ITALIA

Cospirare. Nella miseria del presente, la ricchezza del possibile

Exploit Pisa compie dieci anni, e con l’occasione oltre ai festeggiamenti si riflette sulla strada fatta, sulle lotte portate avanti, l’evolvere della storia e le promesse per immaginare il futuro. Tecnopolitica, policrisi, patriarcato. Exploit continuare a cospirare negli spazi fisici e in quelli del desiderio

La miseria del presente, la ricchezza del possibile, André Gorz.

Exploit compie 10 anni. Un decennale è l’occasione per riflettere sulle ipotesi fatte nel tempo, dalle più concrete a quelle appena abbozzate. Ma anche per condividere esperienze, lotte e ragionamenti. Con questo testo vogliamo restituire alcuni bilanci, avanzare delle prospettive e rendervi partecipi di un corpo collettivo che continua a muoversi, con passo nomade e situato, tra Pisa e il mondo.

Tecnologia, politica e relazioni

Cos’è, dopo tutto, cospirare? È il momento della preparazione, lo sguardo su dove può andare il mondo, la scommessa e immaginazione degli strumenti migliori per preparare l’avvenire senza piena certezza della loro efficacia. Il primo giorno recuperiamo un tema a noi caro fin dall’inizio, la tecnopolitica: è possibile un uso emancipatorio e collettivo delle piattaforme digitali?In questi 10 anni eXploit è stato spazio di riflessione senza timori né eccessivi entusiasmi riguardo al modo in cui le tecnologie digitali e di piattaforma stanno ridefinendo le nostre relazioni, il lavoro, il mondo del sapere, la politica e l’attivismo. 

In special modo, abbiamo sperimentato  contro-condotte digitali al servizio dei conflitti e del benessere dei molti. Sulla scia delle primavere arabe e delle mobilitazioni spagnole legate alle piazze del #15M 2011, abbiamo sperimentato pratiche di mobilitazione dal basso attraverso le piattaforme digitali: pratiche come il tweetstorm, realizzate sfruttando le falle degli algoritmi, hanno permesso di bucare la bolla delle reti sociali per veicolare slogan e connettere conflitti in diverse parti del mondo. Negli anni a seguire, queste pratiche sono state ostacolate dal nuovo paradigma di piattaforma digitale: non più social network e dunque facilitatori della creazione di reti sociali ma social media, dunque mezzo di intermediazione di un’enorme mole di contenuti multimediali. Questo passaggio ha fatto sì che la capacità mediatica dei movimenti sociali sia stata depotenziata dalle logiche di mercato di nuovi algoritmi sempre più attenti a coerenza grafica, forma accattivante e costanza della pubblicazione di contenuti; e da meccanismi di oscuramento attraverso la disattivazione o la limitazione della diffusione dei contenuti di account social legati a movimenti politici. In questo senso, è esemplificativo il recente shadow ban del profilo di Non Una di Meno che ha impedito di poter realizzare da quella pagina un ciclo di dirette verso la manifestazione nazionale per l’aborto libero e sicuro del 6 maggio ad Ancona. 

La pandemia ha accelerato i processi di digitalizzazione e l’esplosione della popolarità delle intelligenze artificiali. La società cinese – come ci racconterà Simone Pieranni, giornalista autore di Red Mirror: il nostro futuro si scrive in Cina – rappresenta un caso di studio esemplare per capire come le piattaforme possono cambiare il modo di relazionarsi e la loro capacità di estrarre valore dalle relazioni umane. La omni-app cinese WeChat rappresenta plasticamente la pervasività tecnologico-digitale nel quotidiano: è utilizzata per andare in banca, compilare la burocrazia, effettuare acquisti e scambiarsi contatti. E mentre i cittadini generano tramite essa flussi costanti di dati online, l’opera di sorveglianza e monitoraggio prosegue offline in smart cities sempre più piene di sensori biometrici e dispositivi di videosorveglianza.

