OPINIONI

Elezioni francesi, segnali di ripresa a sinistra. O della “grande politica”

Il successo di J.-L. Mélenchon al primo turno delle presidenziali francesi non è sufficiente a mandarlo al ballottaggio ma costituisce un segno ben più importante di riscossa della sinistra su scala europea

Perplessi pigolano i barbieri atlantisti di Roma nord (copyright Nero/Not), più fatuo Cerasa, più preoccupato il Fondatore; Cazzullo sul “Corriere” constata che le “frattaglie populiste” stanno oltre il 50% e teme che «ancora una volta la campagna di Notre-Dame suoni per tutti noi». Ma la notizia non è quella del rischioso ballottaggio Macron-Le Pen. Oggi davvero vacillano gli stendardi insanguinati del neo-liberalismo e dell’autocrazia putiniana e si profila un giorno di gloria per la ricomposizione della sinistra – chiamiamola per il momento così e guardiamola da lontano, dalla sventurata Italia.

I dati del primo turno delle presidenziali sono noti. In gara per il ballottaggio fra due settimane sono Macron con un risicato 27,6% e Le Pen con il 23,4%, mentre Mélenchon è terzo con un imprevisto 21,9%. All’estrema destra Zemmour non supera il 7,05%, mentre i partiti tradizionali si disgregano (i gollisti di Pécresse scendono al 7% e i socialisti di Hidalgo crollano sotto il 2%) e a sinistra regna uno sparpagliamento suicida (il Pcf di Roussel al 2,31%, due formazioni estreme sotto l’1%, mentre la grande promessa verde di Jadot racimola appena il 4,58%= – basti pensare che, se avessero desistito, al secondo turno ci sarebbe andato Mélenchon e non Le Pen!

Tuttavia, prima considerazione, il successo di Mélenchon ha ragguardevoli aspetti qualitativi, se si guarda all’aspetto generazionale e alla distribuzione geografica – nel contesto di frattura non tanto fra “alto” e “basso” quanto fra ceti medio-alti urbani e France périphérique delle campagne e delle banlieues cittadine.

Méluche è il candidato più votato (31%) nella fascia d’età 18-35, con punte del 34% (contro 25% di Macron e 17% di Le Pen). È in testa in Île-de-France – eccetto Parigi, dove pure si impone con risultati maggioritari nella fascia nord delle banlieues (48%) e in zone popolari come il 19° arrondissement (46,1%). Sensazionale il successo nei dipartimenti d’oltremare (oltre il 50% in Guadeloupe!): evidentemente tanto sovranista non appare agli occhi di immigrati, indigeni nativi e métèques assortiti…L’antica candidata socialista Ségolène Royal ha francamente riconosciuto che «la sinistra non è più il Partito socialista» o altre formazioni egocentriche e pulviscolari, ma France insoumise, il cui successo fra i giovani e nei territori d’oltremare lo qualifica come target del “voto utile” anche in futuro.

Il risultato riflette – seconda considerazione – non solo il generico e diffuso scontento per il quinquennio della Macronie (come pretendono le chiacchiere francesi e italiane sulla presunta ondata populista), ma l’adesione a un preciso programma politico, che ha saputo coniugare interessi immediati )inflazione, carovita) e scelte lungimiranti di politica estera (abbandono della Nato e simultanea denuncia delle responsabilità esclusive di Putin nella guerra ucraina) e istituzionali (smantellamento della V Repubblica, nuova Costituzione con allargamento dei diritti, morte degna compresa). Partendo da una situazione più avanzata di quella italiana (35 ore, salario minimo, pensione a 65 anni, cospicui assegni familiari e misure per le famiglie e le madri single).

Mélenchon ha proposto il blocco dei prezzi dei beni essenziale ed energetici, l’aumento del salario minimo (SMIC) a 1.400 euro, l’età pensionabile a 60 anni (a pieno regime con 40 anni di contributi), la ricostruzione della sanità pubblica con l’assunzione di 100.000 nuove unità, l’abbandono degli allevamenti intensivi e dell’uso dei pesticidi, l’uscita dal nucleare.

