DIRITTI

#FreeOpenArms, Riccardo Gatti: “Sotto attacco tutte le azioni di solidarietà con i migranti”

Intervista a Riccardo Gatti, coordinatore italiano dell’Ong Proactive Open Arms, la cui nave di salvataggio è sotto sequestro nel porto di Pozzallo dal 18 marzo. Sotto attacco da parte della magistratura italiana la Ong ribadisce: “Finché ci sarà chi rischia la vita nel Mediterraneo continueremo i salvataggi”

Abbiamo raggiunto telefonicamente Riccardo Gatti, coordinatore italiano della Ong Proactive Open Arms, la cui nave di salvataggio è sotto sequestro nel porto di Pozzallo dal 18 marzo. Proactive Open Arms sarebbe colpevole di non aver consegnato i migranti salvati in mare alla Guardia Costiera libica e di averli portati su suolo italiano, violando il codice di condotta.

Proprio oggi – 27 marzo – il giudice per le indagini preliminari (Gip) della procura di Catania ha confermato il sequestro della nave e  il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mentre non sussiste il reato di associazione: per questo la competenza territoriale passa alla Procura di Ragusa. Ora il Gip di Ragusa avrà altri venti giorni per decidere in merito al sequestro e ai reati di cui l’Ong è accusata.

Spiegaci gli eventi che hanno portato alla confisca della barca tra il 15 e il 18 marzo?

Noi abbiamo operato in un’azione di soccorso come tante altre volte, il comando operativo della Guardia Costiera italiana ci ha passato la posizione di un’imbarcazione da soccorrere e noi ci siamo diretti. Mentre raggiungevamo la posizione ci è stato comunicato che la Guardia Costiera libica si sarebbe occupata del coordinamento delle operazioni. Con le nostre lance abbiamo raggiunto la posizione, dove abbiamo trovato un gommone con più di duecento persone a bordo e abbiamo iniziato le operazioni di soccorso. Abbiamo prima fornito i salvagenti, poi iniziato a imbarcare sulle nostre lance di salvataggio le persone più vulnerabili, in quel momento donne e bambini, in attesa che arrivasse la nave madre, la Open Arms.

Prima, però che arrivasse la Open Arms, è arrivata una motovedetta libica che ha iniziato a minacciare i soccorritori e le soccorritrici che erano sulle lance, dicendo che avrebbe sparato se non avessero consegnato le persone che stavano soccorrendo. Nonostante le minacce, noi non abbiamo consegnato nessuna persona, non ci siamo opposti perché i libici erano armati, ma comunque non abbiamo fatto quello che ci chiedevano. Mentre ci minacciavano, uno di loro è salito a bordo di una delle nostre lance, cercando di prendere delle persone, che, però, non si sono lasciate portar via, anche buttandosi in acqua. A questo punto è arrivata la nave madre Open Arms, e anche questa è stata minacciata di non avvicinarsi, altrimenti le avrebbero sparato.

Non so bene cosa sia accaduto, ma a un certo punto la Guardia Costiera libica ci ha permesso di finire il soccorso, forse hanno ricevuto una chiamata o hanno desistito per qualche altra motivazione. Così, sempre in contatto con la Guardia Costiera italiana, ci siamo diretti verso nord, in attesa che ci fosse dato un porto sicuro di sbarco. Arrivati circa all’altezza di Malta abbiamo avuto un’emergenza e abbiamo dovuto chiedere un’evacuazione medica, di una madre con un figlio neonato, ma siamo rimasti in attesa della comunicazione sul porto sicuro di sbarco.

Questa volta, però, la procedura per il porto sicuro è stata diversa dalle altre: di solito è il Comando Generale della Guardia Costiera italiana che ci dice dove dobbiamo dirigerci, su istruzione del Ministero degli Interni. Mentre questa volta, dato che si supponeva che avessimo operato in modo indipendente e non sotto il coordinamento della Guardia Costiera libica – coordinamento che non ha alcun fondamento legale e sotto cui non abbiamo mai operato – ci è stato comunicato che sarebbe dovuto intervenire il governo spagnolo per richiedere il porto di sbarco. Abbiamo, quindi, fatto la richiesta al governo spagnolo e siamo rimasti in attesa.

Dopo 48 ore, con il mare grosso e situazioni molto critiche a bordo, ci hanno confermato di poter sbarcare al porto di Pozzallo.

