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Discorsi sul metodo. A colloquio con Lou Palanca

#4 Conflitto esperienza letteratura. Come lavora un collettivo di scrittura? Che rapporto ha con la memoria storica e quella collettiva? Come cerca il materiale? Lo abbiamo chiesto a Lou Palanca, nome comune di cinque catanzaresi tornati da poco in libreria con “Ti ho vista che ridevi”

Prima di entrare nel merito vi forniamo qui, brevemente, il sunto dei due romanzi scritti finora dai Lou Palanca, con la promessa di tornarci su, o meglio dentro, in futuro.

“Ti ho vista che ridevi” è un viaggio, fisico, emotivo, esistenziale sulle tracce di una madre sconosciuta e di una migrazione poco narrata, quella matrimoniale. Si parte da Riace e si torna a Riace, attraversando le vicende storiche degli anni ’60 e dell’Italia contemporanea. Una strategia narrativa, quella che incrocia destini personali e memorie collettive, già sperimentata nel primo romanzo del collettivo “Blocco 52: una storia scomparsa, una città perduta”. Questa prima opera ha riportato alla luce l’omicidio, mai risolto, del dirigente del Pci e sindacalista Luigi Silipo, ucciso a Catanzaro il 1 aprile 1956. Un evento dimenticato, o meglio rimosso, come molti altri traumi della nostra giovane e precaria repubblica.

(qui potete trovare una bella intervista di Wu Ming, in occasione della presentazione del libro a Bologna, nel maggio del 2013)

Lou, che ruolo ha il recupero e la trasmissione di memoria nel vostro lavoro?

La memoria ha certamente un ruolo centrale nella nostra scrittura. Non vorremmo farla troppo lunga sulla tradizionale memoria corta del nostro Paese, né replicare con un po’ di alterigia il giudizio così diffuso sui tempi superficiali e conformisti che attraversiamo. E’ che noi desideriamo solo raccontare delle storie, e le storie vanno pescate nel passato. E ancora, la nostra formazione politica, il grumo di valori, ideali, bisogni e speranze che tiene insieme i membri del collettivo Lou Palanca ci impone di cercare queste storie tra quelle meno famose, quelle che agitano il mondo degli umili, dei dimenticati. [In Blocco 52] Prima di scrivere, ci ha unito la mobilitazione finalizzata a salvare le carte del Processo di Piazza Fontana e poi un’inchiesta sulla morte violenta dell’operaio Malacaria, ucciso durante una manifestazione neo-fascista. A pensarci bene, potremmo spingerci a dire che la trasmissione della memoria è la nostra ragion d’essere.

Qual è l’archivio? Si tratta di una memoria ricavata dalla cronaca e dai giornali, dalle relazioni personali o da una vera e proprio ricerca sul territorio? E come procede questo lavoro: esiste una divisione di ruoli all’interno del collettivo?

Usiamo dire che le storie esistono e chiedono di essere raccontate. Nei nostri due romanzi ci siamo imbattuti casualmente prima in un omicidio tanto eccellente [in Blocco 52] quanto rapidamente dimenticato, poi nella vicenda delle “calabrotte”, delle donne che emigravano individualmente per sposarsi [in Ti ho vista che ridevi], mentre masse di uomini contemporaneamente emigravano per lavoro.

Si è trattato di incontri imprevisti e fulminanti. Erano storie che ci “chiamavano”, che rimanevano lì, in attesa di essere narrate. Dalla curiosità che ci hanno suscitato è partita la nostra ricerca, che definiremmo disordinata e appassionata. Abbiamo lavorato con fonti orali, documentali, abbiamo cercato sui territori come sul web: tutti gli strumenti dell’inchiesta si sono rivelati utili. Dopo di che, vero e verosimile, fiction e no fiction si mescolano nei romanzi. Certamente esiste una divisione dei ruoli (più implicita che esplicita) all’interno del collettivo, ma senza limiti invalicabili. Anzi intrusioni e commistioni sono il sale del nostro lavoro comune.

Potreste indicare in una successione di punti, che vanno dall’ideazione alla produzione, la struttura del vostro lavoro?

Queste prime esperienze ci hanno insegnato che non esiste un metodo univoco di lavoro. O perlomeno, anche perché non siamo scrittori professionisti e le nostre scelte sono condizionate dalla disponibilità di tempo che ciascuno effettivamente riesce a ricavarsi, possiamo dire che per noi non esiste un metodo standard.

In Blocco 52, abbiamo individuato collettivamente tempi e scenari, ma poi abbiamo proceduto secondo istinto, attraverso uno scambio via e-mail di file sempre più consistenti. Ognuno sviluppava uno o più personaggi, con qualche incursione da parte degli altri, seppur marginale. Solo approssimandoci al termine della scrittura, abbiamo cominciato a ricomporre l’insieme e ad indirizzarlo verso la sua conclusione.

Ti ho vista che ridevi è stato invece molto più progettato, pensato, discusso. I ruoli, i tempi, gli incroci sono stati determinati in maniera più precisa, seppur per approssimazione. L’editing è stato più approfondito. I personaggi meno improvvisati. La struttura circolare del romanzo ci ha guidato in maniera più rigida e le fughe in avanti sono state dal principio più contenute.

