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Dal golpe all’incubo Bolsonaro: il Brasile nel ciclo reazionario

Dopo il golpe contro Dilma e il governo illegittimo di Tremer, l’affermazione del candidato di estrema destra Bolsonaro al primo turno delle elezioni presidenziali, è il segno della radicalizzazione della scena politica brasiliana e la reazione contro l’emergere di nuove istanze sociali che proliferano nel paese. Il 28 ottobre il ballottaggio con il candidato del PT Haddad.

Alla fine la realtà si è rivelata ancora più drammatica delle peggiori profezie. Come accade da almeno tre anni, i sondaggi sono poco utili a comprendere lo scenario elettorale. Jair Messias Bolsonaro il leader evangelico brasiliano di estrema destra,  contro cui erano scese in piazza solo una settimana fa oltre un milione di donne con la manifestazione #EleNao, non solo ha vinto il primo turno delle elezioni presidenziali brasiliane, come previsto dagli stessi sondaggi, ma ha di gran lunga superato tutte le aspettative. Raccogliendo così tanti voti da sfiorare la vittoria immediata, Bolsonaro ha ottenuto il 46% dei voti, tale da rendere una impresa quasi impossibile il recupero al secondo turno del candidato del PT Haddad, arrivato al 29,3%. Gli altri candidati in corsa hanno raggiunto percentuali più basse: Ciro Gomes, della sinistra alternativa al PT, ha preso il 12,5%, mentre il candidato di centro destra Alckmin sfiora solamente il 5% e infine solo l’1% e andato a Marina Silva e lo 0,6% al candidato del PSOL Boulos.

 

Spiegare questo risultato non è facile, anche perché le semplificazioni non sono utili. Leggere Bolsonaro attraverso l’analogia con Trump non basta.

 

Il probabile futuro presidente brasiliano, che ha deciso di candidarsi a presidente dopo sette mandati come deputato, non è solo razzista, machista, omofobo, nostalgico della dittatura, legato alla chiesa evangelica e alle peggiori élite economiche, particolarmente alla lobby delle armi e alla grande finanza. Bolsonaro è tutto questo in un paese dove la violenza è diffusa e sistematica, dove i sistemi di difesa democratica sono molto fragili: basti pensare alla soggezione del potere giudiziario nei confronti dell’esecutivo, che ha fatto sì che il candidato della sinistra che guidava in testa i sondaggi durate gli ultimi sei mesi, l’ex presidente Lula Da Silva, sia stato tradotto in carcere senza prove significative per le accuse mosse.

La gravità della situazione brasiliana è sotto gli occhi di tutti fin dal golpe parlamentare contro Dilma Roussef e quella forza che ha messo in campo una torsione autoritaria e reazionaria che in quella giornata si è resa visibile al mondo con tutta la sua violenza, non ha smesso di organizzarsi, minacciare e conquistare spazi, come segnalava il filosofo brasiliano Safatle denunciando che «il patto minimo per la democrazia non esiste già più nel paese». A proposito di Dilma Roussef, da segnalare che l’ex presidenta è stata protagonista di una sconfitta durissima questa domenica, rimanendo esclusa dal Senato dopo l’ottenimento di un misero quarto posto nello stato di Minas Gerais. Una disfatta non da poco per il PT, dato che Dilma era in testa nei sondaggi pre-elettorali ed invece ha ottenuto solamente il 15% dei voti, mentre le due principali aree metropolitane del paese, Rio de Janeiro e San Paolo, sono stati importanti bacini di voti per l’estrema destra, eleggendo deputati due dei cinque figli di Bolsonaro. Nel nord e nel nord est del paese, le zone più povere e più abitate da popolazioni afro, il PT ha invece vinto superando Bolsonaro in quasi tutte le circoscrizioni.

 

 

Dopo il governo illegittimo di Temer, la radicalizzazione della scena politica brasiliana vira profondamente a destra, nonostante una serie di lotte che crescono nel paese, l’emergenza di movimenti di lotta per la casa, la terra, nei territori indigeni e nelle favelas, nonostante le mobilitazioni sindacali che hanno portato all’immenso sciopero generale con milioni di persone in piazza contro Temer e alle nuove forme di politicizzazione sociale a partire dal femminismo, dalle lotte popolari, dalle dinamiche quotidiane fino alle moltitudinarie manifestazioni femministe.

 

La traduzione dal piano della mobilitazione sociale a quello elettorale, ancora una volta non è una questione né immediata né scontata, e al tempo stesso occorre segnalare come la radicalizzazione dello scenario brasiliano a partire dal golpe contro Dilma abbia portato con sé anche una violenta reazione controrivoluzionaria, antifemminista e profondamente razzista che interviene nei territori attraverso diversi agenti, polizieschi, militari e paramilitari ma anche altre soggettività e organizzazioni, come le chiese evangeliche, a cui Bolsonaro è profondamente legato.

