ITALIA

Note su Facebook, Casapound e l’esclusione dal dibattito politico

Giovedì 12 dicembre il tribunale civile di Roma ha disposto l’immediata riattivazione della pagina facebook di Casapound Italia. Il contenuto della sentenza, può riaprire il dibattito sul ruolo politico delle piattaforme

Notizia di rilievo su tutti i media mainstream, giovedì 12 dicembre il tribunale civile di Roma ha disposto l’immediata riattivazione della pagina facebook di Casapound Italia e del profilo di Di Stefano (admin della pagina). Viene ordinato inoltre il “risarcimento” della stessa organizzazione neo-fascista delle spese processuali (15mila euro) e di 800 euro per ogni giorno di ulteriore violazione dell’ordine impartito, cioè fin quando Facebook non riattiverà tale pagina. Intanto, quindi, altri soldi ai fascisti, come se mancassero..
Il giorno successivo alla sentenza, Facebook ne ha dato applicazione, la pagina di Casapound è stata riattivata e non è ancora noto se l’azienda darà seguito al procedimento giudiziario o meno.

In ogni caso, quello su cui mi interessa soffermarmi è come questa sentenza aggiunga elementi sostanziali al dibattito sul ruolo politico delle grandi piattaforme digitali – e particolarmente sul dominio che Facebook ha assunto nel dibattito pubblico contemporaneo – che la redazione di Dinamopress aveva stimolato a fronte della censura cui erano stati sottoposti i vari siti di informazione indipendente e le molte realtà sociali “colpevoli” di dar spazio, sulle relative pagine Facebook, alla resistenza curda. La sentenza contiene infatti considerazioni rilevanti sulla “funzione pubblica” di Facebook. Ma, prima di rimarcare e discutere tali affermazioni contenute nel documento giuridico, è bene dar conto di un contesto politico ampio – e troppo spesso trascurato nell’infosfera italofona – che ha investito direttamente la piattaforma di Mark Zuckerberg negli ultimi anni.

Se il 2016 ha segnato un punto di svolta politica a livello globale con le elezioni presidenziali di Trump e la vittoria della Brexit, a partire dall’anno successivo tanto i protagonisti di tali eventi elettorali, quanto la stessa piattaforma Facebook, hanno dovuto fare i conti con gli innumerevoli risvolti dello scandalo di Cambridge Analytica. Scandalo per furto di immense moli di dati e violazione della privacy, per la manipolazione di massa delle opinioni politiche, per la diffusione personalizzata e su scala inedita di “notizie false” – e “tendenziose”, per rimanere in tema di linguaggio giuridico fascista.. Tale scandalo, a prescindere dalla puntuale funzione di delegittimazione dei suddetti eventi elettorali, ha mostrato al mondo intero una trasformazione epocale e fulminea della sfera politico-mediatica che si è consumata proprio attraverso Facebook e le altre piattaforme del gruppo diretto da Mark Zuckerberg(Instagram e Whatsapp), che ha svuotato ulteriormente di senso i meccanismi di rappresentanza politica.

Di fronte a tale scandalo, con il quale si arrivava rocambolescamente a mettere in discussione persino nei media mainstream e nelle Camere elettive le basi di funzionamento del suo business estrattivo, Facebook doveva fare qualcosa. E lo ha fatto, non certo modificando la struttura complessiva del suo modello d’affari, ma operando in termini di affermazione di ulteriore monopolio sui dati estratti dal corpo sociale, certificazione più rigida delle identità individuali, determinazione arbitraria di cosa è “falso” e di cosa è “odio” o “violenza”.

Accanto a questi interventi strutturali, però, la dirigenza di Facebook si è dovuta anche porre un problema di posizionamento squisitamente politico, all’interno di quello che, sul nostro sito, è stato chiamato ciclo politico reazionario.

Insomma, per Zuckerberg e i suoi collaboratori è diventato necessario, a mio avviso, mostrare e di-mostrare una decisa neutralità, che ne rilanciasse una funzione di arbitro imparziale del dibattito pubblico (fondata su lotta a fake news ehate speech), di fronte ai rivolgimenti di molti sistemi politici in senso reazionario. Tanto più, sotto l’accusa – vera e/o no – di aver fornito gli strumenti comunicativi principali che hanno permesso la vittoria della Brexit, di Trump, poi di Bolsonaro e infine, l’emergere di Salvini e la “conquista delle reti” da parte della destra razzista in Italia.

Torno così finalmente nel contesto italiano da cui sono partito per interpretare – senza alcuna possibilità di conferma tangibile – il ban di Casapound su Facebook come una mossa pensata per dimostrare che la piattaforma esclude/avversa/non è assimilabile all’odio razziale espresso dai più noti e “certificati” neo-fascisti in Italia.