Qui, dopo aver eseguito tutte le operazioni di sbarco, con 218 persone a bordo, la polizia ha prelevato il comandante e l’alta commissione comunicandoci che avrebbero dovuto rilasciare delle dichiarazioni. Dichiarazioni che si sono trasformate in undici ore di interrogatorio, alla fine dei quali ci sono stati consegnati gli avvisi di garanzia e comunicato il sequestro della nave. Noi siamo rimasti sbigottiti, perché ci siamo ritrovati sul banco degli imputati: fermo amministrativo della nave, accusati di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione illegale, rischiando tra i 5 e i 15 anni di carcere, 15.000 euro di multa per ogni persona trasportata, 3.270.000 per ogni indagato, per un totale all’incirca di 10 milioni di euro.

Siamo rimasti veramente molto sorpresi e amareggiati da tutto quello che sta succedendo. Da luglio 2016 lavoriamo a stretto contatto con la Guardia Costiera italiana, quindi con il governo italiano, e, anche se in passato abbiamo avuto problemi, questi erano circoscritti a una ‘politica di disturbo’ alle nostre operazioni, mentre stavolta è chiaramente molto diverso.

Come è cambiata la situazione dalle prime dichiarazioni di Luigi Di Maio sui ‘taxi del mare’ al sequestro della Iuventa, fino alla firma del codice di condotta e ai nuovi accordi con la Libia? Come sono cambiate le condizioni in cui operano le Ong nel mar Mediterraneo?

Sicuramente abbiamo visto un aumentare della violenza nei confronti delle Ong: prima ci sono state delle dichiarazioni, poi le azioni di disturbo nei vari porti, fino ad arrivare al sequestro delle navi. Sulle azioni di disturbo, ad esempio, noi una volta siamo stati bloccati perché avevamo del pane nel congelatore, sulla base di normative per le navi da crociera non certo per le rescue boat.

Quindi siamo passati da azioni violente a livello verbale, a delle azioni violente a livello materiale, come quelle della Guardia Costiera libica – finanziata dall’Unione Europea e addestrata dall’Italia – che mette in atto delle vere e proprie azioni di pirateria, praticamente autorizzate o comunque accettate dall’Italia. Ricordiamo che nessuno ha spiegato chi sta ricevendo soldi in Libia, chi sta ricevendo addestramento e istruzioni dall’Italia. Quali equipaggi sono stati addestrati dall’Italia e da quello che sappiamo anche dalla Spagna?

Non è la prima volta, invece, che vediamo le Ong sotto accusa, con la magistratura che porta avanti investigazioni sommarie, questa estate ci fu la Procura di Catania e poi Trapani, Siracusa, Palermo, senza però mai arrivare a giudizio. Perciò c’è un aumento della violenza con lo scopo di farci sparire da dove siamo, perché costituiamo un fattore di disturbo per le politiche di esternalizzazione delle frontiere. Si sta effettivamente venendo a delineare un ‘reato di solidarietà’, perché nonostante noi operiamo nella cornice del diritto internazionale, nel rispetto dei diritti umani e della legalità, si trovano degli escamotage per riuscire a bloccare, frenare e far sparire chi opera i salvataggi in mare.

Quello che accade qui nella frontiera sud è lo stesso che sta accadendo nella frontiera nord, tra Francia e Italia, tra le montagne, dove persone che aiutano altre persone in difficoltà, in situazioni critiche e di emergenza, vengono fermate e messe sotto accusa. Le morti che avvengono sia nel Mediterraneo che sulla frontiera alpina, sono morti totalmente evitabili, se si organizzassero delle semplici operazioni di salvataggio, per poi, in un secondo momento comprendere come gestire i flussi migratori. Ma queste operazioni di salvataggio non vengono organizzate e si cerca di fermare chi lo fa.

Qui si vogliono presentare le Ong come dei freak che sono partiti per fare delle operazioni di attivismo politico. Al contrario la nostra nave Open Arms è formalmente una nave di salvataggio, immatricolata come una rescue boat, quelli che abbiamo a bordo, benché siano tutti volontari, sono specializzati in operazioni di salvataggio, sommozzatori, addetti alle ambulanze, persone che hanno sulle spalle 15.000 soccorsi con l’elicottero, 8.000 incendi… queste sono operazioni di salvataggio messe in atto dalla società civile, che sta sopperendo a ciò che  l’Unione Europea dovrebbe fare ma non sta facendo.