 

Come aveva scritto pochi giorni fa Jean Tible, in Brasile «il golpe, che continua ancora oggi, è una particolare controrivoluzione scatenata per il timore dell’esuberanza vitale dei corpi liberi, indomiti, decolonizzati, non addomesticati. Da qui la proliferazione di reazioni identitarie (bianche, maschiliste, eteronormanti) e di attacchi costanti alle principali sfere di azione (cultura ed educazione) in cui erano presenti queste emergenze».

La probabile futura presenza di Bolsonaro nello scacchiere politico latinoamericano rappresenta comunque uno scarto in avanti drammatico di queste tendenze. Una sua vittoria sarebbe di una magnitudine che forse non riusciamo ancora a comprendere, ma che dovremo probabilmente affrontare nelle sue feroci conseguenze nei prossimi mesi, sia per la politica estera (dalla situazione in Venezuela fino ai trattati di libero commercio) sia per la politica interna (con la violenza militare e paramilitare, le privatizzazioni selvagge di tutte le imprese statali annunciate in campagna elettorale e il programma ultraliberista funzionale all’accumulazione finanziaria).

 

Le ragioni di questa vittoria sono molteplici, per cui proviamo a delineare qui alcune linee di interpretazione possibile.

 

Hanno pesato sicuramente alcuni fattori esogeni come la crisi economica, lo “spettro venezuelano” e la codificazione reazionaria della questione sicurezza in un “desiderio di ordine”, una pericolosa forma di individualizzazione e frammentazione del sociale, dove sicurezza significa più armi, violenza contro il più povero, il negro, il favelado, le donne (le femministe in particolare) o il diverso, e altri fattori endogeni, come l’aver saputo raccogliere intorno a sé tutto l’antipetismo e il malcontento popolare nella crisi, presentandosi come l’uomo forte capace di risollevare le sorti del Brasile. Rispetto al sentimento anti-PT, va compreso non solamente in relazione alla destituzione di Dilma, alla costruzione del nemico pubblico “corrotto” e al ruolo, sicuramente importante e decisivo, dei media mainstream partendo dal gruppo O Globo, ma anche ripartendo dagli errori compiuti dal PT nel corso del proprio governo pluriennale, particolarmente durante il secondo governo di Dilma, con la risposta repressiva e l’incapacità di aprire spazi di rinnovamento democratico dopo il 2013.

Queste diverse questioni assieme hanno reso il PT un partito inviso a settori importanti della popolazione, fino dall’identificazione di quel governo con la corruzione, diventando per una parte importante del paese una sorta di “casta” odiata al punto che per far si che non ritorni al potere si è disposti a votare anche un candidato in tutto e per tutto fascista come Bolsonaro che si presenta come candidato del “cambiamento”. Un candidato che esprime questo “cambiamento” reazionario, in cui le istanze autoritarie si articolano con una particolare continuità neoliberale, una sorta di radicalizzazione violenta che mantiene una politica economica ultra neoliberista, basata sullo smantellamento del diritto del lavoro e sulla privatizzazione selvaggia, oltre che favorevole alla speculazione finanziaria. Ma il fatto più sconcertante, come  scrive Mario Santucho ricostruendo la traiettoria della candidatura di Bolsonaro alle presidenziali, “è che l’estrema destra si è saputa appropriare del malcontento popolare”.

 

Le operazioni politico-giudiziarie attorno alla questione della corruzione hanno portato alla proscrizione di Lula contribuendo a tradurre il rifiuto della politica in sostegno al candidato di estrema destra che si presentava come “anti-sistema”, che è riuscito a captare le istanze antipolitiche attraverso un uso capillare dei social network e di una codificazione in termini reazionari ed autoritari della critica alla democrazia.

 

D’altronde, come aveva segnalato Diego Sztulwark a proposito dell’arresto e poi della proscrizione di Lula, «il discorso contro la corruzione e a favore di una repubblica del capitale si presenta oggi come una guerra contro la democrazia», per cui «distruggere Lula, in questo specifico momento storico, significa liquidare qualunque possibilità di articolazione democratica tra istituzioni e movimenti popolari».

 

 

Tra i vari errori del PT di sicuro è quello di aver preferito riforme sociali light, che redistribuivano solo una piccola parte della ricchezza alle fasce popolari, inimicandosi tuttavia élite e classi medie senza mettere in discussione in termini più complessivi e reali l’ordine stabilito o la divisione di classe e di razza e alla fine scontentando e impaurendo pure una parte di quei settori che inizialmente si volevano favorire.