Durante la pandemia, Anche in Italia abbiamo potuto assistere alla digitalizzazione delle nostre vite: con un lockdown che ha fermato interi settori produttivi, lavori di piattaforma come quelli del food delivery sono stati considerati essenziali. I nuovi lavori digitali vengono spesso presentati come lavori smart, se non addirittura “lavoretti”, come un’opportunità per mettere a valore il tempo, compreso quello libero, sotto la retorica della flessibilità e dell’auto imprenditorialità. È nostra intenzione – attraverso l’intervento di Clara Mogno – smascherare questa retorica, mettendo in luce precarietà, individualizzazione e sfruttamento della forza-lavoro al tempo del capitalismo delle piattaforme.

La capacità di estrarre valore dal tempo di lavoro, dal tempo libero e dalle relazioni sociali;, di produrre ricchezza dall’esperienza umana in modo automatizzato è il filo comune che lega il capitalismo delle piattaforme all’attuale divisione globale del lavoro. Nel settore hi-tech si hanno strutture economiche di “iperscala” in cui una ristretta forza-lavoro specializzata gestisce l’infrastruttura della piattaforma, facendo saltare il paradigma produzione-salario. Per esempio, a fine 2016 Google ha raggiunto i 532 miliardi di dollari di capitalizzazione sul mercato e Facebook 332, il tutto senza che Google avesse più di 75 mila dipendenti e Facebook più di 18 mila. Instagram ad esempio, quando nel 2012 Facebook decise di acquistarla, contava 15 occupati: la sua omologa analogica nel mercato delle immagini negli anni ‘80 dava lavoro ad oltre 140 mila persone.

In un mondo digitalizzato, dove produciamo continuamente dati – e quindi ricchezza – senza avere nulla in cambio, ed in cui i rapporti di lavoro sono dettati da sfruttamento e precariato, ci interrogheremo – grazie al contributo di Emanuele Braga – sulla prospettiva di un reddito di base universale.

Policrisi, grandi dimissioni e lotte ecologiste

Cosa vuol dire cospirare, oggi? Organizzarsi all’altezza della policrisi e di una società prossima a toccare punti di non ritorno: crisi psichica, bellica, economica, climatica e della biosfera, crisi politica e delle costituzioni democratiche sempre più militarizzate e in torsione autoritaria segnano il nostro tempo. Il capitalismo è, per sua natura, un sistema in cui le crisi sono molteplici. Tuttavia, crediamo che la crisi pandemica e climatica, insieme ai movimenti affermatisi dopo la stagione della prima austerità, suggeriscano un cambio di qualità nell’articolazione di questa struttura. I confini tra le crisi si fanno più labili, lo scoppio dell’una può comportare il ritorno di altre o l’innesco di nuove, oppure coagularle entro dei rapporti di radicalizzazione reciproca e di saldatura inediti. Come la pandemia, che da crisi delle barriere biofisiche tra popolazione umana e altre specie viventi per effetto della deforestazione, del cambiamento climatico e del modo capitalistico di organizzare la produzione alimentare è diventata crisi inflattiva, delle catene di approvvigionamento, dei sistemi sanitari pubblici già depotenziati dalla stagione dei tagli al welfare, e via dicendo. Entriamo, a nostro dire, in una seconda forma del “realismo capitalista”: dall’idea che l’unica – e migliore – società possibile sia quella incentrata sullo scambio di merci, sul profitto e la democrazia liberale, all’idea che l’unico dei mondi possibili è quello organizzato per adattarsi e contenere le crisi che il capitalismo stesso genera su scale sempre più imprevedibili. In una frase: dal realismo capitalista alla “resilienza capitalista”, dove l’emergenza delle crisi soffoca l’urgenza di società alternative. È questa la miseria che hanno prodotto per il nostro presente.

