MONDO

Dal Rojava al Guatemala. In dialogo con Lorena Kab’nal e la Rete delle Sanatrici Ancestrali

Un dialogo che unisce la lotta in Rojava con quella che porta avanti la Rete delle Sanatrici Ancestrali in Guatemala. Un incontro con la femminista comunitaria Lorena Kabnal e le altre compagne della rete, un ponte tra culture e popoli, una complicità tra donne in lotta contro il patriarcato

La Rete delle Sanatrici Ancestrali è nata in Guatemala il 12 ottobre 2015, nel Giorno della Resistenza Indigena contro l’invasione coloniale del continente latinoamericano. Creata da donne che hanno vissuto e vivono le conseguenze della criminalizzazione per la loro lotta nel territorio, la Rete delle Sanatrici Ancestrali genera processi di guarigione accompagnando le donne che si battono in difesa della terra e della vita.

«È un tessuto comunitario che nasce dalla montagna, dove nasce lo slogan “Il mio corpo è il mio primo territorio di difesa” e “Difesa del territorio-corpo-terra”» dice Lorena Kab´nal, con voce fluida e decisa. La rete conta e lavora con donne pioniere nel sollevare resistenze, proteste, passeggiate, denunce. «Ma quando questo corpo si ammala» – si esprime con veemenza Lorena – «quando siamo colpite emotivamente-fisicamente-spiritualmente, è quando abbiamo bisogno di essere amorevolmente sostenute». Ci riuniamo in territorio resistente in Guatemala-Iximulew per ore e ore intorno al fuoco cerimoniale, condividendo un energico processo di sanazione.

Parte del dialogo che abbiamo avuto, qui riportato, ha intrecciato l’esperienza della resistenza in Rojava-Kurdistan con le esperienze delle donne in lotta per la difesa del territorio in Guatemala, tra memorie ancestrali e la profonda dignità di una ribellione amorosa e plurale

Da quale esigenza sorge la Rete delle Sanatrici Ancestrali?

Sorge nel momento in cui si rafforza la proposta del femminismo comunitario territoriale per sanare il corpo-terra-territorio a partire da una lotta antipatriarcale. Anche se siamo state accusate da alcune femministe di investire la nostra energia politica con gli uomini. Attraversiamo spazi cerimoniali dove si trovano bambini, anziane, leader sociali, autorità indigene ed è lì che lottiamo come femministe del territorio, lottiamo per stare nella comunità e mettere lí i nostri corpi.

I tessuti della comunità sono plurali nella rete della vita e non stiamo spendendo male le nostre energie per trasformare il rapporto con i nostri compagni. Mi dichiaro pubblicamente femminista ed essere femminista nella comunità e nominarmi come tale in Guatemala porta a vedere che ci sono relazioni che dobbiamo segnalare chiaramente: di proprietà, di controllo. Ma c’è qualcosa oggi che non è negoziabile: che vengano a tutelarci.

Incluso qualsiasi femminismo è chiamato in causa nei nostri territori d’origine, se viene a tutelarci. Ci riferiamo ai femminismi egemonici e non vogliamo più egemonia in questo territorio-corpo- terra, se vogliono dirci come dovremmo emanciparci. Molte tra le femministe radicali, ad esempio, hanno messo in dubbio la presenza delle sorelle trans, le sorelle intersessuali tra noi. Qualsiasi femminismo che voglia ordinare per noi la vita in comunità è qui messo in discussione.

La nostra rete promuove incontri separati di sole donne, ma allo stesso tempo viviamo in comunità e abbiamo autorità epistemica politica, spirituale e territoriale non solo in gruppi separati, ma anche in gruppi misti. E sottolineiamo che qui ci sono corpi plurali.

Perché qui la vita è plurale per principio di cosmogonia e non dobbiamo discutere o imporre su questo, perché siamo stanche delle teorie femministe: qui abbiamo autorità epistemica territoriale e spirituale ma la razionalità femminista occidentale è così naturalizzata che ci hanno spogliato del sentimento politico per la vita. Perché le nebulose teoriche epistemiche di razionalizzazione non risolvono problemi. Sono belle, sono vitali e necessarie. Ma, ogni giorno, il corpo beve acqua, mangia frutta, verdure, semi e come si sostiene se non con il rapporto della vita con la terra? E cosa facciamo se non difendiamo la foresta e l’acqua?

Che lavori portate avanti come rete?

Siamo partite dal risvegliare la memoria curativa delle donne. È molto importante condividere tra le donne una conoscenza che ci rafforzi e ci allinei e che porti la memoria ancestrale delle donne in contatto con i modi di abitare i territori, perché questi hanno generato resistenze a volte non nominate con coscienza.