Dopo cinque anni l’affiatamento raggiunto ci consente di adattare alle esigenze concrete ogni meccanismo, tanto che il terzo lavoro è iniziato in maniera completamente difforme dai precedenti. L’unica regola che teniamo ferma è quella dell’unanimità: non votiamo mai su quello che scriviamo e si decide tutto insieme, perché quello che pubblichiamo non è la sommatoria di più volontà ma, per l’appunto, la trascrizione di una voce unica.

Indagare il passato è ricostruire o sbriciolare una identità – collettiva o individuale. Chi è o che cosa rappresenta Luigi Silipo nella storia contemporanea italiana? E la sua vicenda quali connessioni attiva oggi?

Quella di Luigi Silipo è una storia di mezzo secolo fa. Non per niente il sottotitolo del romanzo è “una storia scomparsa, una città perduta”. La sua rimane una vicenda tragica e misteriosa, che ci ha consentito di indagare nell’animo di una città che in questi decenni si è trasformata vertiginosamente, come tutte le città del mondo e che in questa trasformazione ha in gran parte perduto anima e memoria. Le connessioni che la sua vicenda attiva oggi – ricordiamo il saggio di ricostruzione giornalistica da poco pubblicato da un ottimo giornalista calabrese (Lo strano delitto, di Bruno Gemelli) – sono essenzialmente quelle di interrogativi che Catanzaro e il Sud dovrebbero porre a sé stessi, una volta tramontato il mito dello sviluppo senza regole, del posto pubblico, della modernizzazione senza valori. E altrettante domande si sono sviluppate – intorno alle presentazioni, alle discussioni sul libro – sul vuoto che ha lasciato quell’esperienza di impegno e passione che Silipo incarnava e che è stata governata dal Pci fino alla sua scomparsa. Abbiamo davvero provato in questo Paese ad essere altro, a forgiare il destino. Il dramma non è non esserci riusciti, il dramma è averlo dimenticato. Così rapidamente, così radicalmente.

Avete affermato: è molto più difficile per un collettivo di scrittura provare a produrre un romanzo psicologico, una narrazione basata sull’individuo, piuttosto che una vicenda corale, una “epopea”. Questa affermazione, in certa misura, fa il paio con l’urgenza di cui abbiamo detto: ricostruire la relazione fra la narrazione e la prassi – raccontare esperienza, acquisire consapevolezza, maturare coraggio , affinare gli strumenti. Ma è anche un modo per accettare la sfida lanciata alla letteratura dalla cronaca quotidiana. Insomma, è più urgente spiegare come sono andate le cose, che raccontare come ci si sente?

Sì. Più di ogni altra cosa quello che ci preme è raccontare come è che andata la storia quando la si osserva dal punto di vista dei suoi veri protagonisti. Ma dobbiamo aggiungere che indubbiamente risulta molto difficile per un collettivo scrivere un romanzo che non sia corale. E’ la stessa ontologia collettiva a determinarlo. E’ forse il nostro limite ed insieme la nostra forza, anche se certamente non rinunciamo a narrare di noi stessi attraverso le storie che raccontiamo.

In questi cinque anni di esperienza dobbiamo ammettere che il risultato principale, più gratificante, ma anche più importante del nostro lavoro collettivo è senz’altro quello di scrivere storie che piacciano ai lettori ed alle lettrici. Che sappiano coinvolgere, emozionare, commuovere, a volte. Con Ti ho vista che ridevi avevamo pensato di avere scritto un’opera di carattere prevalentemente storico-sociologico ed abbiamo invece scoperto che veniva apprezzata anche per i suoi profili sentimentali. E’ urgente raccontare come sono andate le cose, dunque, ma non bisogna rinunciare a farlo con strumenti complessi, che muovano leve differenti nell’animo del lettore. La relazione fra la narrazione e la prassi, fra la letteratura e la cronaca quotidiana non può, per noi, essere racchiusa in una formula o in una regola: può esplicarsi unicamente nella scrittura, nell’atto di scrivere e nell’impatto che esso alla fine produce sul lettore.

Calabria, omicidio, lotta politica: che responsabilità si assume un collettivo di scrittura che affronta queste vicende (nei confronti del territorio, del ricordo, del ruolo della letteratura)?

Diciamoci la verità: noi scriviamo perché ci piace, perché ci appassiona e perché ci divertiamo a farlo insieme. La Calabria, il sangue che l’ha macchiata, il fuoco della passione politica sono ingredienti delle nostre vite che cerchiamo di mantenere vive, e vitali, in molti modi. Uno di essi è scrivere.

Non crediamo di avere responsabilità verso l’esterno, piuttosto crediamo di avere responsabilità verso noi stessi: il nostro percorso individuale e collettivo (di impegno, di attenzione verso la giustizia sociale, di contrasto alle mafie e alla devastazione del territorio, di rifiuto della rassegnazione) ci impone di trovare forme e strumenti capaci di alimentarlo. Nelle scuole, nei pub, nelle ville comunali, nelle librerie raccontiamo di Luigi Silipo e di Dora Lucà per dire, in fondo, che qui come altrove si vive e si muore, alcuni distrattamente e coltivando il proprio orticello altri con la schiena dritta e gli occhi pieni di dignità.