Entro qui nel pericoloso terreno di interpretazione delle intenzioni politiche di Facebook, un colosso globale della comunicazione che spaccia ogni aspetto del suo funzionamento come algoritmico, dunque tecnico e non politico, privo di tattiche. Tuttavia, la mia impressione di un certo utilizzo mediatico-politico di questa vicenda controversa da parte di Facebook stesso, si basa su alcune semplici constatazioni: in primo luogo, in Italia si dibatte della “bestia” di Salvini da ormai più di un anno, e dobbiamo considerare questo dibattito come la declinazione provinciale della questione politica aperta da Cambridge Analytica. «Facebook favorisce Salvini, e la destra razzista?»– questa è la domanda che risulta politicamente rischiosa per Facebook e che sottende tale dibattito sulla “bestia”. In questo senso, dunque, Casapound risulta un obbiettivo perfetto di un’operazione volta a divincolarsi da tale domanda accusatoria, poiché si tratta di un’organizzazione molto nota e discussa, che beneficia di una presenza mediatica notevole, nonostante l’assoluta irrilevanza tanto elettorale quanto materiale
Tale sproporzione si è infatti palesata nella rilevanza da prima pagina dei quotidiani nazionali (e non solo, vedi “The Guardian”) assunta dalla questione “cancellazione della pagina di

Casapound”, nonostante essa non rappresenti che un isolato caso in un oceano di ban e cancellazioni arbitrarie che puntellano tutta la storia di Facebook. Le agenzie di stampa palestinesi e curde, nonostante spesso superassero di almeno un ordine di grandezza il seguito di Casapound, non hanno certo provocato questa attenzione dei media internazionali,perché,sì, Facebook applica la sua censura politica da molto tempo e tramite accordi diretti con molti governi nazionali, da ben prima che i media occidentali si accorgessero di questo fenomeno con riferimento ad alcune pagine esplicitamente razziste o neo-fasciste, non solo in Italia.

Insomma, oscurare Casapound per Facebook è stato come dire «guardate! Noi non accettiamo l’odio razziale (che pure voi vedete descritto ogni giorno come egemone proprio su questa piattaforma..)». E non solo: questo episodio ha persino permesso il passaggio dall’ormai celebre “vittimismo dei camerati” al più classico “riscatto nazionale” che Casapound ora agita per rivendicare una sentenza paradossale in cui viene addirittura usata la Costituzione per restituire ai neofascisti la pagina che una «multinazionale estera» avrebbe usurpato con a complicità di «sinistra e globalisti». Perciò, se consideriamo la vicenda della pagina di Casapound dalla prospettiva della “polarizzazione”, cioè secondo la logica politico-mediatica ormai prevalente nel dibattito pubblico per molti analisti[1] possiamo pensare che tanto Facebook quanto Casapound abbiano ottenuto, in questa vicenda, il proprio risultato, nel reciproco contrasto messo in mostra e suggellato dalla sentenza giudiziaria.

Avviandomi al termine, torno finalmente al testo della sentenza che, nelle sue motivazioni, esplicita un’ipotesi di interpretazione della politica e del dibattito pubblico contemporaneo che paradossalmente anche su Dinamopress e gli altri siti d’informazione indipendenti colpiti da censura era stata formulata, cioè la necessità di affermare l’interesse pubblico che oggi detiene Facebook:
«È infatti evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network a esso collegati) con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (art. 49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano, come testimoniato dal fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente affida alla propria pagina Facebook i messaggi politici e la diffusione delle idee del proprio movimento».

L’affermazione è così diretta, evidente e significativa di per sé, che non necessita di ulteriore commento, se non per rimarcare come una piattaforma privata che esiste da appena 15 anni, ed è presente in Italia da appena un decennio, risulta così spazio ufficialmente dirimente per la presenza nel dibattito politico italiano, all’interno di un documento giuridico. A prescindere dallo specifico caso della pagina di Casapound, quindi, quali conseguenze avrebbe questa affermazione se fosse assunta dalla giurisprudenza e dalla politica?
Concludendo davvero, quanto scritto non esprime alcuna intenzione di riprendere le “polemichette” passate – uniche vere creature autoctone del territorio Facebook – sull’opportunità di rallegrarsi del fatto che la pagina di Casapound fosse stata chiusa. Se non altro perché la felicità delle persone degne, di questi tempi, è sempre preziosa. Il tentativo è piuttosto quello di buttare giù alcuni ragionamenti di lungo corso che continuamente inciampano in accadimenti come quello da cui siamo partiti, senza mai arrivare a troppa coerenza e linearità.

Seppur senza alcuna linea chiara da seguire, però, c’è la mia personale convinzione che all’incrocio tra le convulsioni istantanee della “politica” ufficiale e la trasformazione radicale che Facebook ha apportato a quella cosa sempre terribile conosciuta come “opinione pubblica”, vi siano territori nuovi, ancora sconosciuti e innominati.

[1]Le ricerche di Walter Quattrociocchi, tra gli altri, sottolineano bene la centralità della polarizzazione, come logica che chiarisce la confusione consumata attorno ai termini “fake news” e“hate speech”.

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