ITALIA
Gender Pay Gap: il lavoro femminile in Italia
L’Italia è attualmente in 14° posizione tra i Paesi dell’Ue con un punteggio pari a 64 su 100 dell’indice calcolato dall’EIGE (European Institute for Gender Equality). Secondo il World Economic Forum, in Italia ci vorranno 134 anni per ottenere la piena parità retributiva
L’ambito riproduttivo è ancora uno spazio ignorato dall’economia politica moderna, anche se è abitato da corpi di donne che garantiscono le condizioni affettive, materiali e di cura di qualsiasi comunità (Federici, 2015).
L’elaborazione teorica di parte del pensiero femminista ha fatto emergere con forza e inedita intensità lo spazio della riproduzione sociale e della cura (dei corpi, dei territori e quindi più in generale della vita) come spazio connotato politicamente, che ci interroga e che, nel nostro pensarci sindacato sociale e di classe, ci permette una contaminazione con altre riflessioni e linee di faglia che si sono aperte negli ultimi anni (anche perché la pandemia ce le ha consegnate con evidenza), dal movimento femminista e transfemminista ai movimenti per la giustizia climatica, ai movimenti studenteschi, alle lotte sul lavoro, sul salario e sul reddito, sul mutualismo sociale.
Dare centralità allo sfruttamento dei corpi, e all’estrazione di valore da corpi specifici, significa oggi, innanzitutto, leggere le fratture che incrinano gli spazi e i tempi della valorizzazione nel capitalismo neoliberale; nominare la moltiplicazione dei luoghi dello sfruttamento; pensare la valorizzazione e lo sfruttamento non solamente, per dirla con Dejours (2020), del corpo “esposto”/biologico al lavoro, ma anche di quello intimo e soggettivo, mobilitato per il lavoro, che coinvolge le personalità, le sensibilità, le relazioni, le emozioni, le sofferenze.
La crisi pandemica ci ha aiutato a trovare le parole, perché ce lo ha reso plasticamente, per definire lo scivolamento del tempo di vita nel tempo di lavoro, e viceversa. Anche la transizione digitale rappresenta un’accelerazione verso questa direzione. E le riflessioni e le battaglie in sede di contrattazione sul lavoro agile ce lo confermano.
Abbiamo di fronte la sfida di provare a interrogare politicamente e sindacalmente questo spazio di valorizzazione sia negli elementi più “hard” legati al salario, sia nelle dimensioni più “effimere” apparentemente non riconducibili alla produzione, cura, linguaggio, affetti, educazione, relazione con l’ambiente (Chicchi, 2024). Se la stessa distinzione tra vita-lavoro è stata superata da modelli di riferimento in cui il lavoro è considerato un ambito della vita non separato né spazialmente, né temporalmente, né socialmente, l’armonizzazione e l’equilibrio vita/lavoro si giocano nella conquista di nuove tutele e nuovi diritti orientati alla ricostruzione di un tempo generativo per la cura di sé, del benessere organizzativo, dei legami familiari e sociali, delle relazioni con l’ambiente. Conquiste tanto più urgenti da perseguire perché inserite in uno squilibrio strutturale che vede le donne, in particolare, costrette a un lavoro incessante di cura che rende anche le carriere lavorative e formative segregate, bloccate, non lineari.
L’Italia è attualmente in 14° posizione tra i Paesi dell’Ue con un punteggio pari a 64 su 100 dell’indice calcolato dall’EIGE (European Institute for Gender Equality). Nonostante la scarsa leggibilità dei dati, le dimensioni di maggiore criticità riguardano la gestione del tempo e l’approccio alla conoscenza. Ma anche rispetto alle condizioni di lavoro il punteggio è posizionato tra i più bassi d’Europa.
Il divario di genere persiste in numerosi ambiti della vita, a livello di accesso e posizionamento nel mercato del lavoro, di retribuzioni e pensioni, di welfare e assistenza. Uno degli aspetti decisivi è il tempo, quello dedicato a famiglia e casa, sbilanciato in modo decisivo verso le donne (l’80% contro il 20% degli uomini); fenomeno che si è cronicizzato durante il periodo pandemico e le misure di contenimento adottate e nelle politiche che si sono susseguite di austerità selettiva.
