OPINIONI

Decamerone 2020: nelle pieghe dell’epidemia

Narrazioni in tempi di epidemia: verso la crisi, con l’Italia allo sbando ma gli altri non stanno meglio

Quando, nel 1348, pervenne la mortifera pestilenza la quale, per operazione dei corpi superiori o per le nostre inique opere, nelle parti orientali incominciata, verso l’Occidente miserabilmente si era ampliata, si radunò una lieta brigata, ben decisa a sottrarsi ai miasmi cittadini per segregarsi in luogo ameno e distrarsi con molti sollazzevoli racconti.

Iniziarono dunque le narrazioni.

E nella prima giornata, a tema libero, alcuni proposero di bloccare ai confini tutti i cinesi e musi gialli assortiti, di linciarne qualcuno per strada e di evitare trattorie e merci etniche, i più avveduti puntarono subito al blocco dei barconi africani, provenienti da paesi con cui non avevano lucrosi affari e su cui avevano già sperimentato respingimenti, quarantene ed esorcismi in nome del Cuore Immacolato di Maria.

E nella seconda giornata si alzarono sciamani e griot, albergatori dell’isola Mauritius e tutti i sovrani mediorientali e l’amica Israele e accusarono gli europei bianchi di portare il contagio nelle loro terre, poi furono specifici: i bianchi italiani. Poi furono ancora più specifici: i bianchi italiani di ceppo padano e veneto, mettiamoci i sudditi FVG di Fedriga per sovrappiù. A questo punto si associarono anche i nazionalisti serbo-croati e perfino macedoni e bosniaco-erzegovini e infine spagnoli, britannici, francesi e da ultimo Trump, per cui gli italiani, compreso il caro Giuseppi, sono sempre un po’ negroidi e brown (latinos, no?).

E nella terza giornata, quando il turismo si fu dimezzato, le grandi navi da crociera sparite dalla Laguna (non tutto il male vien per nuocere), boicottate e autoboicottate le merci made in Italy, i sovranisti cominciarono a piatire: siamo i profughi del mondo, cosa fanno le Ong, all’estero ci guardano male, dicono che portiamo le malattie e deprimiamo il mercato del lavoro. Prima i padani, prima gli italiani! Ma mica siamo italiani, padani noi? Fateci sbarcare, niente quarantena, lui è razzista, io sono terrone, guarda la maglia: Vesuvio, mica Lega, pizza no polenta. Agamben denunciò con accenti elevati che l’Italia tutta si stava trasformando in un enorme esperimento di controllo sociale, la forma lager con i treni di Eichmann, mentre purtroppo le freccerosse si arenavano fra Casalmaggiore e Lodi. Ci furono fiabe fantasy sulla quest del paziente zero, mentre un fiorentino del contado spiegò che, se fosse passato un suo remoto referendum, ‘azzo, non ci sarebbe stato verun contagio.

E nella quarta giornata, spaventati dal sospetto di imminente crollo economico e di lazzaretto internazionale, attaccarono con le ninnananne: che era una banale influenza e che gli altri paesi non usavano tamponi né termometri, per questo non risultavano malati. E che comunque, anche in caso di malattia, un rimedio l’avevano trovato: un bel governo di unità nazionale, così rimettiamo Salvini agli Interni, Renzi alla Giustizia, Giorgetti all’Economia, risarciamo gli industriali del Nord, gli albergatori un po’ dovunque, facciamo sparire il reddito di cittadinanza e i suoi portatori sani pentastellati. Ogni Regione farà storia a sé, continueremo a tenere chiuse teatri, biblioteche, scuole e università, ché tanto ne vengono fuori solo dubbi e pensieri sgradevoli, e infine riapriremo movida, fiere e saloni che sono soldi e allegria. Naturalmente riprendiamo a bloccare i barconi, perché un capro espiatorio bisogna pur averlo, tanto la forza lavoro necessaria in qualche modo filtrerà sotto costa. Si cominciò con il votare unanimi (salvo Sgarbi, che Allah ce lo conservi) il decreto anti-coronavirus, accantonando la revisione dei decreti Salvini, poi iniziò la sfilata degli union-nazionali al Colle e i dem indignati proclamarono: mai con la Lega! – come ieri: mai con i 5 Stelle? Invece la Sardina-capo scese da Maria De Filippis, con la stessa pulsione suicida del governatore Fontana che tenta di mettersi in diretta la mascherina.