Quali sono le prospettive per il secondo turno elettorale, quando la scelta è fra soli due candidati e ovviamente l’astensione? A fianco di Macron – ma sarebbe più esatto dire “sotto” Macron, portando in regalo un misero bottino di voti – si sono schierati la gollista Pécresse, la socialista sindaca di Parigi Hidalgo e il comunista Roussel. Con Marine Le Pen corrono il deluso Zemmour e un altro candidato di estrema destra, Dupont-Aignan, nonché una fetta dei gollisti.

Mélenchon non ha dato indicazioni positive di voto, limitandosi a negare (con enfatica ripetizione) qualsiasi aiuto a Le Pen. Per non saper né leggere né scrivere, la stampa mainstream ripete che si tratterebbe di un corpo elettorale diviso in tre parti equivalenti: sostegno a Macron, a Le Pen e astenuti. In realtà l’operazione di Méluche è più sottile e differisce dalle scelte astensionistiche passate.

Infatti egli punta a tenere unito il suo movimento in vista delle elezioni legislative di giugno, quando Macron (probabile ed esausto vincitore del ballottaggio) si ritroverà senza maggioranza parlamentare (e anche senza partito di riferimento), un’anatra zoppa costretta a trattare non con promesse a perdere (come fra due settimane), ma giorno per giorno per realizzare il programma. Allora ha cominciato a girare in ambienti vicini al leader l’ipotesi di imporre a Macron una coabitazione (come fu la più recente, 1997-2002, fra il Presidente gollista Chirac e il Primo ministro socialista Jospin), insomma una negoziazione effettiva della composizione e del programma dell’esecutivo, quale consentita dal semi-presidenzialismo costituzionale, in cui il governo deve riscuotere la fiducia dell’Assemblea nazionale.

Per rendere credibile tale operazione Mélenchon non può disperdere la sua base e deve fornire un sostegno di breve durata a Macron dal ballottaggio a un’eventuale trattativa di giugno – cosa ben diversa da un sostegno a scatola chiusa e che Macron accetterebbe soltanto se messo con le spalle al muro.

Al di là di queste ipotesi di police (come direbbe Rancière) o politique politicienne, si stende la prateria delle grandi scelte di indirizzo, della politique – e qui il voto di ieri significa l’avvio di una ricostituzione di uno schieramento di massa a sinistra o dal basso rispetto all’élite tecnocratica, ai frutti marcescenti della finanza, delle grandi scuole e di SciencesPo (basti ricordare Marc Lazar ed Enrico Letta), la cui arroganza di classe ha corroso le pretese egemoniche di Macron come, in Italia, di Draghi.

Purtroppo in Italia siamo ancora molto distanti da una situazione come quella francese. Da noi (e perfino per i nostri sindacati) è fantascienza non dico un salario minimo di 1.400 euro ma la stessa legittimità di un salario minimo. Per non parlare della guerra, vista non come un (deplorevole) fatto del mondo, ma come un ideale di vita e occasione di disciplina sociale – lavarsi con l’acqua fredda d’inverno e soffocare d’estate, impiegando le risorse energetiche per produrre e consumare armi e distruggere l’ambiente.

Tuttavia un segnale in controtendenza è partito da oltralpe: qualcosa che con desueta terminologia potremmo chiamare “sinistra” è tornato alla luce, si sta riorganizzando e fa politica di massa.

Può giocare un ruolo da noi e in Europa, arginando la corsa alla guerra e al nazionalismo, contrastando il collasso ecologico e l’olocausto nucleare, dando voce ai bisogni e ai diritti delle masse?

Fra il crudele aprile e le legislative di giugno intercorrono settimane e mesi decisivi, un Primo Maggio che potrebbe rinnovare un altro joli mai e le contestazioni dei Gilets Jaunes, l’imprevedibile svolgimento della guerra in Ucraina, la stessa crisi di governo che le destre minacciano a breve in Italia per la difesa di evasori fiscali e speculatori immobiliari.

Stay tuned.

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