Nonostante sia l’antimafia a indagare sul nostro conto, è bene sottolineare che noi operiamo nella cornice della legalità, rispettando le convenzioni di diritto internazionale che ci obbligano a fare ciò che facciamo: se avessimo riconsegnato le persone che stavamo salvando alla Guardia Costiera libica, avremmo violato la Convezione di Ginevra sullo status di rifugiato e il principio di non- refoulement. Dal luglio del 2016 operiamo nel Mediterraneo, ma forse di punto in bianco è cambiato qualcosa.

Perché ci sono le Ong a fare i salvataggi nel mare Mediterraneo?

Fino al 2014 c’è stata l’operazione Mare Nostrum che ha salvato all’incirca 175.000 persone in un anno, dopodiché non c’è stata più alcuna operazione di salvataggio coordinata. Frontex non organizza i salvataggi ma fa solo polizia di frontiera, non esistono operazioni di salvataggio europee, perciò le Ong sono andate in mare perché stava morendo molta gente. Oggi le Ong portano a compimento quasi il 44% dei salvataggi in mare. Fondamentalmente, l’Unione Europea non ha organizzato nulla di uguale o simile a Mare Nostrum, rimangono, quindi, solo operazioni di controllo della frontiera e poco più.

Se oggi allontaniamo le Ong e facciamo controllare le coste alla Guardia Costiera libica, probabilmente arriveranno molte meno persone in Italia. Se non ci saremo noi, ci saranno più morti, ma non ci saranno le immagini di quello che accade. Non ci saranno le immagini della Guardia Costiera libica che picchia le persone che dovrebbe soccorrere, le immagini di chi muore affogato o nessuno racconterà più la storia di Segen, il ragazzo che abbiamo salvato dal mare ed è morto pochi giorni dopo di fame. Così se non vediamo le immagini, potremo dire che forse quelle realtà non esistono e  continueremo a vivere nella nostra bolla di sapone, senza farci domande su come vengono usati i i nostri soldi in Libia.

Perché nonostante tutto avete deciso di continuare a operare nel Mediterraneo? 

Semplicemente perché continua a morire gente in mare. Noi siamo coscienti di quello che sta succedendo nel mar Mediterraneo, anche se non si dice, non si racconta e quasi non si è parlato di Segen, morto di fame e di stenti. Noi continuiamo a farlo perché c’è bisogno, le Ong si sono organizzate perché c’era bisogno e continueremo a farlo finché ce ne sarà bisogno e finché ce lo permetteranno, ma è evidente che non vogliono più permettercelo.

Però non tutte le Ong hanno continuato a farlo…

No, ora siamo al secondo sequestro di una nave di una Ong, ci sono alcune Ong che si sono spaventate, si sono sentite con le spalle al muro per il codice di condotta, noi non lo abbiamo mai pensato e non lo pensiamo neanche adesso. Infatti  stiamo già cercando un’altra nave da usare; se non ci ridanno la Open Arms, ne avremo un’altra.

Come proseguirà la vostra campagna contro il sequestro della vostra nave? 

La campagna di solidarietà per la Open Arms è nata da sola, non l’abbiamo organizzata. Noi abbiamo solo dato appoggio a chi ci stava dando appoggio e questo ci fa capire che c’è ancora tanta gente che è contro questo tipo di politiche e che rispetta il nostro lavoro. Fino a mercoledì siamo in attesa del verdetto del giudice dell’indagini preliminari.

Siamo interni al processo della carta di Milano nata appunto per sostenere chi in Italia e in Europa opera affinché la nostra umanità non sia cancellata. Una società civile non può accettare che le azioni di solidarietà siano incriminate.

Non è semplicemente Open Arms il problema, ma si stanno attaccando per tutte le azioni di solidarietà. Noi non abbiamo violato alcuna legge, ci si aggrappa ai cavilli, come il codice di condotta, che non è nemmeno una norma giuridica, visto che  ciò che bisognerebbe rispettare è il diritto internazionale e i diritti umani.

Chiunque veda un incidente e non faccia niente per aiutare le vittime compie un reato di omissione di soccorso. L’Unione Europea e i suoi stati membri stanno compiendo un reato di omissione di soccorso nei confronti di tutte queste persone che vengono abbandonate sui nostri confini.