto su Twitter, il 28 maggio, che l’omicidio di Floyd è dovuto a un approccio «razzista e fascista», provocando sui social plausi antiamericani ma anche i commenti scandalizzati dei suoi oppositori, che hanno postato le foto dei cittadini turchi uccisi dalla polizia o i corpi dei militanti curdi brutalizzati in pubblico dalle forze del presidente. Il partito di ideologia islamista di Erdoğan è alleato con gli eredi dei Lupi Grigi, movimento dai richiami fascisti espliciti, e i suoi arresti ed epurazioni hanno devastato in questi anni la scuola turca, la magistratura, il giornalismo, l’università e l’esercito. Il presidente ha scritto che a condurre alla morte di Floyd è stata una «mentalità disumana» e che la «civiltà islamica» insegna l’amore per il genere umano: per questo la Turchia «si oppone agli attacchi contro l’umanità ovunque essi avvengano».

 

 

Dopo le guerre di Erdoğan contro i curdi in Siria e in Iraq (quest’ultima ripresa proprio in queste ore con attacchi aerei su Shigal, Maxmur e Qandil) e con una vera e propria invasione di terra simili affermazioni possono apparire enormità, ma occorre inserirle in un contesto che a volte ci sfugge. Erdoğan è riuscito in questi anni a presentare la “sua” Turchia come baluardo “moderato” dell’islam nel mondo. Tale moderazione, a ben vedere, ha corrisposto gradualmente alla costruzione di un efficace doppio volto. Giovani dissidenti turchi mi raccontarono a Istanbul già nel 2014 come i militanti di base più attivi nel partito del presidente, l’Akp, considerassero i miliziani dell’Isis o di Al-Qaeda pii musulmani che, nell’ambito di una stessa lotta, svolgevano un ruolo “più avanzato”. La fortuna politica di Erdoğan, oltre che sulle grandi opere e sugli investimenti internazionali, si regge sulla sua reputazione nei vasti ambienti della destra islamica, che apprezza anzitutto il suo ruolo di interfaccia istituzionale tra islamismo militante (dai Fratelli musulmani a gruppi ancora più radicali) e i doppiopetti della diplomazia e del commercio internazionale.

Un’interfaccia del genere necessita una narrazione. Torniamo ai commenti su George Floyd.

 

La declinante egemonia euro-americana è assimilata a una “civiltà” che manca dei necessari presidi morali; il riferimento all’islam permette di alludere alla necessità del ruolo che esso dovrà giocare nel mondo di domani.

 

L’obiettivo delle affermazioni del presidente è sempre ben più che turco: è la ummah, comunità universale dei credenti presentata come unico orizzonte in grado di porre fine alla discordia e alle guerre (e al dissenso?) nel mondo islamico – naturalmente sotto la guida delle tessiture commerciali, diplomatiche e militari della Turchia. Da qui la qualifica del progetto di Erdoğan come “neo-ottomano”: occorre ricordare che la Turchia non è un paese post-coloniale, ma un ex impero. La narrazione ecumenica e antimperialistica si accompagna a una disinvolta, e a volte grottesca, posa neo-imperiale.

 

Proprio perché Floyd non era musulmano è strategico tentare di ricondurre entro l’egemonia di un discorso islamista l’indignazione verso il razzismo che sale in tutto il mondo, a beneficio del credito di Erdoğan presso le comunità islamiche nordamericane ed europee, ma anche per candidare l’islam militante a cornice ideologica per il desiderio di cambiamento che si diffonde nella parte più svantaggiata del pianeta.

 

Poco importa che i profughi siriani, iracheni e afghani in Turchia siano additati come un problema interno e usati come minaccia o merce di scambio con l’Europa, se non rispediti in Siria come coloni nelle terre da cui i bombardamenti turchi hanno espulso i curdi, o addirittura armati e inviati a combattere come mercenari sotto bandiere jihadiste per le quali si commettono crimini su altri musulmani. L’utilizzo spietato di musulmani concreti per un islam egemonico e astratto riguarda anche la Libia, dove i jihadisti siriani inquadrati dall’esercito turco vengono mandati per non “sprecare”, come in Siria contro i curdi, vite di militari turchi: l’obiettivo è proteggere i Fratelli musulmani di Al-Sarraj, la cui guardia costiera ammassa e tortura in campi di concentramento i migranti neri africani, o spara alle Ong che salvano i naufraghi che tentano di raggiungere l’altro alleato in questo Mediterraneo della vergogna: l’Italia. Non mancano del resto i migranti africani morti direttamente nei commissariati turchi. La contrapposizione con l’occidente in nome della «civiltà islamica» non toglie che lo stesso cinismo sia l’acqua in cui nuotano certi presunti detrattori e, nel caso di Erdoğan, una strategica fonte di ispirazione.

 

 

L’aggressività militare turca si fonda, infatti, su due capisaldi: una riedizione in versione islamica della guerra al terrorismo coniata dai Think Tank statunitensi e la designazione delle invasioni come missioni di pace: i nomi delle aggressioni al Kurdistan siriano sono stati “Ramoscello d’ulivo” (2018) e “Sorgente di pace” (2019). Si tratta di locuzioni ispirate alla retorica dell’occidente ai tempi delle invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, che contribuirono a provocare il clima di rivalsa islamica cavalcato da Erdoğan, la cui ascesa iniziò nel 2002. Questa riedizione riveduta della “guerra al terrore” ha provocato contraddizioni nella Nato: per Erdoğan i jihadisti siriani vanno considerati una polizia internazionale contro le donne curde “terroriste” e “infedeli”, mentre gli altri paesi hanno un’ottica del tutto diversa, se non capovolta; e proprio l’ossessione di Erdoğan per i curdi ha provocato anche la sua ultima giravolta nella vicenda che riguarda George Floyd.

Trump, il primo giugno, ha twittato di voler dichiarare terrorista il movimento antifascista americano, accusato di aver fomentato i disordini, e il ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu ne ha approfittato per far presente che le Unità di protezione popolare curdo-siriane (Ypg), militarmente alleate degli Stati Uniti nella guerra all’Isis, vedono al loro interno militanti europei o americani che esibiscono stemmi e vessilli “Antifa”. L’8 giugno, in una telefonata, Erdoğan è tornato a chiedere a Trump per questa ragione di inserire le Ypg nella delle organizzazioni terroristiche: troppo vicine ad alcuni degli animatori di Black Lives Matter. C’è una coerenza: a porre fine alle ingiustizie, in Medio Oriente come nel resto del mondo, non possono essere valori pluralisti, secolari e alieni dal tradizionalismo, ma solo l’interpretazione militarista di una «civiltà islamica» che cerchi l’intesa con la destra bianca e xenofoba per accordarsi su qual è il rispettivo nemico “interno” – ossia, sotto diverse forme, lo stesso. Tutto il mondo è paese quando si tratta di svuotare di senso parole come “pace” e “terrore”; e il risultato è che oggi, a occidente come a oriente, “antifascismo” viene accostato a “terrorismo”.