Questo salto di qualità si chiarisce in tutte le sue sfaccettature solo guardando ai diversi punti di vista che si presentano su questo sfondo, sia sul piano degli individui e del loro spaesamento, sia su quello dei discorsi di alcuni movimenti contemporanei. Spaesamento, debolezza psichica e affettiva – come mostrato negli ultimi lavori di Franco Berardi “Bifo” -, forme di “rifiuto del lavoro” – come le “grandi dimissioni volontarie”, o l’urgenza  massificata di ripensare il come, quanto e cosa produciamo e consumiamo – che, almeno in Italia, rimangono sintomi di un rigetto piuttosto che insubordinazione diffusa. Allo stesso tempo, tuttavia, assistiamo al consolidamento di un bisogno di cambiamento il cui obiettivo trasformativo è il mutamento del paradigma complessivo. Si esplicita un cambiamento di problematica: spostamento dalla decisione intorno alla contraddizione principale verso quella riguardante i nodi della convergenza tra contraddizioni eterogenee. Allo spaesamento individuale corrisponde, senza piena sincronia, lo spostamento della decisione dei corpi collettivi.  Emblematica, da questo punto di vista, la postura di molti percorsi di lotta europei: Non una di meno con il suo slogan dello scorso 26 novembre “Nessuna guerra sui nostro corpi” per tenere insieme la lotta femminista e la congiuntura bellica; la ridefinizione della pandemia come “sindemia”; il motto del processo di lotta permanente in Francia “Fin de mois, fin du monde: meme combat”; le manifestazioni della convergenza tra operai metalmeccanici e i movimenti per la giustizia climatica contro le delocalizzazioni e per un modo di produzione giusto e sostenibile. E così via.

Il fenomeno delle grandi dimissioni – che discuteremo insieme a Francesca Coin a partire da un suo libro di prossima uscita – ci parla di un mondo del lavoro vessatorio, frustrante, impoverito, e di una soggettività lavorativa la cui insubordinazione, in assenza di lotte generalizzate e realtà sindacali conflittuali, può rimanere individualizzata e dispersa. Un fenomeno il quale inceppa il normale svolgimento della produzione sociale come fosse uno sciopero disorganizzato, che tuttavia non bisogna romanticizzare perché sfocia nell’esser sbattuti dentro un mercato del lavoro incapace di promesse soddisfacenti e realizzabili, oltre ad accompagnarsi a grandi licenziamenti o grandi assunzioni in settori sempre più dominanti, come Amazon. Tuttavia, esibisce la crisi del rapporto tra identità lavorativa e soddisfazioni personali, e quanto sia urgente mettere in discussione il senso e i fini dei ruoli produttivi, nonché il rapporto tra il tempo di vita e il tempo in cui lavoriamo (per altri), a maggior ragione se l’attuale produzione sociale si dà sotto la cappa di crisi vicine al punto di non ritorno – come quella climatica. 

I movimenti climatici, con le loro parole d’ordine, pratiche e rivendicazioni emerse nel 2019, sono stati per noi un evento: hanno segnato un prima e un dopo nella coscienza collettiva, un punto di rottura nel sentire dei singoli e della società. La finanza, le industrie e le grandi compagnie nemiche del clima dimostrano grande capacità di cattura di queste istanze per travisarle o sfruttarle per profitti ancora maggiori. Tuttavia, le lotte per la giustizia climatica portano con sé una potenzialità tutta ancora da esprimere proprio per la loro capacità di rinnovare, allo stesso tempo, l’internazionalismo e l’attitudine a immaginare una società alternativa. Riescono, in continuità con l’ondata femminista, a produrre rivendicazioni e connessioni che hanno l’ampiezza dei processi di sfruttamento umano e ambientale del capitalismo come “mercato mondiale”; allo stesso tempo, rivitalizzano la nostra potenza di immaginazione perché assumono come campo di conflitto la transizione ad un’altra società trasformando il “come, quanto e cosa si produce” affinchè si materializzino giustizia climatica e giustizia sociale. «Movimenti più che sociali» – come li chiama Andrea Ghelfi, autore de La condizione ecologica – perché immediatamente transnazionali; perché confliggono con chi sfrutta persone, risorse e territori mentre praticano e immaginano nuovi rapporti tra umano e non-umano vegetale, animale, tecnologico; perché elaborano e rinnovano diverse pratiche conflittuali. Riflettere su queste ultime significa fare i conti con ognuna di esse senza aut aut: lottare insieme a chi, a partire dai posti di lavoro, costruisce rapporti di forze favorevoli per riappropriarsi dei mezzi di produzione e ripensare il modo di produzione [4]; insieme a chi pratica azioni di disobbedienza civile per fare pressione sulle istituzioni, o di sabotaggio delle infrastrutture fossili e nocive; insieme a chi sperimenta nuovi modi di utilizzare la terra per garantire la sussistenza di tutti nel rispetto della biodiversità. Il compito, di conseguenza, è quello di dotarsi di organizzazioni in grado di far cospirare insieme questa costellazione; o, al più, di decidere quale sia la più adatta per un certo contesto. Lotte climatiche e grandi dimissioni: è qui che si fonda l’alternativa? 