Secondo il World Economic Forum, in Italia ci vorranno 134 anni per ottenere la piena parità retributiva.
Nelle recenti retoriche pubbliche si chiede alle donne di produrre figli per la “patria” e si rende stringente il nesso tra natalità e lavoro/bonus, ma in realtà le donne sono lasciate sole e le famiglie con minori possibilità si impoveriscono progressivamente. Non è una novità, infatti, la posizione che assumono i lavori svolti da donne e femminilizzati, che intersecano sempre più marcatamente le linee della razza, della povertà e delle generazioni.
Secondo gli ultimi dati ISTAT si registra una lieve crescita nel numero di donne occupate e un aumento nella partecipazione al mercato del lavoro in alcuni settori (il tasso di disoccupazione femminile è sceso dal 9,8% al 9,3%), anche se, guardando i dati da una corretta prospettiva, il divario di genere rimane significativo: il tasso di disoccupazione femminile continua a essere molto più elevato rispetto a quello maschile e il divario relativamente al tasso di occupazione è del 18%, il più alto dopo la Grecia, mentre la media Ue è del 10,3%.
Le donne in Italia non solo lavorano di meno (solamente 1 su 2), ma sono anche rassegnate a non cercare lavoro, come emerge dal tasso di inattività: se per gli uomini è pari al 24,3%, tra le donne raggiunge il 42,1%.
In questo contesto, poi, la flessibilità lavorativa, che viene raccontata come la soluzione ai problemi di conciliazione vita-lavoro, di chi svolge un part time involontario riguarda circa il 60% delle donne. Le difficoltà (ancora più evidenti nelle fasce di età più giovani e nelle regioni del sud) di accesso e di permanenza nel mercato del lavoro, la segregazione occupazionale in specifici settori a basso reddito e la difficoltà nelle progressioni di carriera determinano un gender pay gap del 28,34%.
Le dimensioni “tipizzanti” del lavoro femminile restano, in forma evidente:
– la bassa partecipazione al mercato del lavoro (meno occupate e più scoraggiate nella ricerca di lavoro),
– la minore presenza nei comparti a più alta specializzazione scientifica e tecnologica (a partire dal numero di laureate e specializzate in discipline cosiddette STEM),
– il maggiore addensamento nei settori più poveri e meno remunerativi, a basso valore aggiunto all’interno di quelle attività che, seppur definite essenziali perché legate alle stesse necessità di riproduzione sociale della vita e del sistema economico, vengono costantemente invisibilizzate e svalutate,
– la maggiore presenza nel lavoro a tempo parziale, discontinuo e precario in tutte le sue forme
– il minore orario di lavoro annuo prestato, anche a parità di mansione, in termini di numero di settimane lavorate e minore disponibilità allo straordinario e al lavoro festivo, alle trasferte,
– l’influenza del fattore “maternità” e lavoro di cura sulle vite professionali e sulle carriere,
– i rischi da lavoro usurante: negli ultimi anni si sono impennati gli infortuni, le malattie professionali e le disabilità da lavoro, i disturbi nevrotici e dell’umore,
– la cultura patriarcale degli ambienti di lavoro, dalla gestione del potere, all’interpretazione rigida e normativa dei ruoli, alla svalorizzazione, alle molestie.
Tale complessità ci interroga rispetto a un pluriverso di questioni che meritano un avanzamento di diritti e tutele che parta dalla stessa ri-semantizzazione della nozione “lavoro” (se è la vita stessa che è messa a valore): salario minimo legale, battaglia sui salari in generale e sui lavori degni, riduzione oraria, sfera del welfare, della cura e della sua ri-socializzazione, reddito di autodeterminazione per uscire dal ricatto e dalla violenza, riappropriazione di tempi di vita e di vita in comune (anche al lavoro in comune, per esempio aprendo e rinforzando le forme di cooperazione e gli spazi di co-working come alternativi all’ambito domestico dell’homeworking e alla solitudine prestativa), promozione del benessere individuale e sociale.
La sfida che abbiamo di fronte è ben chiara!
L’immagine di copertina è di Luca Profenna
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