DIRITTI

Frontiere variabili: la lunga marcia da Taranto a Nizza

Questo contributo è il risultato di due settimane di monitoraggio e supporto ai migranti sul territorio di transito di Ventimiglia, in appoggio al collettivo 20k . Quanto segue non mira ad essere un lavoro di analisi complessivo, ma uno spunto di riflessione su vari nodi cruciali del mondo complesso della frontiera, il cui dispositivo di potere si mostra come paradigma delle scelte governative nella gestione e nel controllo dei movimenti di persone e disciplinamento dei loro desideri.
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La violenza dei confini: staffetta a Ventimiglia

Ventimiglia è un territorio denso di cronaca, di storie sfaccettate, di spazi di libertà vigilata e di reclusione reale o ideologica. Ventimiglia è anche quel fazzoletto di terra che offre una rappresentazione costante di alcune delle strategie di governo caratteristiche di questa fase storico-politica, che includono violazioni sistematiche di diritti umani e costituzionali messe a sistema da pratiche militari di gestione dei flussi migratori, come risultato di processi decisionali imposti dall’alto. Il decreto Minniti, gli accordi di polizia tra l’Italia e la Francia e la proclamazione dell’état d’urgence, delegano infatti il controllo dell’accesso allo spazio europeo all’autorità poliziesca senza passare per l’apparato giuridico, aumentando così le possibilità di abusi e violazioni.

Numerosi sono stati in questi anni i tentativi istituzionali di ripulire la città di confine di Ventimiglia, sia dalla componente migrante sia dalle organizzazioni di solidarietà attiva. Si sono susseguiti sgomberi, deportazioni, fogli di via e operazioni più o meno esplicite di boicottaggio della dignità dei transitanti. A nulla è servito: la determinazione di uomini e donne migranti a oltrepassare il confine si pone in reale conflitto con il concetto europeo di frontiera, determinando, di fatto una prassi di resistenza che ridefinisce continuamente le soggettività in transito e la rivendicazione della libertà di movimento e di migrazione.

Luoghi specifici della città hanno rappresentato per molti, migranti e solidali, laboratori di resistenza e convivenza articolati su diversi piani: dalle assemblee comuni ai tentativi di attraversamento del confine, fino alla condivisione della quotidianità. Oggi molte di queste pratiche sono state spezzate dall’ingerenza delle autorità locali e da ridefinizioni strategiche e militari dei confini, divenute foriere di una modalità di repressione tesa all’inibizione delle forme di vita autonoma e solidale nonché di un approccio discrezionale e approssimativo ai diritti individuali.

Entrando nel cuore di Ventimiglia, lo sguardo si posa su alcuni elementi che mostrano la trasformazione di questioni sociali in problemi di ordine pubblico, da gestire tramite le forze dell’ordine. La stazione riflette questo livello di tensione: un gruppo di poliziotti e militari del corpo degli alpini sorvegliano costantemente l’entrata, mentre nello spazio immediatamente antistante si alternano le camionette blindate dei carabinieri, della polizia e della guardia di finanza. In questo spazio sorvegliato e militarizzato, un bianco non ha nulla da temere. A Ventimiglia il ruolo dei confini simbolici della razza e del colore come forma di giustificazione della repressione dei movimenti migratori e del rafforzamento dei confini fisici, dispiega tutto il suo carattere violento. Sono i neri, o comunque coloro che hanno – come recita una circolare della polizia francese – “aspetto migrante”, a dover temere. Non di rado, infatti, la stazione viene rastrellata dalle forze dell’ordine e chi è connotato da un “aspetto migrante” viene tratto in uno stato di fermo che spesso si traduce nel trasferimento forzato all’hotspot di Taranto. I rastrellamenti non riguardano soltanto la zona della stazione, ma si allargano nelle vie della piccola città, dove talvolta prendono la forma di una vera e propria “caccia al migrante”.

È proprio sul tentativo di occultamento dei poveri, dei migranti e delle figure marginali che si gioca una delle partite fondamentali a Ventimiglia: quella tra lo spazio formale del campo della Croce Rossa e il campo informale sul fiume Roja. Il giovane sindaco del PD, Enrico Ioculano, utilizza tutti i possibili strumenti – compreso quello di non concedere i bagni chimici – per spingere i migranti accampati sul fiume Roja a spostarsi nel campo della Croce Rossa, cercando di renderli, così, invisibili.