Molte pratiche mediche vengono naturalizzate, ma gli elementi vitali vengono tralasciati quando si parla di resistenza delle donne nel contesto della guerra. È molto complesso, perché nei contesti di conflitto armato, molta indignazione e paura vengono interiorizzate e il corpo genera un impressionante sistema di allerta. Perché siamo circondate da così tante situazioni pericolose per la vita, che l’indignazione provocata dal sistema patriarcale, dalla guerra, si rifugia negli organi. Somatizziamo. Il sistema patriarcale non è astratto: è reale e concreto nei nostri corpi. I tumori, ad esempio, hanno molto a che fare con la forza patriarcale sui territori e sui corpi delle donne.

La rete presuppone che un femminismo che non ha di base l’autodeterminazione della terra e dei corpi non abbia sostenibilità politica come corrente teorica, lo mettiamo in discussione perché non si può parlare di corpi liberi autodeterminati emancipati se questi corpi mangiano mais transgenico o vivono in un territorio di monocoltura diffusa. La proposta di risanamento come percorso cosmico- politico consiste nel recuperare la conoscenza delle donne che ci hanno preceduto nella resistenza o di donne a noi contemporanee.

Mentre siamo in cammino per andare agli incontri, le compagne si uniscono a noi per sanare, guarire, stare insieme e provar piacere, lasciarsi andare e ritrovare vitalità ed energia: facciamo molta catarsi, questo é un elemento che aiuta molto. Ci sono momenti in cui le nostre compagne di lotta stanno attraversando una situazione personale molto complessa e hanno bisogno di essere sostenute da noi. È molto importante saper ascoltare, abbracciare, perché la parola è qualcosa su cui il sistema patriarcale ha esercitato molto potere.

Ma la parola guarisce anche il dolore che abbiamo. Quando diciamo percorso cosmico-politico in connessione con la conoscenza delle nostre antenate, significa che le portiamo nei nostri spazi. Risvegliamo la memoria curativa convocando nella cerimonia le nostre antenate, sagge anziane, care nonne, che si chiamino o meno femministe: che vengano, da qualsiasi luogo, a sentire con il cuore. E noi abbiamo amore e pazienza e loro ci raccontano, e ci raccontano di tutto e da lì tornano, e da lì ripartono e da lì tornano, con amorosa pazienza.

Questo qui è molto radicale, perché alle donne nella cerimonia non è dato toccare il fuoco: ma qui sono ben accette le energie per sanare la vita. E quando apriamo una cerimonia amiamo anche i nostri antenati, invochiamo gli anziani che ci hanno insegnato a piantare il mais, i nonni che non hanno mai toccato il corpo di una ragazza, che l’hanno curata e amata. Quando poi gli uomini nelle cerimonie che guidiamo ci vedono così rafforzate e unite tra di noi, le loro dinamiche e la loro energia cambiano il loro livello di coscienza, vedendo così tanta solidarietà e intimità, che è stata loro negata. Qui e in altri territori, la difesa del territorio-corpo-terra è una proposta fortemente interiorizzata.

Penso a ciò che è stato vissuto in Rojava: la gioia dopo la rivoluzione nel vedere il territorio liberato prendere vita nelle sue comuni tra diverse comunità e spiritualità al di fuori delle pretese omogeneizzanti dopo anni di dominio della legge islamica e del regime siriano: con la pluralità e la diversità di espressione di ogni comunità posta alla base della vita. In questa dimensione, promotrici della salute come la nostra compagna Alina Sanchez, Legerin, hanno condiviso processi di guarigione a partire dall’allegria, al di fuori di una medicina positivista, uscendo da una prospettiva solo emergenziale. Tutto questo lavoro di salute comunitaria in Rojava è stato anche accompagnato dalla pratica della riflessione collettiva e rituale del “tekmil”, dalla critica e dall’autocritica, come spazio per esprimere i bisogni da un profondo ascolto collettivo, dove se una si allontana perché non sta bene, può contare in ogni modo sulla vicinanza e sul sostegno di tutte

Chahim – Penso che questo risuoni con l’importanza che diamo alle temporalità: come creare temporalità politica. Perché siamo sempre in contesti di emergenza, e per questo siamo rotte dentro. Mentre parlavi di tekmil, ho pensato che, nella resistenza, il punto è anche saper rispettare le temporalità personali, questa temporalità politica è pazienza, è rispetto. Mentre il punto importante della critica è saperla tessere amorevolmente, quando forse quello che dobbiamo fare a volte è solo rispettare e nient’altro, solo contenere. E saper discernere, quando siamo noi che dobbiamo prenderci un tempo per stare di più a lato, o in un lavoro interiore profondo e intimo, perché credo che entrambi i movimenti siano necessari.