 

Per ora non possiamo portarci più avanti con il resoconto, ma qualche anticipazione sulle giornate successive possiamo azzardarla. Guardando anche al di là dell’isteria italiota – quella sì contagiosa anche oltre i confini.

La prima domanda è: come mai, a fronte di un’epidemia diffusiva ma a bassa letalità, crollano tutti gli indici econometrici – dalle Borse alle previsioni di rating sul, Pil, e non solo quello ansimante italiano? E parliamo di Wall Street, non solo delle Borse europee, delle tendenze di tutto l’Occidente e della Cina, non solo di un’Italia già da prima in recessione tecnica. Questo divario non nasconde una crisi incipiente, del resto da molti preconizzata già prima di Wuhan?

L’altra ipotesi, che già si sta delineando al di qua e al di là delle Alpi, è che l’epidemia stia diventando endemica, che cioè ci sono ormai focolai e ceppi virali autoctoni, non spiegabili con contatti con il primo focolaio cinese e comunque assai retrodatabili. Quale ne sia la causa, è evidente che questo prolungherà i tempi del contagio, almeno fino a quando non si troverà un vaccino efficace. Non è la peste, d’accordo, ma gli effetti economici si protrarranno e la mobilità delle merci e delle persone resterà a lungo intralciata, sommandosi ai dazi, alla Brexit e alle campagne anti-migranti (africani, asiatici ed europei allogeni).

Allora – questo è il punto fondamentale – l’epidemia sta forse intensificando una crisi della globalizzazione già in corso e di cui sovranismo e xenofobia sono gli indice politici e culturali. Colpisce e molto che l’epidemia sia la concretizzazione naturalistica della crisi, una tappa e un’anticipazione in veste “clinica”, una biopoliticizzazione terrorizzante di una crisi strutturale dei rapporti di produzione e distribuzione. Quasi un tentativo di governare per catastrofi quanto ormai appare ingovernabile in termini istituzionali sul piano politico e dei mercati. In altre parole: senza che stia operando un soggetto intenzionale (l’opposto di quanto lascia pensare Agamben) si sta delineando una gigantesca allegoria del collasso della globalizzazione per eccesso di complessità, un allarme virale che prelude alla presa d’atto di una nuova crisi tipo 2008, imputabile stavolta a un morbo e non a esposizione delle banche con i subprime. In entrambi i casi la sintomatologia e l’eziologia nascondono un momento di dissesto del capitalismo neoliberale e della sua gestione post-democratica, che si manifesta come sventura naturale (una volta l’epidemia, un’altra il degrado ambientale) – che ovviamente ne è l’effetto. E da cui è forte la tentazione di uscire con lo stato d’emergenza interno o con la guerra (stiamo attenti al fronte di Idlib) – nel qual caso soltanto si passerebbe da automatismi anonimi a decisioni catastrofiche intenzionali. Il problema si porrà anche per Trump in campagna elettorale.

Stiamo andando troppo avanti? Verificheremo nei prossimi giorni, osservando lo stato di Europa e Usa, dopo la constatazione dei già evidenti inconvenienti cinesi e italiani.

Per tornare al nostro Paese, dopo le scomposte docce scozzesi di allarmismo e più che sospetta euforia, autonomia differenziata regionale e vampate di neo-centralismo, sovraesposizione mediatica al limite del terrorismo (e del ridicolo. Fontana e Burioni sopra tutti, ma anche le 17 comparsate domenicali di Conte in Tv), dichiarazioni contrastanti e immancabile intervento dei Tar, si profila un tentativo, destinato a fallire nel breve periodo ma non so quanto alla lunga, di governo di unità nazionale, per ora promosso attivamente dai perdenti (Salvini e Renzi) e assai snobbato da FI e dalla rampante Meloni. Per ora il Pd resiste e riluttano, per comprensibile paura elettorale, Conte e il M5S: non sarà il coronavirus a schiodarli. Ma l’arrivo di una crisi economica non risolleverà il problema? Molti segnali vanno proprio in questa direzione: lasciar sbollire il virus e dichiarare l’emergenza sulla recessione. E allora si dovrà farvi fronte con un rilancio di contenuti, non con una difesa passiva, occorrerà mettere a tema la logica del neoliberalismo e questo non vedo chi e come potrebbe farlo. Ma tale è l’orizzonte incombente.

Abbiamo ancora varie giornate per raccontarvelo.