ROMA

Dai Nerone: provaci ancora

Qual è il futuro dei beni archeologici e culturali romani?

A dispetto della damnatio memoriae a cui era stata condannata, l’immagine del povero Nerone è tra le più utilizzate per la promozione di strabilianti quanto dubbie operazioni culturali. Chissà perché quando bisogna sostenere una manovra di marketing di basso livello si ripesca la sua figura. Verrebbe da chiedere di lasciarlo in pace, rimpiangendo il senato di Roma che ne aveva cancellato opere e memorie. E invece è proprio ciò che ci toccherà accettare un’altra volta, dal 7 giugno inizia infatti Nerone opera rock, una traduzione della storia romana in salsa peplum di serie B, che ci propina un Nerone bello, barbuto e muscoloso, un po’ metrosexual, un po’ membro di boyband mentre guarda un Colosseo in fiamme.

Lontano da ogni purismo snob e intellettuale, sarebbe davvero molto importante creare forme di valorizzazione e disseminazione della storia e del patrimonio culturale meno noiose e più accessibili, ma di certo non così: con un musical in cui si incastona l’immagine dell’imperatore intorno a un monumento che, pensate un po’ che scoperta, non esisteva durante il periodo di Nerone.

Non è possibile sostenere che non ci abbiano pensato, non è minimamente valutabile che non si siano accorti di questo strafalcione da terza elementare. In questo caso ,la “pecioneria” è un delitto voluto e pianificato. Si sono volontariamente accoppiati due forti brands: il Colosseo e Nerone insieme sono meglio di John Lennon e Yoko Ono, di Bonnie e Klyde, di Castore e Polluce, poco importa che uno sia stato costruito proprio grazie e in virtù della rovina dell’altro.

In questo quadro desolante, verrebbe da lasciarli crogiolare nelle loro orribile noncuranza se la Soprintendenza speciale per i beni archeologici e il Mibact non avessero dato il nulla osta, se quasi tutto lo spettacolo non fosse stato finanziato dalla Regione Lazio e se non fosse stato montato un palco enorme e ingombrante a Vigna Barberini sul Palatino. Una specie di navicella spaziale che è atterrata su una delle parti più fragili del colle, mettendo a rischio il tempio di Eliogabalo e privando visitatori e studiosi di una buona parte della zona. In effetti si dà il caso che nella zona dello spettacolo si trovi (con buona probabilità) la cenatio rotunda, la famosa sala da pranzo girevole dell’imperatore di cui parla Svetonio. E si dà inoltre il caso che il musical abbia interrotto le indagini archeologiche di un équipe di archeologici del CNRS francese. Il musical ha dunque impedito che si continuassero le ricerche, ha impedito che un ingegnere francese potesse fare i rilievi del sistema idraulico della struttura, rallentando così gli avanzamenti della ricerca su un luogo cruciale per la storia della città di Roma. Ma niente paura, per consolarci, ci resta la scenografia della finta cenatio rotunda, un po’ troppo simile a un ninfeo monumentale, realizzata addirittura da Dante Ferretti. Tanto l’importante è avere il fake alla Dysneyland, poco importa del resto, né è un problema se migliaia di tubi innocenti svettino impuniti sul Palatino fra lo stupore di tutti, anche dei turisti apparentemente più sprovveduti.

Per riassumere, Nerone opera rock e una “promozione culturale” finanziata con soldi pubblici piena di ignoranza e imprecisioni, ha un impatto ambientale devastante per l’area del Palatino e per tutto il panorama della zona archeologica (basta alzare gli occhi da metro Colosseo per rendersene conto). Insomma, una tamarrata non indifferente con tante controindicazioni e prezzi d’ingresso, forse rock ma non certo pop (un biglietto va dai 50 euro in su). Quindi, Cui prodest? Sarebbe interessante rispondere a questa domanda. Intanto sicuramente sappiamo a chi nuoce: alla strutture sottostanti, agli studiosi e ai ricercatori e senza alcun dubbio alla storia e al buon senso. Senza troppi giri di parole, questa operazione è uno scempio e bisogna individuarne i responsabili. Facile dirlo: in primis la società promotrice, la Nero Divine Ventures, una holding di aziende in cui compare anche Lazio Innova, società legata alla Regione Lazio che ha stanziato per il progetto un milione e mezzo di euro a dispetto dei 50.000 mila dati dagli altri soci, ideatori dello spettacolo. Per di più, fra i soci promotori dell’iniziativa spiccano i nomi dei fratelli Christian e Marco Casella, entrambi con un passato e presente politico legato a Forza Italia. Insomma, l’ennesimo patto del Nazereno per i Beni Culturali in cui per questo scempio la Regione Lazio paga un milione e mezzo di euro per la promozione e la diffusione di quale cultura non si sa.