Il collettivo a volte è abitato molto dall’ego. Una sfida quindi è come vivere genuinamente non dall’individualismo nel collettivo, ma seguire una temporalità che ci porti a sederci l’una con l’altra e con le anziane antenate che convochiamo, una temporalità che ci porti a rituali, a ballare, non come dovere ma perché lo sentiamo necessario, e come creare queste possibilità di temporalità e mettere intenzionalità e amore in questi momenti.

La nostra guarigione è un atto personale profondo che diventa collettivo, perché viviamo in comunità, ma che è personale profondo perché dipende dalla forza e dall’energia che a partire da noi ci mettiamo dentro. E quando vediamo che qualcuna sta cadendo, offriamo la nostra spalla, accompagnando, ma senza invadere.

Ho immaginato scene di ciò che abbiamo vissuto qui, riguardo a come camminano il cuore e la sessualità delle donne. Ho la sensazione che tante volte viviamo le conseguenze delle ferite delle nostre co-dipendenze emotive, bramando ancora figure patriarcali nel cuore, a letto, nei sentimenti, romanticizzando sempre la possibilità di trovare qualcosa del genere ma andando oltre questo, sento che il nostro é stato un percorso molto bello di sanazione, che ha generato il risveglio di un’altra memoria curativa. Ci dà una grande forza riconoscere la pluralità delle forme di risanamento, nelle temporalità plurali e nelle corporalità plurali, nel territorio di Iximulew.

Lorena – Penso che sia storico ritrovarsi in un momento come questo di tanta pluralità, che ci costerà ancora un po’ di tempo a noi indigene, perché abbiamo costruito un’interpretazione estremamente eteronormativa, molto interiorizzata e molto naturalizzata degli usi e dei costumi delle comunità originarie. Quindi è così meraviglioso quando negli altri spazi territoriali indigeni ci uniamo a partire da una forza molto grande, perché lì troverai sorelle di tutte le età, di storie e percorsi diversi, donne di corporalità plurali e sessualità plurali, identità plurali, con una posizione politica bellissima di difesa del territorio-corpo-terra. Perché guarire è anche curare il modo in cui ci guardiamo l’un l’altra, il modo in cui ci sentiamo e percepiamo noi stesse. Perché non siamo d’accordo con le posizioni egemoniche femministe radicali di non rendere visibili le altre manifestazioni di corporalità che esistono nelle comunità: la nostra le comunità sono plurali per principio di cosmogonia.

Con Jineolojî, la scienza sociale delle donne del Kurdistan, ci sono ridefinizioni profondamente anti-normative di fronte all’essenzialismo, come per esempio quello biologicista. Per capire come agisce nei corpi e nelle vite l’eteropatriarcato, si sono poi aperti molti dialoghi, incontri tra comunità dissidenti, processi di lotta, collettivi da diverse parti del mondo, riflettendo insieme, riprendendo quanto detto da Chahim, su come si libera la vita a partire dall’amore.

Perché le guarigioni sono molte e plurali. Non si limitano a guarire il corpo, guarisce lo spirito e il pensiero naturalizzato in ogni persona. In questo modo ci avviciniamo alla “rete della vita”, che nella lingua quiché è chiamata con la parola “Kat”. Noi a questa parola aggiungiamo la “tz” glottale, è “tzkat” che significa non solo “rete della vita” ma anche che “tutto è legato alla vita”.

Quindi, per noi, femministe comunitarie in territorio Maya, esiste un principio di cosmogonia che è la pluralità della vita: niente è lo stesso nella rete della vita. Non esistono due fiori uguali, né i corpi possono essere identici. Tutto questa diversità è una rappresentazione simbolica spirituale, e adoriamo che i tuoi occhi e il tuo cuore vengano a noi con interiorizzata questa pluralità di vita, perché è un invito a una riflessione profonda. Guardiamo i tessuti dei nostri popoli: i colori dei tessuti: non siamo uniformi, non siamo uguali, quindi c’è la pluralità della vita.

Nella lingua Maya Kekchí c’è un detto: “Io sono Te e Tu sei Me” e se non rispetto questo principio di cosmogonia, sto cadendo in un rapporto di ingiustizia, se nego l’esistenza e la presenza vitale nella rete della vita, se nego la presenza delle sorelle trans, se nego la presenza delle sorelle etero, perché quello è il loro desiderio, il loro gusto, il loro piacere – si spera che esistano etero emancipate! – nego l’ accoglienza, che risulta invece nell’onorare la presenza delle sorelle con la loro sessualità plurale che ci piace transitare amorevolmente con le energie affettive ed erotiche. Camminiamo nella comunità, ecco perché non parliamo tanto di sessualità, quanto di cosmogonia.