 

Insomma, il PT si è trasformato in qualche modo in un fastidioso nemico per la destra mentre viene visto come una cricca di corrotti alla ricerca del mantenimento del potere da una parte di alcuni settori dell’opinione pubblica anche di sinistra.

 

Bolsonaro, che racconta di sé come “il nuovo” (malgrado una carriera di ben sette mandati da deputato alle spalle) e il cambiamento, in realtà ha fortissimi legami con le élite più potenti del paese, con i militari e il settore finanziario. Si dice, in Brasile, infatti, che Bolsonaro rappresenti le tre B, bala/buey/bilia, cioè il (para)militarismo, la grande proprietà terriera e le chiese evangeliche.  Tre poteri significativi dello stato coloniale e della controrivoluzione che avanza ai tropici.

In un giorno come oggi il pensiero non può non andare a una figura limpida e significativa come Marielle Franco, donna, afrobrasiliana, abitante delle favelas, lesbica e di sinistra, esempio di tutto quello che Bolsonaro vuole schiacciare con la violenza armata – il suo legame con l’esercito, la polizia e gli apparati paramilitari è comprovato. Parimenti si preparano con terrore alla sua presidenza i movimenti indigeni, che già hanno vissuto anni di forti tensioni e repressione statale come testimoniato da una attivista a Dinamopress. E’ chiaro che Bolsonaro lascerà la porta aperta al saccheggio del territorio, anzi intensificherà lo sfruttamento estrattivista delle multinazionali che nei territori rurali si impone con la violenza del paramilitarismo.

Bolsonaro, le cui mobilitazioni sono costellate di bandiere brasiliane e di slogan tipo “Brasile prima di tutto”, è il tipico politico “sovranista”, per dirla con un termine diffuso ormai in Europa. Le analogie con la destra in crescita in tanti stati europei sono forti, a partire dagli slogan (anche qui, ovviamente Brasile ai brasiliani), fino all’uso spregiudicato e ossessivo dei media e in particolar modo dei social. Parimenti pure le condizioni che ne hanno determinato l’ascesa sono simili: crisi economica, malcontento delle classi medie, individuazione di un nemico interno nel “diverso”, mancanza di credibilità nella proposta di risposta alla crisi da “sinistra”.

Forse queste stesse analogie dovrebbero farci riflettere sull’importanza dei confronti internazionali e delle resistenze internazionali alla deriva in atto. Diciotto anni fa, proprio in Brasile, a Porto Alegre, i movimenti sociali contro la globalizzazione neoliberista trovavano uno spazio di confronto, sinergia, alleanza che permise di innescare un ciclo di lotte (iniziato pochi mesi prima a Seattle) capace di dominare la scena mondiale per svariati anni. Purtroppo i nemici di oggi non sono molto differenti.

Il capitale mondiale a quel tempo usava la destra liberale e la facciata anonima delle multinazionali e degli organismi sovranazionali per imporsi (dal WTO al G8 passando per l’FMI e la Banca Mondiale). Oggi quello stesso capitale ha trovato un’altra maschera più efficace per i nostri tempi, articolando l’accumulazione finanziaria con il “sovranismo”, l’esasperazione di forme di nazionalismo egoista e razzista per continuare nel frattempo a utilizzare nuovi e diversi strumenti di sfruttamento, oppressione e aumento del proprio profitto. A fronte di questo riorganizzazione autoritaria del potere e dell’economia capitalistica auspichiamo una risposta di massa e di resistenza che parta dalla connessione delle nuove conflittualità sociali, ma anche la costruzione di rinnovate alleanze tra movimenti reali, tra lotte ed esperienze differenti a livello globale, per urlare che “il re è nudo” come fecero a inizio millennio, magari ripartendo proprio dal Brasile e dalla resistenza all’avanzata reazionaria.

 

In Brasile, comunque, non è ancora detta l’ultima parola. Mancano tre settimane e può sempre accadere di tutto, a partire dalle strade e dalle piazze, ma soprattutto tra gli astenuti e tra coloro per i quali il voto a Bolsonaro è stato in fondo soltanto un voto “contro il PT”.

 

Di sicuro, da domani, la strada per il secondo turno è tutta in salita, ma l’impegno per ribaltare il risultato del primo turno ed impedire la vittoria di un candidato fascista sarà il principale compito dei tanti e delle tante che nel paese e nel mondo resistono alla svolta reazionaria. Basteranno queste tre settimane per dare vita a quella che André Singer ha chiamato l’urgenza di un’«epopea democratica» in sostegno al candidato Haddad o torneranno al potere, questa volta legittimati a livello elettorale proprio dalla crisi della democrazia, le peggiori figure del potere coloniale reazionario, militare e fascista che il paese ha conosciuto durante l’ultima dittatura?

 

Foto di copertina Pablo Albarenga / Mídia NINJA