Di certo, non hanno meno colpe la Soprintendenza e il Ministero, che hanno promosso e dato il nulla osta a una simile iniziativa. E c’è da chiedersi con che coraggio il soprintendente Prosperetti abbia parlato in conferenza stampa con alle spalle un cartellone con il Colosseo in fiamme. Verrebbe da chiedersi perché non si sia vergognato come un ladro, mentre ammiccante e disinvolto parlava del valore culturale dello spettacolo. Ma ancora una volta a pochi interessa raccontare e promuovere una narrazione corrente e reale della storia, meglio le cazzate e le scenografie fake, basta che lo show vada avanti e che, sopratutto, diventi sempre più pacchiano, impreciso e, ovviamente, redditizio.

Show must go on

Divo Nerone non è un caso isolato, ma si inserisce in un progetto più generale di promozione del patrimonio culturale che passa per lo showbiz da quattro soldi. Non molto diversa per intenzioni e utilità è infatti l’idea, più volte pubblicizzata dal “ministro del fare” Franceschini, di ricoprire completamente l’arena del Colosseo. Senza soffermarsi sui particolari già precedentemente discussi, sarà sufficiente dire che l’operazione mira a rendere l’arena un posto esclusivo per gli spettacoli stile divo Nerone, o per le sfilate di moda, o per i vip tour guide che permettono l’accesso all’ipogeo che la copertura obliterebbe allo sguardo dei più. Con che coraggio poi importanti professori universitari plaudano al progetto è tutto da capire. Ma gli interessi sono tanti e, come si sa, spesso e sovente valgono più del buon senso. C’è da aspettarsi che a breve inizieranno i lavori di costruzione e ancora una volta la tutela delle strutture antiche (come le creste dei muri dell’ipogeo dell’anfiteatro) passerà in cavalleria. Tanto, se si rompe qualcosa, possiamo chiamare Ferretti-Schiavo a farci una scenografia.

La copertura dell’ipogeo e il maxi palco di Nerone sono i casi più eclatanti di un’idea più generale che prevede anche la creazione del parco archeologico dell’area centrale, dove i turisti possano allegramente pascolare senza disturbo, senza capire effettivamente di essere in una città viva e abitata, stando in una specie di bolla sospesa fra un tempo cristallizzato e uno spazio svuotato di senso reale e riempito di cazzate, sangue e arena. Tutto va spettacolarizzato, commercializzato e spolpato fino all’ultima pietra. Il Parco archeologico darebbe infatti l’ultimo colpo di grazia a quella parte del centro di Roma ormai avulsa dalla spazio urbano e dalle consuetudini degli abitanti. Il ricorso al Tar presentato dal Comune bloccherebbe tutta l’operazione, anche se andrebbe capito se ha l’intento di difendere il centro di Roma o semplicemente di rivendicare la propria parte di torta sui profitti miliardari di un progetto del genere, in cui turisti e visitatori verrebbero trattati come “scemi” e rintontiti di luci, colori e imprecisioni. Si vogliono piegare i beni storici e culturali a una specie di entertainment del turista mordi e fuggi, che non avrà la possibilità di capire nulla se non le quattro falsità che gli vengono propinate.