Il campo della CRI è infatti un luogo esterno allo spazio urbano e distante 4 chilometri dal centro, mentre gli accampamenti sul fiume Roja sono ben visibili. Lungo il letto del fiume, quasi del tutto prosciugato e coperto in vari punti dalle sopraelevate dell’autostrada, vivono centinaia di persone in attesa del momento migliore per varcare la frontiera. Difficile non vederli, sebbene nascosti nell’erba alta e tra i piloni. I diversi tentativi attuati dalle autorità comunali, anche a seguito delle pressioni da parte degli abitanti della città, di far spostare volontariamente i migranti al campo CRI non hanno, però, avuto successo. Almeno sino ad oggi. La ragione non è solo nella distanza dal confine e dal centro urbano che fa di questa struttura un luogo avverso, quanto il complessivo dispositivo di controllo poliziesco e militare che la circonda. L’entrata nel campo è subordinata al rilievo fotodattiloscopico, che spesso i migranti associano ai meccanismi restrittivi del Sistema Dublino nonché all’esperienza traumatica della registrazione delle impronte all’arrivo. L’esistenza quotidiana nel campo è poi caratterizzata dalla mancanza di qualsiasi spazio di autonomia e di autodeterminazione e collegata a una persistente dimensione di controllo, infantilizzazione e vittimizzazione.

Il trattamento coercitivo dei corpi migranti si dispiega da un lato con la disposizione di spazi appositi di assistenza e controllo, dall’altro con l’affinamento di un regime di sorveglianza capillare della frontiera fisica. È la letale combinazione di questi due aspetti che si manifesta nella striscia di confine tra l’Italia e la Francia, mostrando i lati più repressivi delle politiche migratorie volte, in sostanza, ad alleggerire la pressione nelle zone di frontiera con il resto d’Europa, provando a impedire i cosiddetti “movimenti secondari”.

Un confine reale che quotidianamente blocca e separa decine di migranti nel tentativo di varcarlo. La scenografia della frontiera è artificiale e massimalista: due caserme, transenne, camionette e, ad intervalli regolari, uno o due pullman della Riviera Trasporti, l’agenzia sull’orlo della crisi che, per far quadrare i propri bilanci, mette a disposizioni i mezzi per effettuare i trasferimenti all’hotspot di Taranto. Cento metri separano la caserma francese da quella italiana. Proprio in questi cento metri si sostanziano le modalità operative congiunte e coordinate dei due Stati confinanti per la gestione dell’accesso allo spazio europeo, a scapito della necessità e del desiderio soggettivo di attraversamento e riscatto di tantissimi transitanti, i quali dovranno, ancora una volta, ricominciare da capo.

In questo scenario, fatto di restrizioni e limitazioni, la sola cosa a non avere confini è la spregiudicatezza degli stessi Stati europei a modificare i propri ordinamenti per allargare lo spazio di repressione. Infatti, il confine tra Italia e Francia non è limitato ad una linea di demarcazione fisica tra Ventimiglia e Menton-Garavan: l’intreccio tra ètat d’urgence, accordi polizieschi e clausole del trattato di Schengen, hanno permesso alla Francia di realizzare quello stato d’eccezione che qui prende le forme di una zona di frontiera estesa in uno spazio di circa 30 km verso l’interno, nel quale è possibile operare controlli straordinari di polizia, operando respingimenti, anche di minori e di vittime di tratta, senza passare per il meccanismo delle espulsioni che prevede l’entrata in gioco delle autorità giuridiche.

Sono passati ormai quasi tre anni dalla prima volta in cui il nome della città ligure apparve sulle prime pagine dei giornali, mettendo in luce quella che si presenta una sfida epocale dei nostri giorni. Una città di poche migliaia di abitanti è diventata la residenza temporanea di gran parte dei migranti che in Italia sono definiti transitanti perché determinati a non rimanere nel nostro Paese, distrutto dalla crisi economica e dall’assenza di politiche sociali. Allo stesso tempo, Ventimiglia continua ad essere, come la maggior parte dei luoghi di confine, il territorio dove i dispositivi di controllo si dispiegano in tutta la loro forza. Ventimiglia rappresenta un punto di osservazione fondamentale per comprendere il mutamento del governo delle migrazioni in Europa, immediatamente proporzionale al più generale governo delle diseguaglianze nel sistema neo-liberale della crisi permanente, nel quale diventa strategica tanto la criminalizzazione della povertà e della “guerra ai poveri” quanto la criminalizzazione della solidarietà e delle esperienze di mutualismo.

 

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