Tramare contro il patriarcato

La politica, infine, è un rapporto con il futuro: non c’è inizio e attualità senza strutture che ci portino al di là del perimetro del presente. Cospirare: capacità di inventare, e far esistere, istituzioni che durano nel tempo. Il terzo giorno è tutto dedicato a Obiezione respinta, collettivo nato 7 anni fa a partire dalla condivisione di un’esperienza diretta di una compagna alla quale è stata negata la pillola del giorno dopo in farmacia cl ricorso, in maniera del tutto illegale, all’obiezione di coscienza. Da ciò è nata l’idea di mappare l’obiezione in tutta Italia, a partire proprio dalle testimonianze dirette di soggettività che hanno incontrato difficoltà ad accedere all’IVG o più in generale a servizi nell’ambito della salute sessuale e riproduttiva. La mappatura, infatti, non riguarda solo ospedali o ambulatori medici, ma anche consultori o farmacie. Qui sono segnalati anche i luoghi dove questi servizi sono forniti in maniera ottimale e completa, privi di qualsiasi stigma, a misura della necessità e affettività di chi ne fa richiesta. 

Con il tempo ci siamo spinte oltre. Insieme allƏ compagnƏ ci siamo ascoltatƏ e abbiamo fatto rete per supportare chi ha bisogno di accedere all’aborto, alla contraccezione d’emergenza e ai servizi riguardanti la salute sessuale e riproduttiva. Sono molte le testimonianze raccolte che denunciano violenze là dove si tenta di accedere a questi tipi di servizi: l’appello all’obiezione, ad espressioni, modi e pratiche mediche impregnate di moralismo, servizi a condizione del “solo se” – es. non hai già abortito una volta etc. –, e privi di sufficienti informazioni riguardo ad IVG, contraccezione, post aborto. Tutte condizioni che aumentano lo stigma sociale e interiore che molt di noi portano dentro rispetto all’aborto, disincentivandone di fatto l’accesso. Denunciamo queste violenze, facciamo formazione e informazione per decostruire lo stigma sull’aborto e la salute sessuale (Obiezione respinta! Diritto alla salute e giustizia riproduttiva, A cura di Cinzia Settembrini, Prospero Editore, 2020). Un lavoro che continueremo nel momento intitolato “Abortion Dream World” dove discutere, in autocoscienza collettiva, il nostro “aborto dei sogni” per denunciare le forme di ingiustizia e violenza che subiamo quando parliamo di diritti riproduttivi, per immaginare come cambiare questo mondo antiabortista, e analizzare tematiche scomode su cui ci siamo poco interrogate collettivamente come l’aborto oltre i termini consentiti, l’aborto autogestito o gli aborti multipli. L’”Abortion Dream World” è un’autocoscienza collettiva, una pratica politica, un desiderio radicato: è lotta quotidiana per i nostri diritti.  