Nell’epoca del turismo di massa, le differenze di classe si connotano non tanto tramite l’accesso, ma piuttosto tramite la percezione e l’esperienza dei luoghi. Con Ryanair tutti possiamo girare il mondo, ma se sei un turista low-cost ti beccherai gladiatori muscolosi e parchi archeologici alla Disneyworld, verrai soddisfatto dalle storiella ammiccanti quanto false e comprerai tanti souvenirs. Se hai altre possibilità, forse potrai tornare a casa con la consolante illusione di aver intuito qualcosa di vero della città, illusione effimera quanto l’altra, ma meno volontariamente imprecisa, falsa e discordante.

Ricucire il margine

La spettacolarizzazione di questi luoghi, che ne impone la chiusura alla vita e al mondo reale fatto da persone e consuetudini, crea una cesura completa nello spazio urbano, con l’intento di espropriare gli abitanti dei luoghi e di creare delle enormi miniere di rovine per estrarre valore dai monumenti principi della città. La stranota immagine dei beni culturali come petrolio d’Italia, più che una metafora, è un vero e proprio piano d’intenti. Estraiamo più risorse economiche possibili da questi pozzi di travertino, consumiamoli fino ad esaurirli, recintiamoli praticamente e idealmente, fino a prosciugarli, a distruggerli, a perderli. È la storia più vecchia del mondo, se si toglie la possibilità ai luoghi di avere una senso collettivo e di costruirne sempre altri, se l’unica funzione che gli si offre è quella commerciale, li si condanna alla rovina, alla consunzione e alla perdita. È dunque possibile difendere ancora i beni culturali? Sottrarli da questo destino di rovina?

Il dibattito pubblico dovrebbe occuparsi di questo, gli addetti ai lavori ne dovrebbero discutere insieme ai cittadini e ai lavoratori della cultura. A onor del vero, c’è ancora chi, fra urbanisti e archeologi, associazioni culturali e di cittadini, prova a resistere e a rivendicare l’autonomia di questi luoghi. Si promuovono progetti più compatibili, ma che, purtroppo, incorrono spesso nell’errore di sottrarre completamente questi luoghi dalla vita della città. Per difenderli dalle grinfie rapaci delle speculazioni turistiche, edilizie o commerciali in senso largo, si cerca di rinchiuderli in una teca di cristallo, di costruire recinti intorno a loro, di desertificarli, proponendo lo stesso esito dei parchi alla Dysneyland: sradicare i monumenti dalla città. La risposta al parco archeologico non può essere la proposta di interrompere il traffico dei mezzi pubblici e di rendere via dei fori imperiali una specie di foyer dell’area archeologica, come proposto qualche giorno fa in una conferneza dell’associazione Bianchi Bandinelli. Certo, nessuno pensa che lo smog e il traffico facciano bene ai monumenti, ma non sono la causa principale di tutto ciò che sta accadendo. Come sempre, è come guardare il dito e non la luna. In più, decontestualizzare gli spazi dalle consuetudini urbane (come sono anche gli autobus di linea) rischia proprio di favorire le operazioni commerciali di bassa lega e alto profitto. Quale spazio migliore per fare una vetrina se non uno spazio vuoto?

Si capisce l’intento nobile e di resistenza immediata sotteso all’idea di preservare completamente questi spazi, ma il rischio alto è che purtroppo si ottenga l’effetto contrario. Le città vetrina (o le parti di città vetrina) lasciate vuote e isolate non possono che restare in balìa di speculazioni turistiche su larga scala. Lo spazio rinchiuso in un recinto viene offerto in maniera irrimediabile ai grandi tour operator. Questi spazi sono preda di un capitalismo estrattivo che ne risucchia le risorse, sono il palinsesto per operazioni di pessimo valore culturale, vetrina per ministri arrivisti e campo di sperimentazione per il lavoro gratuito e volontario. Ed è per questo che più che creare recinti o zone protette, è necessario ricucire il margine fra i luoghi storici di Roma e il suo tessuto urbano, le persone che lo dovrebbero attraversare e che ci lavorano dentro. Capire se e dove sia ancora possibile, è la sfida per salvare il senso di questi luoghi: è su questo che ci si dovrebbe interrogare in maniera collettiva. Altrimenti, possiamo aspettare che Nerone ci risolva tutti i problemi bruciando davvero il Colosseo, con il musical più infuocato della storia.

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