Da questa pluralità, come vivete l’atto di risanamento e come vi assicurate che i vostri risultati, i vostri processi di risanamento nei gruppi misti, siano garantiti dalla vostra autonomia decisionale collettiva? Penso al movimento confederale delle donne del Kurdistan, dove ognuna nel portare avanti decisioni collettive per renderle efficaci ha sempre l’aiuto di una rete di compagne solidali che l’accompagna al momento del bisogno come una forza comune

Lorena- Penso che il risanamento sia un atto personale, politico e consapevole, che diventa comunitario. Ma non guarisci individualmente, non guarisci solo per stare bene.

Riflettiamo molto tra di noi e rispettiamo e abbracciamo le sorelle con percorsi diversi di “auto- cura” e lo rispettiamo, perché sono stati costruiti con i bisogni di un contesto specifico, ma per noi “prendersi cura di sé” o l’auto-cura” è diverso dal sanare. Il risanamento è una dimensione molto profonda, politica e consapevole che parte dal personale, e che non viene delegittimata, perché tutto deve essere reso comune. L’intima presenza personale viene rispettata e poi portata alla comunità per essere abbracciata.

L’illusione specchiata patriarcale di ciò, è creare una relazione individualistica, ma non è la stessa cosa. L’intimità personale e l’individualismo sono due cose diverse. E mi riferisco a forme radicali di solidarietà: per esempio non mi sento solidale con le lotte del Kurdistan perché il pianeta è la stessa casa universale e voglio trasgredire i confini in modo che, tutte le bandiere, vadano d’accordo tra loro, nei loro essenzialismi. Credo invece che ci sia una radicalità nel sentirsi parte di una lotta che porta questa parola, questo “Tu sei Me e Io sono Te”, perché sento che dove c’è sofferenza e dolore, ci sono percorsi di emancipazione e dove c’è potere egemonico c’è ribellione. E questo sarà sempre nella storia un principio fondante di ogni trasformazione.

Chahim – E anche le ribellioni sono plurali, si accompagnano e l’una non delegittima l’altra, nel senso che c’è una ribellione comune in cui ci si intrecciano. Quello che ho sentito da te sull’esperienza in Rojava in queste ore mi ha enormemente rivitalizzata e provo un profondo sospiro di sollievo e forza nel sapere che ovunque stiamo infrangendo i sistemi che vogliono attaccare la nostra esistenza, la nostra diversità e le nostre territorialità. Credo che quando perdiamo la nostra colpa, assumiamo responsabilità e la riempiamo di colori e felicità e questo ci fa capire i nostri ritmi, i ritmi delle altre e smettere di pensare solo a un unico schema di emancipazione valido per tutte.

Più rimaniamo lontane dal conforto dell’essenzialismo, più saremo vicine a una libertà genuina e profonda come parte di questo tessuto, perché in questo essere profondamente noi stesse, anche l’intero tessuto sociale si emancipa. La guarigione deve essere globale in tutte le nostre dimensioni. È importante capire qual è la nostra creatività politica, al di là di ciò che è stato ereditato, di ciò che è stato acquisito, percependolo nella mia stessa corporalità, perché è una battaglia continua.

Quando Lorena ha parlato di “acuerpamiento”, di accorpare, questo significa mettere il proprio corpo alla pari di una tua compagna. Si tratta di mettere il proprio tempo nei momenti di emergenza e bisogna esserci non per dovere, ma per la consapevolezza di sapere che questo esserci è vitale per la sostenibilità del tessuto che si sta tessendo e per aiutarci tutte a guarire. Dall’ascolto è importante generare spazi di fiducia, e non far uscire dagli spazi separati ciò che noi compagne esprimiamo tra di noi, perché si tratta di uno spazio intimo. E questo mi ricorda che in questa intimità dobbiamo anche saper individuare le lacune e i nodi del nostro tessuto e dei nostri vincoli, affinché la nostra forza non venga persa per mano di un sistema di oppressione o per mano di corpi oppressivi che parlano di rivalità storica tra donne, mentre, ciò che è storico, è la complicità tra le donne. Questo tessuto comporta sempre una responsabilità reciproca.

Il legame sta nella complicità tra compagne che nella pluralità dell’esistenza hanno una responsabilità mutua. Sento che questo dialogo che abbiamo intrapreso, come ponte tra culture e popoli dall’ Abya Yala fino al Kurdistan, sia già avvenuto in precedenza, tra antenate e guerriere di molti popoli che ci hanno fatto oggi incontrare, con la responsabilità condivisa di sostenere con amore gioia e reciprocità questo tessuto plurale.

Tutte le immagini di Alessia Drò