Siamo partite dall’obiezione di coscienza per capire che l’appello ad essa è solo un germoglio che affonda radici ben più profonde: nella ricerca, nella formazione del personale sanitario, nella professione medica e sanitaria, nella legge e nella politica. Si guardi alle tecniche diagnostiche – come le ecografie 3D o l’ascolto del battito cardiaco – troppe volte usate non per apportare beneficio alla diagnostica ma, piuttosto, per far visualizzare o ascoltare all* gestanti il feto per inculcare o aumentare il senso di colpa. Oltre a queste esemplificazioni di negazione all’accesso a questa sfera della sanità, c’è da prestare attenzione a come la politica – su una scala e coordinamento sempre più globale – stia tessendo una trama d’impronta apertamente antiabortista. È da ricordare il via libera, di fatto legittimato dallo stesso articolo 2 della l.194/1978, all’ingresso nei consultori di associazioni pro-life; il recente “fondo vita nascente” ammontante a 1 milione di finanziamenti pubblici stanziato dalla Regione Piemonte per associazioni anti-choice; il tentativo, poi ritirato a seguito delle grandi critiche alla giunta regionale pugliese, di erogare 5mila euro a coloro che rinuncino a interrompere volontariamente la propria gravidanza; o della proposta del ministro dell’Economia Giorgetti di abbassare le tasse alle famiglie con almeno due figli. Tutti provvedimenti presentati come un sostegno alle famiglie ma che non sono altro che un violento attacco all’autodeterminazione sui nostri corpi. Soldi che potrebbero essere destinati a rifinanziare i consultori intesi come luoghi laici e pubblici della sanità, così come politiche per il sostegno reale alla genitorialità, ai servizi di prima infanzia e alle politiche di welfare. Facendo riferimento agli Stati Uniti, emblematico è il ribaltamento della sentenza “Roe vs Wade” e il recente tentativo di un giudice federale ultra-conservatore del Texas di bloccare l’approvazione del mifepristone da parte della FDA, dichiarandolo non sicuro. Entreremo nel dettaglio del caso con l’aiuto di Tamara, attivista di Obiezione Respinta e dottoranda in Diritti Umani all’Università degli studi di Palermo.

Muovendo da ciò, rifletteremo insieme sui processi scientifici che stanno alla base della medicina occidentale, scenderemo nel dettaglio per capire quali bias e discriminazioni di genere porta con sé la ricerca, come la scienza ha usato il corpo femminile nelo suo interesse e come vengono utilizzate le nuove tecnologie mediche in clinica e in ricerca. Siamo convinte che la scienza e il sapere siano sempre situati e mai neutrali: a partire dai finanziamenti dei progetti di ricerca, dall’aziendalizzazione delle università e degli istituti, dalla precarietà strutturale del mondo accademico per arrivare alla produzione di un sapere che ha come fine quello di creare prodotti per il mercato. In mancanza di una riflessione critica su questi processi, la produzione del sapere non fa altro che riprodurre i rapporti di potere del mondo reale, quindi esclude, semplifica, produce uno squilibrio tra diagnosi e cura. Approfondiremo questo tema con Ilaria Santoemma – assegnista di ricerca in filosofia politica – e Virginia Casigliani, medica del SSN. Infine, discuteremo con Erica De Vita, medica del SSN, degli aspetti più pratici legati all’IVG e soprattutto dell’importanza di coinvolgere politicamente le/i pazienti all’interno della pratica medica e così definire cosa sia una medicina transfemminista.

Conclusione

Exploit compie 10 anni di occupazione. Non era previsto che sopravvivessimo. Eppure, continuiamo a cospirare: voce del verbo collettivo “respirare insieme”. Un progetto politico, una cooperazione continua fatta di relazioni amicali, politiche, nomadi e precarie, ma durature. Uno spazio fisico per ripararsi dalla precarietà economica e dalle violenze del nostro sistema; ma anche uno spazio per riprenderci il desiderio, per sentirsi parte della città, nonché una casa per andare in giro per il mondo. Ringraziamo tutt* quell* che in quelle due piccole stanze ci hanno speso almeno un minuto della loro vita, vi abbracciamo tutt*. Continuiamo a scrivere la storia di questo abbraccio collettivo.

Il programma in pdf qui

Immagine di copertina da Exploit